Giovanni Pascoli non è soltanto il sublime poeta delle cose umili e quotidiane, ma anche quello degli spazi immensi dell’universo.
L’artista di San Mauro è attratto allo stesso modo da entrambi gli aspetti; unica differenza è che mentre la contemplazione della campagna gli procura un senso di infinita pace e dolcezza, la visione del cosmo, al contrario, gli crea un’inafferrabile eppur bene evidente sensazione di smarrimento e angoscia.
Quest’ultima è protagonista e tema centrale de La vertigine (1909), uno dei più celebri dei Nuovi poemetti, una sorta di attestazione di resa da parte dell’autore, consapevole della sua piccolezza dinanzi al mistero e all’immensità del creato.
Di seguito l’analisi critica, metrica e stilistica del testo.
“La vertigine”: testo della poesia di Pascoli
Si racconta di un fanciullo che aveva
perduto il senso della gravità...I
Uomini, se in voi guardo, il mio spavento
cresce nel cuore. Io senza voce e moto
voi vedo immersi nell’eterno vento;voi vedo, fermi i brevi piedi al loto,
ai sassi, all’erbe dell’aerea terra,
abbandonarvi e pender giù nel vuoto.Oh! voi non siete il bosco, che s’afferra
con le radici, e non si getta in aria
se d’altrettanto non va su, sotterra!Oh! voi non siete il mare, cui contraria
regge una forza, un soffio che s’effonde,
laggiù, dal cielo, e che giammai non varia.Eternamente il mar selvaggio l’onde
protende al cupo; e un alito incessante
piano al suo rauco rantolar risponde.Ma voi... Chi ferma a voi quassù le piante?
Vero è che andate, gli occhi e il cuore stretti
a questa informe oscurità volante;che fisso il mento a gli anelanti petti,
andate, ingombri dell’oblio che nega,
penduli, o voi che vi credete eretti!Ma quando il capo e l’occhio vi si piega
giù per l’abisso in cui lontan lontano
in fondo in fondo è il luccichìo di Vega...?Allora io, sempre, io l’una e l’altra mano
getto a una rupe, a un albero, a uno stelo,
a un filo d’erba, per l’orror del vano!a un nulla, qui, per non cadere in cielo!
II
Oh! se la notte, almeno lei, non fosse!
Qual freddo orrore pendere su quelle
lontane, fredde, bianche azzurre e rosse,su quell’immenso baratro di stelle,
sopra quei gruppi, sopra quelli ammassi,
quel seminìo, quel polverìo di stelle!Su quell’immenso baratro tu passi
correndo, o Terra, e non sei mai trascorsa,
con noi pendenti, in grande oblìo, dai sassi.Io veglio. In cuor mi venta la tua corsa.
Veglio. Mi fissa di laggiù coi tondi
occhi, tutta la notte, la Grande Orsa:se mi si svella, se mi si sprofondi
l’essere, tutto l’essere, in quel mare
d’astri, in quel cupo vortice di mondi!veder d’attimo in attimo più chiare
le costellazïoni, il firmamento
crescere sotto il mio precipitare!precipitare languido, sgomento,
nullo, senza più peso e senza senso.
sprofondar d’un millennio ogni momento!di là da ciò che vedo e ciò che penso,
non trovar fondo, non trovar mai posa,
da spazio immenso ad altro spazio immenso;forse, giù giù, via via, sperar... che cosa?
La sosta! Il fine! Il termine ultimo! Io,
io te, di nebulosa in nebulosa,di cielo in cielo, in vano e sempre, Dio!
“La vertigine”: parafrasi
O uomini, se guardo nel vostro animo, cresce la paura che ho nel mio cuore. Io vi vedo immersi nel vento eterno prodotto dal movimento degli astri con la testa all’ingiù, sospesi nel vuoto.
Voi non siete come gli alberi del bosco che si aggrappano alla terra con le radici, né siete il mare, trattenuto nelle cavità terrestri da una forza contraria, dal soffio che scende dal cielo e non ha mai fine.
Ma chi, a voi, trattiene i piedi sulla terra? Voi non pensate a questo, perché andate con gli occhi e il cuore fissi ai vostri piccoli interessi, fissi alla terra, a questo informe pianeta buio che rotola nel vuoto, che vi porta all’oblio, cioè a negare la vostra precaria condizione di esseri non eretti, diritti, ma penduli.
Ma cosa provate quando guardate l’abisso, in fondo al quale lontano lontano brilla Vega (la stella della costellazione della Lira)? Allora riuscite a comprendere la realtà della vostra misera condizione.
Io, tutte le volte che guardo nel vuoto, istintivamente mi aggrappo a una rupe, a un albero, a uno stelo, a un filo d’erba, a un nulla, per non cadere nel vuoto.
Oh! se la notte, almeno lei, non esistesse! Quale gelido orrore pendere su quell’immenso baratro di stelle (il cielo) lontane, fredde, bianche, azzurre e rosse, sopra quei gruppi, sopra quegli ammassi, sopra quell’enorme accumulo di stelle!
Tu attraversi correndo quell’immenso baratro che è il cielo, o Terra, e il tuo percorso non ha mai fine, con noi pendenti, negando la realtà che ci circonda, dai sassi.
Io sto sveglio. La tua corsa mi colpisce il cuore con un vento gelido (un brivido di orrore). Sto sveglio. Mi fissa di laggiù con i suoi occhi rotondi, per tutta la notte, l’Orsa Maggiore: se mi si strappi, se tutto il mio essere sprofondi in quel mare
di stelle, in quell’oscuro vortice di mondi infiniti!
Vedere di momento in momento più chiare le costellazioni, crescere il cielo sotto il mio precipitare!
Precipitare che diventa quasi come un dissolversi, come staccarsi da un peso e da un senso. Sprofondare di mille anni in un attimo!
al di là da ciò che io possa umanamente vedere e pensare,
perdermi, non trovare mai posa, dall’una all’altra immensità di spazio, verso l’infinito!
Forse, precipitando sempre più giù, sperare… che cosa? La sosta! Il fine! Il senso ultimo dell’esistenza! Io, sperare di incontrami con te, di nebulosa in nebulosa,
di cielo in cielo, invano eppur sempre, Dio!
Spiegazione, metrica e linguaggio
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La vertigine è un poemetto in terzine dantesche diviso in due parti in cui l’autore immagina di precipitare in un mondo senza fine né riposo. In questa tumultuosa e inarrestabile caduta verso il basso, spera di trovare il senso ultimo di ogni cosa, Dio. Sente forte la possibilità che tale speranza resti delusa e risulti vana eppure, al tempo stesso, avverte quanto essa sia ugualmente inesauribile e vitale.
Come sempre accade nella poetica pascoliana, anche ne La vertigine l’uso del linguaggio è strettamente funzionale al significato del testo.
Nella prima parte abbondano i termini che servono a rendere la sensazione di caduta e sprofondamento, tra cui pender, abbandonarvi, baratro, pendenti, precipitare, s’effonde, penduli, sottoterra e cupo vortice, mentre nella seconda c’è una sovrabbondanza di procedimenti analogici, ovvero seminìo/polverìo, fondo/posa, le costellazioni/il firmamento, senza più peso/senza senso.
Inoltre risulta evidente la tendenza di Pascoli ad utilizzare un linguaggio tecnico, con termini specialistici e precisi, in tal caso nomi astronomici, come Vega e Grande Orsa (per Orsa Maggiore).
L’inizio della poesia, “Si racconta di un fanciullo che aveva perduto il senso della gravità”, un verso costituito da due endecasillabi uniti da un enjambement, funge da protasi, mentre l’espressione “La sosta! La fine Il termine ultimo! Dio” è un climax ascendente.
Seminìo e polverìo sono forme onomatopeiche, tipiche della poetica pascoliana.
Da evidenziare, infine, l’originalissimo uso della punteggiatura: i frequenti punti esclamativi e interrogativi concorrono a rendere il senso di sospensione e di vuoto che il testo vuole comunicare.
In tal modo, infatti, il lessico diventa fortemente allusivo, senza che siano date risposte precise agli interrogativi posti e lasciando il lettore nel dubbio.
Commento a “La vertigine”: la piccolezza dell’uomo di fronte al creato e la ricerca di Dio
C’è un Pascoli (apparentemente) dimesso e quotidiano e ce n’è un altro che si interroga sui grandi enigmi dell’esistenza.
Il poeta romagnolo tocca entrambi i registri con la medesima passione e con immutato interesse, riuscendo in ogni caso a far breccia nel cuore e nella mente di chi legge, che viene in tal modo stimolato a porsi egli stesso delle domande.
Se al centro della celeberrima e riuscitissima Myricae ci sono le piccole cose, quelle più umili e quotidiane, nei Nuovi Poemetti, il cui contenuto consiste in tematiche varie, l’autore giunge a trattare l’incognita del cosmo e a chiedersi quale significato assuma la vita umana nell’ambito dei mondi infiniti che la circondano e di cui essa stessa fa parte.
La vertigine, insieme ai poemetti Il ciocco e Il bolide, affronta il tema dello smarrimento cosmico.
Pascoli avverte e sente fortissima la presenza inspiegabile e inquietante del mistero, di fronte a cui si percepisce impotente, ma anche profondamente angosciato nonostante l’indiscutibile attrattiva che esercita sul suo animo.
La visione dell’universo, che vede costituito da mondi infiniti e senza confini sospesi in un vuoto immenso e assoluto, gli procura soprattutto paura, un turbamento personale ma che può estendersi al genere umano tutto, piccolo, smisuratamente piccolo e precario rispetto all’incommensurabile grandezza di ciò che lo circonda.
Sono, tutto sommato, gli interrogativi che l’uomo si pone fin dalla notte dei tempi: chi siamo, da dove veniamo e dove andiamo?
Un turbinio di quesiti senza risposta che provoca una vertigine, probabilmente, in ognuno di noi e al quale ciascuno dà la risposta che gli sembra più giusta: Dio, o meglio la sua ricerca, è quella di Pascoli.
Pascoli e la ricerca, vana ma insopprimibile, di Dio e del senso della vita
Quale aspirazione può avere uno spirito sgomento dinanzi all’infinito? Quale unica speranza gli rimane per superare il timore e la frustrazione che derivano dalla constatazione della irrisorietà della propria natura?
La sola strada percorribile è trovare Dio, o almeno cercarlo e non smettere mai di farlo, anche e soprattutto quando sembra che non si riesca ad approdare a nulla.
Per tutta la vita Pascoli è pervaso da una continua e febbrile brama religiosa, che pur fra mille dubbi coincide con l’affannoso desiderio di pervenire alla certezza dell’esistenza di Dio. Una smania che si accresce proprio quando l’orrore e la vertigine del vuoto, dice, diventano più forti, quindi di notte, quando è buio; le tenebre acuiscono la voglia e la speranza di trovare una logicità a ciò che ci appare irrimediabilmente senza ragione. Tale assoluta e definitiva verità è, per l’appunto, Dio.
L’eventualità che la ricerca dia un esito negativo disorienta il poeta, che però non rinuncia al proprio cammino spirituale verso un Dio al quale, anzi, sente di anelare con un’intensità maggiore tanto più gli appare irraggiungibile.
Ma la volontà di Pascoli è comune a quella di tanti uomini perché, come afferma Mario Pazzaglia
Dall’angoscia del mistero nasce un’ansia d’altezza, una disperata e vana, e tuttavia appassionata, ricerca di Dio, che esprime l’ansia di infinito del cuore dell’uomo.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “La vertigine” di Pascoli: la poesia sul senso di smarrimento di fronte all’immensità dell’universo
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