Diego Agostini nasce nel 1964. Nel 1988 si laurea in Psicologia a Padova e subito viene assunto dalla Pirelli come responsabile della selezione del personale. Matura un’esperienza decennale come Direttore Sviluppo Risorse Umane per grandi aziende. Nel 2005 inizia a collaborare con l’Università Cattolica di Milano, dove tiene lezioni di Organizzazione Aziendale. Ha pubblicato due libri dedicati allo sviluppo delle potenzialità individuali: “Percorsi positivi” (2000) e “Punti di forza” (2005), entrambi editi da Franco Angeli. Da pochissimo è tornato in libreria stavolta con un romanzo, “La fabbrica dei cattivi”, pubblicato da Giunti.
Diego, intanto ti do il benvenuto a quella che non sarà la solita intervista chilometrica, ma solo 4 chiacchiere contate.
- Prima Chiacchiera: Partiamo dal tuo ultimo romanzo “La fabbrica dei cattivi”. Alex e Mara, in vacanza negli USA, lasciano la piccola Giulia a dormire in macchina giusto il tempo di completare un pagamento in un negozio di un centro commerciale. Per le leggi della Florida sono colpevoli di abbandono di minore e diventano i cattivi. Chi sono le vittime e chi i carnefici di questa tua storia? Mi sembra che il confine fra giustizia e reato si modifichi a seconda del punto di vista. È possibile tracciarlo senza il rischio che qualcuno finisca dalla parte sbagliata?
Accidenti che domanda! Altro che chiacchiere. Beh prima di tutto grazie a te, Matteo, per l’ospitalità. Cominciamo, allora. Questo è un romanzo particolare. Dove tutto si ribalta e la semplicità disarmante della vicenda è tale che il lettore alla fine senza accorgersi si pone appunto questa domanda: ma chi sono le vittime, gli eroi, i carnefici? Vediamo di svelare le carte. Bisogna guardare la storia in filigrana per coglierne i significati, e così facendo troviamo anche qualche sorpresa. Le vere vittime sono coloro che sembrano fare solo da sfondo, i cittadini, inconsapevoli della manipolazione cui sono sottoposti con la posticcia protezione che viene offerta loro dal sistema. Il vero eroe è il rapporto fra Alex e Mara, la cui solidità resiste alle pressioni fortissime degli eventi. I carnefici infine sono coloro che si sentono eroi, i quali non si rendono conto di danneggiare proprio chi dovrebbero proteggere, nel loro aderire in modo meccanico a un copione. Se ci limitiamo alla storia in sé, però, troviamo che persecutore, vittima ed eroe sono racchiusi nello stesso Alex. E’ lui che commette l’errore ed entra nel ruolo del carnefice. Ma è lui che sperimenta la reazione spropositata del sistema, e questo lo fa diventare vittima. Però solo uscendo da questo ruolo la storia ha un senso, perché recuperando la sua volontà Alex diventa protagonista e prende il sopravvento sulla situazione. Un po’ complicato? Spero di no. Dopotutto la storia è semplice nel suo svolgimento, ma per contro può essere letta su più piani. Il lettore può far funzionare il suo cervello e trovare tante dimensioni su cui concentrare la sua attenzione. Questa è la potenzialità che offre la descrizione dell’esperienza psicologica dalla prospettiva del protagonista: è come essere lì con lui… Anzi, di più: il mio intento è quello di trasportare il lettore dentro di lui. A questo punto diventa quindi corretta la tua osservazione: il confine tra giustizia e reato cambia a seconda del punto di vista. La dicotomia buono/cattivo viene smontata e diventa legittimo il tuo dubbio, perché sembra impossibile non correre il rischio che si finisca dalla parte sbagliata. Ma solo apparentemente. Infatti il libro, attraverso il pensiero di Alex, una soluzione ce la dà. Infatti solo se consideriamo la persona possiamo recuperare quel buon senso che l’applicazione cieca della regola fa perdere facilmente. Sintesi della prima chiacchiera: come ci siamo messi nel libro dal punto vista di Alex, nella vita mettiamoci dal punto di vista dell’altro, prima di giudicarlo.
- Seconda Chiacchiera: Sembra più importante trovare uno che vesta i panni del colpevole rispetto allo stabilire la verità dei fatti, che può prevedere in qualche caso l’assenza di un colpevole. Perché l’America, il paese dove tutto funziona, ha così bisogno di prendersela con qualcuno? Non trovi che questo meccanismo sia piuttosto comune anche in Italia? Quanto incide nelle delicate decisioni della Giustizia il desiderio del popolo di vedere il volto del mostro?
Partiamo dalla fine della tua domanda. Il desiderio di vedere il mostro, di trovarlo nella persona per bene che vive con noi è ciò che accomuna il desiderio del popolo, in America come da noi. Ma è la risoluzione del problema che cambia radicalmente, nelle due culture. Mentre da noi subentra una reazione compassionevole e perdonista, in America al contrario scatta la modalità punitiva e distruttiva. Figlie di due diversi approcci. Il nostro è dogmatico: partiamo dal principio della salvezza di ciò che c’è di buono. Il loro è pragmatico: puntano all’intento di eliminare ciò che può costituire un rischio. Lo vediamo anche nel problema dell’immigrazione: noi non la ostacoliamo con la forza perché abbiamo paura di uccidere. Loro lo fanno perché hanno paura di perdere la loro sicurezza. Da qui le diverse modalità con cui la giustizia risponde, ed ecco allora la differenza macroscopica. Da noi la giustizia si disarma, si arrende di fronte alla persona in quanto parte debole che in qualche modo alla fine andrà salvata. Da loro la giustizia diventa feroce, si alimenta del bisogno di protezione e delle risorse economiche ad esso allocate, e diventa un grande business. Non è compito mio giudicare il sistema americano, né dire quale sia il migliore, perché come visto prima questo dipende dal punto di vista che assumiamo. Se assumiamo il punto di vista efficientista, loro vincono e noi perdiamo. Se mettiamo al centro l’uomo, loro perdono e noi vinciamo. Questo aspetto della propria cultura è la grande scoperta di Alex, che ammira il mito della produttività senza pensare che non c’è una cultura migliore: ciò che perdi da un parte guadagni dall’altra. Ce lo racconta lo stesso Alex:
“Ancora in aeroporto, persino la vista delle guardie indolenti e annoiate che ti degnano a malapena di un’occhiata invece di indicarti la strada che devi seguire, perché tanto te la devi trovare da solo, mi fa sentire sollevato. Le abbraccerei, ora, ringraziandole per quell’atteggiamento scomposto ma indulgente. Vedo tutto attraverso una luce diversa, ora.”
Tutto gli diventa chiaro. Prendersela con qualcuno è la condizione per far funzionare le cose. Finché qual qualcuno non era lui, tutto gli sembrava adeguato. Ora che ha sperimentato cosa significhi essere quel qualcuno, il prezzo da pagare gli sembra troppo alto. Cambia la prospettiva, cambia la scelta. Sintesi della seconda chiacchiera: scegli bene il tuo punto d’osservazione, perché la realtà cambia, anche tanto, a seconda della tua scelta.
- Terza Chiacchiera: Quello di Alex è il punto di vista principale. Mi ha colpito la sua lucidità. Anche in momenti in cui chiunque si sarebbe lasciato prendere dal panico, lui riesce ad analizzare quello che gli sta succedendo indagando anche nei pensieri delle persone con cui si trova ad avere a che fare. Come ha contribuito la tua esperienza lavorativa nella caratterizzazione di un personaggio così complesso?
Tantissimo, perché Alex utilizza ogni mia competenza. Il mantenimento della lucidità e dell’obiettività di giudizio è l’unico elemento di sopravvivenza. Suo nella storia tanto quanto nostro, nella vita di tutti i giorni. In questo, solo la lettura ci può aiutare: gli altri meccanismi di informazione o racconto non richiedono uno sforzo da parte del fruitore che lo arricchisca tanto quanto la compagnia di un libro. Quella sensazione di smarrimento che sperimentiamo alla fine di una storia che ci ha colpiti, che mai potrà vivere un non lettore, è in fin dei conti la prova che siamo in vita e che qualcosa si è mosso dentro di noi. Sintesi della terza chiacchiera: leggete, per crescere veramente.
- Quarta Chiacchiera: Il sottotitolo del tuo libro “Punti di forza” è “Scopri, misura e costruisci il tuo talento”. Mi ha fatto pensare a una recente intervista all’autore portoghese Antonio Lobo Antunes che, parlando della scrittura, dice “Forse il talento non esiste. Ci sono solo persone che provano e provano e provano ancora”. In tutti questi anni passati per lavoro a stretto contatto con le persone, che idea ti sei fatto del talento? Esiste davvero, oppure è una miscela di passione, volontà, estrema dedizione e fortuna? Ci dai qualche consiglio lampo per chiunque voglia riconoscere e mettere a frutto le proprie abilità?
Grazie Matteo, mi riporti nella mia area di comfort, l’efficacia personale! Partiamo dalla scrittura: nel mio caso Antunes ha ragione. Riempio febbrilmente dei taccuini che poi tengo solo per me, e con cose scadentissime, te lo posso assicurare! Butto giù ciò che mi passa per la mente. Spesso solo slogan o parole chiave. Però ecco che poi salta fuori la “Fabbrica di cattivi”, che scadente non è. O almeno così mi dicono i lettori! Dunque nella tua splendida domanda hai già dato una risposta. A me ora il compito di rifinirla. Il talento c’è, e sarebbe assurdo negarlo. Ma il risultato è frutto di talento+preparazione. Il problema però è che più gli psicologi guardano a come si raggiungono i risultati, minore sembra essere il ruolo del talento e maggiore quello della preparazione. Negli anni ’90 uno psicologo di nome Anders Ericsson face degli studi sui talenti musicali dividendo violinisti e pianisti in tre gruppi, in base ai risultati raggiunti: Eccezionali, buoni e standard. Cosa scoprì? Che pur avendo i musicisti una diversa dotazione iniziale in termini di talento, i livelli raggiunti non erano correlati alle abilità naturali ma alla quantità di lavoro che essi erano stati disponibili a sostenere per arrivare al risultato. I “top performer” non erano i più dotati, ma quelli che lavoravano più duramente degli altri. Non semplicemente “di più”: molto, molto di più. Ericsson scopri che a parità di talento un pianista amatore aveva accumulato duemila ore di esercizio, mentre il professionista aveva raggiunto le diecimila. Da qui la regola delle “diecimila ore”, che gli studiosi ritengono fondamentale per eccellere in qualsiasi campo. Sintesi della quarta chiacchiera: non mi importa se hai talento o meno, ma se hai scritto almeno duemila ore prima di finire il tuo libro, sarà probabilmente bello. Con cinquemila lo sarà sicuramente. Con diecimila sarà un capolavoro.
Questa era l’ultima chiacchiera: non mi resta che ringraziarti per aver accettato il mio invito e salutarti. Ci lasci un tuo messaggio per i lettori?
Finire un libro è faticoso, essere pubblicati è un’impresa, essere letti è un privilegio. Ma sono interviste come questa che danno senso a tutto. Leggete SoloLibri, riflettete cinque minuti, poi prendete un quadernetto e scrivete, scrivete, scrivete. Senza chiedervi perché.
Grazie Diego, e in bocca al lupo da me e da tutto lo staff di SoloLibri!
Grazie e a voi per l’opportunità e complimenti ancora.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Diego Agostini
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