Dopoguerra. Gli italiani fra speranze e disillusioni (1945-1947)
- Autore: Mario Avagliano Marco Palmieri
- Genere: Romanzi e saggi storici
- Categoria: Saggistica
- Casa editrice: il Mulino
- Anno di pubblicazione: 2019
Alla fine della Seconda guerra mondiale, l’Europa era un continente selvaggio. Milioni di uomini e donne avevano subìto o inflitto violenze indicibili e l’orrore si era impossessato della vita quotidiana. È da questo scenario di “banale crudeltà del male”, che muove il nuovo saggio di Mario Avagliano e Marco Palmieri per la Biblioteca storica Il Mulino, Dopoguerra. Gli italiani fra speranze e disillusioni (1945-1947), in diffusione dall’estate 2019, 496 pagine 28 euro.
Il nuovo approfondimento dei due giornalisti e storici segue altri lavori a quattro mani sul trentennio del ‘900 tra la marcia su Roma e il periodo postbellico, tutti pubblicati dalla casa editrice bolognese: Vincere e vinceremo! Gli italiani al fronte 1940-1943 (2014), L’Italia di Salò 1943-1945 (2017), 1948. Gli italiani nell’anno della svolta (2018).
Nell’Europa traumatizzata dal più pesante conflitto nella storia dell’uomo, l’Italia era un inferno nell’inferno. Aveva prima aggredito altri, poi era stata campo di battaglia di eserciti stranieri, conoscendo una guerra civile cruenta e dolorosamente divisiva.
La guerra era finita, ma niente era tornato all’istante alla “normalità”. Nella primavera del 1945 si ritrova “un paese stremato, inquieto e travagliato”, la gente ha perso i punti di riferimento, la scala di valori in cui credeva è totalmente sovvertita e gli italiani si scoprono costretti a dover “resettare” le proprie vite. C’è chi ci riesce prima, per capacità o pelo sullo stomaco, chi solo più tardi e chi non riesce affatto a farlo.
Avagliano e Palmieri citano esempi dello stato d’animo generale, attraverso due testimoni dell’epoca. Cosa si credeva, “che il giorno dopo le cose fossero già sistemate a dovere e prendessero il loro corso normale?”, riflette la partigiana azionista Andreina Zaninetti Libano l’8 maggio 1945, il giorno della resa tedesca a Berlino. E con la sua superiore capacità di cogliere la realtà la sceneggiatrice Suso Cecchi d’Amico, osservando intorno a sé lo “sgomento indefinibile che ha preso un po’ tutti, proprio tutti e che non è né stanchezza, né preludio di violenza”, non poteva che scrivere al marito: “amore mio qui scoppia il dopoguerra, speriamo che duri poco”. È una lettera del 25 maggio 1946, tredici mesi dopo la Liberazione.
La pace? Restano il pane razionato, gli abiti e i cappotti da rivoltare, le scarpe bucate, le case prive di servizi (acqua, luce…), le strade e ferrovie dissestate (kaputt quasi il 90% della rete), la borsa nera, le macerie, i lutti. A migliaia tornavano a casa dalla prigionia, dalla deportazione. Il Paese è scosso da gravi agitazioni sociali, trovano spazio in questo clima criminalità e banditismo.
I tedeschi, grigi, burocratici e poco espansivi, non marciano più. Al loro posto c’è la massa degli Alleati, tanto colore (non solo per la pelle dei soldati) e non poche novità. Specie gli americani, accolti come liberatori, hanno portato cibo, musica, nuovi costumi, parecchio brio. Ma ogni medaglia ha il suo risvolto: segnorine (prostituzione alle stelle e allo scoperto), sciuscià (all’occorrenza delinquenti minorili), “mogli e fidanzate adultere” contro ogni morale del tempo e figli “mulatti”, spesso abbandonati, perché motivo di vergogna in Italia e di indifferenza negli Usa.
Gli italiani erano stati tutti contro tutti, durante la guerra e soprattutto l’occupazione nazista. Adesso lo sono ancora di più: i meridionali contro i centrosettentrionali, gli uni sono stati liberati prima, gli altri hanno provato a combattere i Tedeschi. E poi, monarchici contro repubblicani, antifascisti contro fascisti, comunisti contro anticomunisti, laici contro cattolici.
“Testa” e “coda” della lunga Italia sono ancora calde: la Venezia Giulia è pretesa dagli iugoslavi, in Sicilia i movimenti separatisti conducono una guerriglia che miete vittime tra militari e Carabinieri. Anche il mondo si va dividendo tra i due blocchi, USA-URSS e questo non aiuta a ristabilire l’unità nazionale.
Secondo la cronologia dei due autori, il dopoguerra durerà fino all’entrata in vigore della Costituzione repubblicana (1 gennaio 1948), ultimo atto concorde dei partiti della Resistenza. È stata redatta dall’Assemblea costituente eletta dagli italiani nelle prime consultazioni libere, il 2 giugno 1946, nelle quali gli elettori e per la prima volta le elettrici, hanno scelto anche la forma di Stato repubblicana.
Attraverso le parole e azioni di tanti protagonisti, viene esaminato in quattordici intensi capitoli monografici lo snodo cruciale del 1945-1947, autentica stagione costituente, in tutti i sensi, due anni e mezzo nel corso dei quali la vita politica, sociale, economica e culturale del Paese si trasforma radicalmente.
Un periodo carico di speranze, illusioni, sacrifici e impegno collettivo, gravato da pesanti angosce, inquietudini e disincanti. Eduardo De Filippo, ricordava che alla conclusione della prima del dramma “Napoli milionaria!” (’a guerra nun è fernuta), con la battuta finale del reduce: “S’ha d’aspettà. Ha da passa’ ’a nuttata”, alla calata del sipario del San Carlo di Napoli seguirono secondi di lungo silenzio prima di un applauso furioso e di un pianto irrefrenabile, del pubblico, degli orchestrali, degli attori. Aveva rappresentato il dolore di tutti.
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