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Gli scrittori, si sa, hanno con l’estate un rapporto assai complicato. Malgrado Albert Camus abbia fatto della sua “invincibile estate” una garanzia di resilienza, altri grandi autori nei loro appunti sparsi sui vari taccuini non tacevano certo le loro lamentele riguardo la bella stagione del sole. Celebre l’aforisma di Mark Twain che è diventato il motto degli scansafatiche, ovvero:
L’estate è quel momento in cui fa troppo caldo per fare quelle cose per cui faceva troppo freddo d’inverno.
La lamentele sull’estate e il caldo, del resto, si sprecano nei taccuini degli scrittori; ma non è questo il punto. Pare più interessante notare, invece, che l’estate in generale non è il periodo più amato dalle menti creative. Natalia Ginzburg, ad esempio, la odiava e uno dei suoi appunti più tragicomici annota:
Passato il Ferragosto, mi sembra di uscire da un incubo.
Difficile lavorare in estate; soprattutto quando il mondo intero pare complottare per una pausa forzata, le strade cittadine sono deserte, il traffico quotidiano si allenta. Difficile persino scrivere, quando le alte temperature assalgono forti e feroci come un mal di testa. L’odio di Ginzburg, in quest’ottica, ci appare giustificato.
C’era invece chi, come Virginia Woolf, cercava di approfittare delle vacanze estive per cercare l’ispirazione letteraria, come testimonia una sua celebre lettera a Vanessa Bell:
In generale finisco per andare alla spiaggia, - e cercarmi un angolino dove sedermi a trarre figurazioni fantastiche dalla forma delle onde.
Sappiamo bene quanto quelle onde l’avessero ispirata, eppure è in un altro libro che Woolf ci consegna il suo più formidabile - e struggente - ritratto d’estate. La sua penna riesce a catturare la sostanza più effimera e fugace della stagione estiva, la luce calda e radente del periodo più luminoso dell’anno; ma non fu certo la sola.
Insomma, cosa pensavano gli scrittori dell’estate?
Cerchiamo di analizzare questa stagione rovente da un punto di vista prettamente letterario attraverso frasi, aforismi, citazioni.
L’estate nelle parole degli scrittori: da Shakespeare a Virginia Woolf
Ogni stagione ha il suo bello e gli scrittori si prefiggono di catturarlo attraverso le parole, proprio come i pittori cercano di riportare fedelmente il paesaggio sulla tela. L’estate contiene in sé un immaginario affascinante sia dal punto di vista descrittivo che sensoriale: caldo sole rovente che si mitiga nella più dolce frescura della sera (se si è fortunati), il ronzio degli insetti nei campi, le onde e i flutti marini, le lunghe giornate in cui la sera tarda a calare e allora con la luce si allungano i ricordi dei tempi perduti.
Nelle pagine degli scrittori ritroviamo questo e molto altro: un controverso rapporto di amore e odio con la stagione del sole.
Una delle testimonianze più antiche dell’estate la troviamo nelle pagine di Ovidio, più precisamente negli Amores, dove il poeta scrive:
“Nel calore dell’estate e a metà del giorno
Per riposare le mie membra su un letto mi sono sdraiato.
Neppure il grande poeta latino era immune dall’otium estivo, anzi, prosegue la descrizione raccontando di aver ricreato nella propria angusta stanza la frescura dell’ombra di un bosco, in attesa del tramonto del sole.
Un’altra rovente descrizione dell’estate la troviamo in William Shakespeare, quando nel terzo atto di Romeo e Giulietta scrive dei “giorni caldi” in cui si agita il “sangue pazzo”: il calore estivo non è proprio rincuorante nella visione shakesperiana, anzi, sembra essere preludio di una rissa.
“Il giorno è caldo, i cappelli sono in giro,
e se ci incontriamo non sfuggiremo a una rissa,
perché ora, in questi giorni caldi, si agita il sangue pazzo”.
Il mese di agosto assume invece i contorni di un’ode nelle pagine di prosa di Charles Dickens che, nelle prime righe del sedicesimo capitolo del Circolo Pickwick, scrive un ritratto commovente e densamente lirico del mese d’agosto:
“Non c’è mese in tutto l’anno in cui la natura assuma un aspetto più bello che nel mese di agosto... I frutteti e i campi di grano risuonano del ronzio del lavoro; gli alberi si piegano sotto i folti grappoli di frutti ricchi che piegano i loro rami a terra; e il grano, ammucchiato in graziosi covoni, o ondeggiante a ogni leggero soffio che lo sovrasta, come se corteggiasse la falce, tinge il paesaggio di una tonalità dorata. Una pastosa morbidezza sembra incombere su tutta la terra...”
Un’analoga descrizione la troviamo in Oliver Twist, quando lo scrittore, nel trentatreesimo capitolo, festeggia l’arrivo dell’estate come “stagione più fiorente”. Del resto è comprensibile, Dickens era inglese, dunque non ha mai patito un’estate rovente: quella da lui descritta era, in fondo, solo una primavera più mite.
La terra aveva indossato il suo manto di verde brillante e spargeva i suoi profumi più ricchi. Era il fiore e il vigore dell’anno; tutte le cose erano felici e fiorenti.
Gli stessi accenti entusiasti li ritroviamo nella britannica Charlotte Brontë, quando descrive la natura che avvolge la sua celebre eroina, Jane Eyre, in una sera d’estate:
Era asciutta, eppure calda del calore del giorno d’estate. Guardai il cielo; era puro: una stella gentile scintillava appena sopra la cresta del baratro. La rugiada cadeva, ma con una dolcezza propizia; nessuna brezza sussurrava.
A coronamento di questa sinfonia letteraria all’estate troviamo le parole di Henry James, anche lui inglese, che scrive:
“Summer afternoon - pomeriggio d’estate; per me sono sempre state le due parole più belle della lingua inglese”.
Gli autori inglesi, è comprensibile, elogiano l’estate, dal momento che la possono godere così poco: si tratta di un vero e proprio evento, non solo dal punto di vista meteorologico.
Più realistiche e malinconiche le parole della poetessa Sylvia Plath che in The Unabridged Journals, osserva un fenomeno poco narrato in letteratura, ovvero la pioggia d’agosto, che pare come un ossimoro:
“Pioggia d’agosto: il meglio dell’estate se n’è andato, e il nuovo autunno non è ancora nato. Lo strano tempo irregolare”.
Plath ci sta narrando un tempo dell’anima; ma del resto anche altri grandi autori erano soliti specchiare all’esterno un proprio stato interiore. Ne Il Grande Gatsby di Francis Scott Fitzgerald l’estate è, addirittura, cristallizzata in un ricordo, in un sogno d’amore perduto. Il protagonista, Jay Gatsby, tenta di riconquistare l’estate perduta in cui lui e Daisy Buchanan si innamorarono.
“E così, grazie al sole e alle grandi esplosioni di foglie sugli alberi che crescevano come crescono le cose nei film accelerati, ebbi la familiare certezza che la vita ricominciava con l’estate.”
Il più consolante e, da un certo punto di vista, assolutorio ritratto dell’estate ce lo consegna però Virginia Woolf. Sempre lei, la cara Virginia. Non solo uno dei suoi romanzi più belli, Gita al faro, presenta una cospicua parte ambientata in estate: la sezione finale di To the Lighthouse vede infatti contrapporsi due estati - una presente, l’altra passata - che si avvicendano nel tempo, il momento estivo sembra essere un tentativo di ricongiungimento, benché impossibile. Il romanzo è ambientato a Talland House, la residenza estiva della famiglia Ramsay sull’isola di Skye. Tuttavia è nel successivo Mrs Dalloway (1925), il suo capolavoro, che troviamo la descrizione più perfetta di un “giorno d’estate”:
“Così, in un giorno d’estate, le onde si raccolgono, si sbilanciano e cadono; si raccolgono e cadono; e il mondo intero sembra dire sempre più ponderatamente “questo è tutto”, finché anche il cuore del corpo che giace al sole sulla spiaggia dice “questo è tutto”. Non temere più, dice il cuore. Non temere più, dice il cuore, affidando il suo fardello a qualche mare, che sospira collettivamente per tutti i dolori, e rinnova, inizia, raccoglie, lascia cadere.”
Ogni scrittore, è certo, ha la propria personale versione d’estate: taluni più vivace, altri più malinconica, ma nel profondo l’estate porta sempre con sé il profumo incontrastato della nostalgia. La sentiamo pungente nell’odore dell’erba appena falciata, nel canto delle cicale che si spegne lento nel crepuscolo, nella luce radente che si prolunga inesausta sino a sera inoltrata.
Ci intristisce che l’estate sia destinata a finire, perché come acutamente afferma Woolf: “questo è tutto”, ci appare come il compimento sfolgorante della vita, cui segue un amaro declino. Sono numerosi gli autori, non solo Fitzgerald in Gatsby, che identificano l’estate con la stagione della giovinezza e quindi con l’eterna nostalgia di un tempo in cui tutto sembrava possibile. L’estate è la luce che trionfa sul buio e ci ricorda, nonostante tutto, che l’oscurità non prenderà mai il sopravvento.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Cosa pensavano gli scrittori dell’estate? Frasi e appunti sparsi di odio e amore
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