La raccolta L’usignolo della Chiesa Cattolica, pubblicata da Longanesi nel 1958 (un anno dopo “Le Ceneri di Gramsci”, ma per molte composizioni anteriore), contiene poesie scritte da Pier Paolo Pasolini tra il 1943 e il 1949.
Si può dire che esprimano intime lacerazioni fra “carne e cielo” per approdare al poemetto “La scoperta di Marx” in cui viene avvertito il bisogno dell’intellettuale impegnato:
quando in me avrà / vinto la resistenza / del mio cuore leggero? // se, con te, non ho anima / d’amore, ma una fiamma / di lieve carità?
Vi sono testi di carattere religioso tra invocazione e rifiuto del divin, tra senso del peccato e desiderio di vita libera, e altri in cui Pasolini confessa la propria omosessualità. Intrigante l’intreccio tra passione, maternità e religione all’interno delle parole “peccato” e “purezza” che rivelano sensi di colpa, nonché sensuali inquietudini.
Nell’immagine dell’usignolo, che appare nell’omonimo poemetto in prosa, il poeta incarna se stesso stesso tra vissuti di “rimpianto” e di “delusione”.
Il primo sentimento è legato alla vita friulana dell’infanzia trascorsa in una società contadina che, povera e incontaminata, innocente e arcaica, ritmava i suoi eventi solstiziali ed equinoziali con magiche ritualità. Alla purezza di un passato idilliaco e metastorico contrappone così la delusione che gli deriva non solamente dal tradimento della Chiesa cattolica, ma soprattutto dall’impossibilità che la poesia possa conciliare la dialettica di “finito” ed “infinito”.
Prima della pubertà, Pasolini, come egli stesso scrive, era rimasto impressionato dall’effigie di Cristo Crocifisso; benché gli suscitasse pensieri non apertamente illeciti, volgeva subito i suoi sentimenti alla pietà e alla preghiera:
Poi nelle mie fantasie affiorava espressamente il desiderio di imitare Gesù nel suo sacrificio per gli altri uomini di essere condannato e ucciso benché affatto innocente. Mi vidi appeso alla croce, inchiodato. I miei fianchi erano succintamente avvolti da quel lembo leggero e un’immensa folla mi guardava. Quel mio pubblico martirio finì col diventare un’immagine voluttuosa e un po’ alla volta fui inchiodato col corpo interamente nudo...
Nascono dalla memoria fantasie proiettive, un continuo e drammatico inseguimento di un tempo ontologico e cristologico vissuto come una sorta di premonizione del suo pubblico martirio. Siamo nella genesi del componimento La crocifissione (1948-49), recante come epigrafe una frase di Paolo desunta dalla “Lettera ai Corinzi”:
Ma noi predichiamo Cristo crocifisso: scandalo pe’ Giudei, stoltezza pe’ Gentili.
Scopriamo testo, analisi e commento del poemetto.
“La crocifissione” di Pasolini: analisi e commento del poemetto
La necessità dello scandalo sta per Pasolini nell’offerta del proprio corpo come “oggetto sacrificale” che sanguina. Straordinariamente evocativo è il primo novenario che, evocando una rappresentazione sacra del Trecento, mostra nella luce d’Aprile il corpo martoriato di Cristo: incarnato nella storia, “esibisce” la morte agli occhi di tutti e perfino la madre ha lo sguardo sacrale rivolto alle sue sofferenze fisiche:
Tutte le piaghe sono al sole ed Egli muore sotto gli occhi di tutti: perfino la madre sotto il petto, il ventre, i ginocchi, guarda il suo corpo patire.
L’alba e il vespro
Gli fanno luce sulle braccia aperte e l’Aprile intenerisce il Suo esibire la morte a sguardi che lo bruciano.
L’inquietudine è tutta rivolta alla comprensione del mistero della Croce, della violazione del pudore ed è l’introspezione a fargli cercare risposte sulla gogna, cui la carnalità de Cristo è stata sottoposta, sul motivo della sua pubblica esposizione: “Perché Cristo fu Esposto in Croce?”:
Oh scossa del cuore al nudo corpo del giovinetto… atroce offesa al suo pudore crudo…
Altre domande si susseguono con versi di una disarmante lucidità e le risposte rivelano la necessità di ogni scherno vissuta per la chiarezza del cuore:
Bisogna esporsi (questo insegna il povero Cristo inchiodato?),
la chiarezza del cuore è degna di ogni scherno, di ogni peccato di ogni più nuda passione…(Questo vuol dire il Crocifisso? Sacrificare ogni giorno il dono rinunciare ogni giorno al perdono sporgersi ingenui sull’abisso).
Nel novenario di chiusura estrema l’immedesimazione del poeta che assiste all’agonia e alla passione per “testimoniare lo scandalo”.
Il mistero dell’autosacrificio agisce prepotentemente nella sua psiche, riconoscendo al Cristo la forza suprema dell’amore. Per elevarsi occorre ridimensionarsi e l’imitazione migliore è quello del Cristo “deriso” e “martoriato”.
Il volersi identificare con Lui è fedeltà all’amore che ciascuno può generare dentro di sé:
Noi staremo offerti sulla croce, alla gogna, tra le pupille
limpide di gioia feroce, scoprendo all’ironia le stille del sangue dal petto ai ginocchi, miti, ridicoli, tremando d’intelletto e passione nel gioco del cuore arso dal suo fuoco, per testimoniare lo scandalo.
Spietate, ciniche, volgari e crudeli “le pupille / limpide di gioia feroce” come a volere esprimere la distruzione dell’uomo, ma è l’esposizione alla cieca violenza che senza evitarla attesta la lotta contro di essa.
È la sofferenza delle carni torturate dal compiacimento dei detrattori a far vincere la storia “interiore” su quella “esteriore” che è quella dell’indifferenza e del disinteresse.
Il rapporto di Pasolini con il Cristo, considerato come il “più alto archetipo di umanità mai esistito”, ritornerà più volte anche nella produzione filmica fino a raggiungere il vertice, dopo la comparsa ne “La ricotta” del 1963 (preceduto da “Mamma Roma” girato nel 1962), nel “Vangelo secondo Matteo” del 1964 (dedicato “alla cara, lieta e familiare memoria di Giovanni XXIII”).
Malgrado il rifiuto del cattolicesimo, la figura del Cristo sarà presente nel suo animo: come per Jung, una palpitante realtà potremmo dirla.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “La crocifissione” di Pier Paolo Pasolini: quando il sacrificio diventa amore universale
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