Si corre in questi giorni il Giro d’Italia: quella del 2024 è l’edizione numero 107, in 21 tappe. Se molte cose sono cambiate, lo spirito, quello, resta intatto.
La Corsa Rosa appassiona tifosi e sportivi, tra sfide agonistiche e riscoperta di luoghi e panorami imperdibili. E ispira, ora come allora, la letteratura. Perché i giornali da sempre inviano al seguito della carovana grandi cronisti e scrittori. Succede con Curzio Malaparte, Achille Campanile, Vasco Pratolini.
E nel 1949 con Dino Buzzati. Di quel Giro epico restano 25 articoli scritti per il Corriere della Sera e raccolti da Mondadori in un libro: Dino Buzzati al Giro d’Italia (2018) a cura di Claudio Marabini.
Dino Buzzati e il Giro d’Italia
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È l’edizione di Coppi e Bartali. La sfida epica si dipana sullo sfondo di un’Italia in piena ripresa post bellica.
Buzzati ha già scritto Bàrnabo delle montagne (1933), Il segreto del Bosco Vecchio (1935), Il deserto dei Tartari (1940), I sette messaggeri (1942).
Nella favola del Giro traspare il suo universo magico, la narrazione della sfida continua imposta dal destino. Alla fine come sempre giornalismo, cronaca e narrativa si fondono e danno vita a un racconto a puntate godibilissimo ad anni di distanza.
Dal 18 maggio al 22 giugno segue il Giro, il numero 32, in auto con Ciro Verratti cronista sportivo del Corriere, riempie il taccuino di appunti e schizzi di ciò che vede. Poi a fine tappa trasforma emozioni, incontri, fatti in articoli, dettati al telefono al giornale. Sono perfetti e perfettamente legati fra loro.
Gli articoli di Dino Buzzati sul Giro d’Italia
Dino Buzzati esordisce dialogando con il lettore. Confessa la sua inadeguatezza in un articolo intitolato non a caso “Correre è meraviglioso” che è già dichiarazione d’amore.
Per un complesso di circostanze probabilmente legate ai capricci del destino e che sarebbe ormai vano recriminare, colui che scrive oggi, cronista al seguito del Giro d’Italia, non ha mai visto una corsa ciclistica su strada. Parecchie cose, non moltissime, chi scrive ha visto correre, in un modo o nell’altro sopra la superficie del mare e della terra; mai però i grandi ciclisti in gara sotto il sole, con il numero attaccato alla schiena, i tubolari a tracolla e la faccia ingessata di polvere.
I veterani lo catechizzano. Chi dice meraviglie del Giro, chi lo dissacra. Ma è nell’addetto ai lavori che si lamenta tutto il santo giorno e impreca alla maledettissima volta che ha accettato di venire al Giro anche quest’anno che sembra concentrarsi lo sguardo divertito dell’autore. Con lui il cronista si identifica:
Lo osservo adesso, quando mugugna e se ne va intorno con quel suo fare da imbronciato bulldog, lo osservo con grandissimo piacere e mi domando: da quanto tempo non vedevo un uomo così felice?
In realtà del Giro Buzzati rivendica lo spirito del predestinato. Racconta così ricordi e coincidenze del passato che assumono la dimensione onirica del mondo dell’infanzia.
Ho visto correre sulla via Aurelia, tanti anni fa, un ciclista in maglietta che si allenava e uno disse che era Girardengo, ma io credo di no, perché non gli assomigliava.
E poi:
Ho corso anch’io infine da ragazzo a cavallo di una bicicletta a cui avevo tolto i parafanghi perché assomigliasse un poco a quelle dei campioni; e mi ricordo che una sera tallonai per ben due interi giri del Parco la ruota, giuro, di Alfonsina Strada, che alla fine mi fece scoppiare lasciandomi scornato; tanto più che, lei saettando via, fui abbrancato da un vigile urbano per la multa (eccesso di velocità: e a quei tempi ammontava alla enormità di lire venti).
Il Giro d’Italia 1949
Si parte da Genova in nave diretti a Napoli e poi a Palermo dove è fissato il via.
E il paragone è immediato:
Dovremmo ora rinunciare al paragone così istintivo coi Mille di Quarto? Troppo banale forse? Nemmeno per idea. Non ci rinunciamo assolutamente né adesso né in eventuali prossime occasioni, se si presenteranno. Sarebbe anche tradire la verità. Perché in chi ha inventato questo start senza precedenti è impossibile che non abbia giocato il ricordo del Leone di Caprera. E anche ammesso che nessuno degli organizzatori vi abbia coscientemente pensato, allora vuol dire che, inconsapevoli, essi hanno rifatto tale e quale, a scopo velocipedistico, anziché militare, il ragionamento fatto novant’anni fa da Garibaldi.
Poi la corsa entra nel vivo. C’è l’attesa. Il rito che si ripete sempre uguale ad ogni tappa.
Pronte sono le biciclette lustrate come nobili cavalli alla vigilia del torneo. Il cartellino rosa del numero è fissato al telaio coi sigilli. Il lubrificante le ha abbeverate al punto giusto. I sottili pneumatici lisci e tesi come giovani serpenti. …Pronti gli occulti piani tattici delle scuderie, elaborati fino alla estenuazione dei nervi e dei cervelli. … Pronti i soldati, i centodue corridori (eroi forse domani, oppure sconfitti fantaccini in vergognosa fuga?).
Ma è pronto anche il nemico.
Vi lancerà addosso i suoi reggimenti che hanno sinistri nomi: chilometri si chiamano, nuvole e tuoni (ce n’è già in cielo un minaccioso ammassamento), polvere, salite, scirocco, buche, imbastiture.
E la similitudine bellica sfocia nell’epos. Così Coppi è Achille e Bartali diventa Ettore. Ma anche Drogo, Bàrnabo.
A un tratto, tu lo sai, il misterioso genio ti dovrà lasciare. Nel mezzo di una corsa, all’improvviso, ti sentirai stranamente solo: come un re in battaglia che, voltandosi indietro per impartire gli ordini, non scorge più il suo esercito, dissoltosi per incantesimo nel nulla. Questo momento terribile verrà. Ma quando? Tu non lo sai. E potrebbe essere oggi.
E nella magia del grande cronista il Giro diventa metafora della vita.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Quando Dino Buzzati raccontava il Giro d’Italia
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