Vittorio Sermonti è morto ieri sera a Roma all’età di 87 anni all’ospedale Sandro Pertini. Scrittore, traduttore, regista televisivo e di teatro, attore, giornalista, dantista e docente all’Accademia nazionale d’arte drammatica, Sermonti, nato nella Capitale il 26 settembre 1929, ha avuto due mogli. Dalle prime nozze con Samaritana Rattazzi (figlia di Susanna Agnelli) ha avuto tre figli, Maria, Pietro (attore) e Anna. Nel 1992 Vittorio Sermonti aveva sposato la poetessa Ludovica Ripa di Meana. Il suo ultimo tweet risale a pochi giorni fa, il letterato annunciava che si sarebbe preso una pausa dai suoi impegni e qualche giorno di riposo.
“Cari amici, mi prendo qualche giorno di riposo. I vostri commenti mi faranno compagnia”.
Sermonti, l’intellettuale che fece riscoprire Dante agli italiani attraverso le sue letture, nel corso della sua vita aveva collaborato a diversi giornali: “L’Unità”, tra il 1979 e il 1982; a “Il Mattino”, 1985-86; al “Corriere della Sera”, 1992-94. Sono state centoventi le regie di Sermonti per la radio, il quale lavorò con i più grandi attori del tempo: da Renzo Ricci a Vittorio Gassman, da Paolo Poli a Carmelo Bene, da Sarah Ferrati a Valeria Moriconi.
L’“Opera ultima” è il sottotitolo del volume “Se avessero”, (Garzanti 2016), romanzo autobiografico e testamento letterario dello scrittore, finalista all’ultimo Premio Strega.
“Non contiamo niente, perché ognuno conta purtroppo tutto”
è la significativa frase di un libro coraggioso e autentico, dedicato “A L e V”.
“Se avessero sparato a mio fratello, che dire? e nel caso, perché tentare di dirlo? Mi riservo di rispondere quando mi verrà fatto se mai dovesse venirmi fatto”.
A 86 anni, l’autore riprendeva “Il vizio di scrivere”, prendendo a prestito il titolo del libro di Sermonti uscito lo scorso anno per rievocare settant’anni di ricordi, da quando un adolescente di 15 anni assistette a un evento che lo sconvolse. Una mattina di maggio del 1945 nel “vano d’ingresso del villino contrassegnato dal civico 41 di un largo viale in zona Fiera di Milano, largo e viale sebbene detto via - via del Domenichino”, tre giovani partigiani erano entrati senza troppi riguardi nell’abitazione della famiglia Sermonti. L’obiettivo era Rutilio, fratello maggiore di Pietro, ufficiale della Repubblica di Salò. Il 25 aprile era trascorso da più o meno due settimane, quel fatidico giorno, alle 8 del mattino via radio, il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia (CLNAI), il cui comando aveva sede a Milano ed era presieduto da Luigi Longo, Emilio Sereni, Sandro Pertini e Leo Valiani aveva proclamato l’insurrezione in tutti i territori ancora occupati dai nazifascisti, indicando a tutte le forze partigiane attive nel Nord Italia facenti parte del Corpo Volontari della Libertà di attaccare i presidi fascisti e tedeschi imponendo la resa, alcuni giorni prima dell’arrivo delle truppe alleate.
“A farla breve, Milano cadde come una pera nelle mani delle forze partigiane”.
Entro il 1^ maggio tutta l’Italia settentrionale era stata liberata mettendo la parola fine a vent’anni di dittatura fascista e a cinque di guerra. Ora iniziavano i regolamenti di conti tra vincitori e vinti. Per questo in quella mattina di maggio tre partigiani avevano puntato i loro mitra contro Rutilio Sermonti, 24 anni ancora da compiere, primo di sette fratelli (tre sorelle, quattro fratelli), nell’ingresso di un villinetto di quelli allestiti a Milano per Fiera Campionaria anni Trenta.
“Non so se spararmi vi conviene poi tanto”
aveva risposto spavaldo il giovane, “eroico e biondo e leggermente ondulato” che fronteggiava quei tre uomini alle dieci e un quarto circa di un mattino milanese di maggio un po’ assolato. Era stata certamente una “spiata” senza cognizione di causa di un vicino che aveva notato un ragazzo entrare nell’abitazione vestito “in una qualche divisa militare”, la causa di quel fatto grave che stava avvenendo sotto gli occhi sbarrati di otto familiari. Alla scena assistevano infatti il padre avvocato di origini pisane, la madre palermitana, inclusa una ragazzina di dodici anni e un “intrepido e atterrito” adolescente di quindici, Vittorio, “un simpatico stronzetto da liceo Parini”. Partendo da una frase ipotetica l’autore in queste pagine ripercorreva più di settant’anni di coerente esistenza che scorre parallela alla storia del nostro Paese dimostrando che alcuni vecchi rancori ancora non sono del tutto sopiti. Un dialogo muto con il fratello, (qui denominato “FM”), “frater maxime” che ricorda, in un certo senso, il sonetto del Foscolo “In morte del fratello Giovanni”:
“Un dì, s’io non andrò sempre fuggendo. Di gente in gente; mi vedrai seduto. Su la tua pietra, o fratel mio, gemendo Il fior de’ tuoi gentili anni caduto...”.
Il testo, iniziato a scrivere nel 1984, per stessa ammissione di Vittorio Sermonti
“è la storia della mia vita dai 15 anni agli 84. Ed è una vita intrecciata a quella di mio fratello”.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: È morto Vittorio Sermonti, grande esperto di Dante. “Se avessero” la sua “opera ultima”
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