Eleonora Duse non era la musa di D’Annunzio; quando era viva la gloria di lei aveva di gran lunga superato quella del Vate, la sua storia si svincola dal ruolo secondario, di ancella e consorte, che la letteratura le ha da tempo affibiato a partire da La pioggia nel pineto. Lei era la Divina, una donna che fu deificata in vita e dunque non sembrava essere di questa Terra, non apparteneva del tutto alla razza dei comuni mortali.
Persino nelle fotografie d’epoca che oggi ce ne restituiscono l’immagine, Eleonora Duse sembra provenire da remote lontananze: ci osserva superba con uno sguardo che pare trapassarci e fissare non noi direttamente, ma qualche pensiero segreto che cova nel profondo della sua mente. È altera, proterva, sorride di rado. C’è in lei un tratto dolente da eroina tragica, al pari di Desdemona, della Signora delle Camelie e delle altre trionfanti sventurate cui prestò il suo volto, le sue movenze e la voce, sulla scena dei maggiori palcoscenici mondiali.
Come scrisse lei stessa in una lettera destinata al marchese Francesco d’Arcais nell’agosto del 1884:
Quelle povere donne delle mie commedie mi sono talmente entrate nel cuore e nella testa che mentre io m’ingegno di farle capire alla meglio a quelli che m’ascoltano, quasi volessi confortarle, sono esse che adagio adagio hanno finito per confortare me.
Leggendo le recensioni d’epoca scopriamo, anzitutto, che Eleonora Duse fu una grandissima attrice, dotata non solo di presenza scenica, ma di un inconfondibile talento: seppe coniare una maniera di recitare tutta sua, trasformando persino i suoi limiti in un tocco di bravura. Aveva una voce esile, sgraziata, “da tisica” scrivevano i critici, tuttavia lei la rese un’arpa modulandola in uno stile interpretativo spezzato, concitato, soltanto suo. Ecco cosa le fotografie di Duse non dicono di Duse: la voce, la sua presenza scenica, l’uso del corpo sul palcoscenico; eppure furono proprio queste caratteristiche in movimento a fare di lei la Divina.
Sempre nella famosa lettera al marchese, Duse ci svela un suo segreto interpretativo: il “compianto femminile”, era questo sentimento a muoverla nella recitazione delle sue protagoniste:
Io non guardo se hanno mentito, se hanno tradito, se hanno peccato – se nacquero perverse – purché io sento che hanno pianto – hanno sofferto o per sentire o per tradire o per amare… io mi metto con loro e per loro e le frugo, frugo non per mania di sofferenza, ma perché il mio compianto femminile è più grande e più dettagliato.
Scopriamo la sua storia.
Eleonora Duse: la vita e gli amori
Era nata a Vigevano nel 1858. Aveva tre nomi: Eleonora, Giulia e Amalia, come se fosse al contempo una e triplice, tre donne diverse e, però, una sola. Era figlia d’arte, del resto, i genitori, Vincenzo e Angelica, erano attori e la recitazione le scorreva nelle vene: suo nonno paterno era Luigi Duse, dopo aver lavorato a lungo come impiegato presso un ufficio del Monte della Pietà decise di reinventarsi e divenne un grande attore di commedie veneziane.
Eleonora Duse iniziò a recitare giovanissima, ancora bambina, al seguito della compagnia teatrale del padre. Ha soltanto quattro anni quando interpreta il suo primo ruolo importante: Cosette ne I miserabili, lo spettacolo tratto dal capolavoro di Victor Hugo. La sua carriera iniziò nel solco dei predestinati: a 12 anni era Francesca Da Rimini nella tragedia di Pellico, a 14 la Giulietta di Shakespeare. A vent’anni era già un’attrice affermata, la consacrò la parte di Teresa Raquin nell’opera di Émile Zola.
Aveva una recitazione istintiva che seppe rompere con gli schemi del teatro classico: gesticolava animatamente, prorompeva in pianti disperati, improvvisava aggrappandosi ai drappi del sipario, a volte si sedeva persino sul palcoscenico e iniziava a dialogare col pubblico. Recitava col corpo ancora prima che con la voce, tanto che persino in terre straniere - delle quali non parlava la lingua - fu apprezzata e ammirata, applaudita sino alla venerazione. Doveva avere anche una bellezza peculiare; il critico francese Jules Lemaitre la descrive come una donna dal “pallore opaco e un po’ olivastro” con la fronte “incorniciata da lunghe ciocche nere”.
La sua vita, tuttavia, fu tormentata sin dall’infanzia. Ebbe sempre un’esistenza nomade, senza radici, faticando a stabilirsi a lungo in un posto e a mantenere saldi degli affetti. La madre, Angelica Cappelletto, morì di tubercolosi quando Eleonora era ancora molto giovane, aveva soli quattordici anni: fu lei a sostituirla, durante la sua malattia, vestendo al suo posto i panni di Francesca Da Rimini nella tragedia di Silvio Pellico. Recitare per Eleonora era “un’ebbrezza”, come scriveva nelle sue lettere, un modo per dimenticare la propria infelicità confondendola con quella dei personaggi che interpretava.
Ai successi professionali non corrispondeva la felicità sul piano sentimentale. Perse un figlio, giovanissima, in seguito alla relazione con il giornalista napoletano Martino Cafiero: forse fu il dolore per essere stata abbandonata dall’amante dopo la notizia, inattesa, della gravidanza. In seguito si sposò con l’attore Tebaldo Marchetti, da cui ebbe l’unica figlia, Enrichetta. La relazione con Marchetti fu difficile, non priva di tradimenti reciproci: la vita di Eleonora Duse era “nomade”, appunto. Si separò ufficialmente dal marito nel 1886, dopo una tournée in Sudamerica, dalla quale tornò con il nuovo compagno, l’attore Flavio Andò. Pure la relazione con Andò non durò a lungo, sebbene la coppia avesse deciso di mettersi in proprio fondando una nuova compagnia teatrale. L’incontro con il librettista Arrigo Boito, nel febbraio 1887, trascinò Eleonora in un altro amore, sebbene clandestino e illegittimo, perché all’epoca erano entrambi sposati.
Tempo dopo, nel 1892, la Duse vide per la seconda volta quel giovane e ardimentoso poeta biondo di nome Gabriele D’Annunzio che, nel frattempo, aveva fatto strada e fu l’inizio di quella passione vertiginosa e tossica che ora tutti conosciamo. Si influenzarono e rovinarono a vicenda, divenendo l’ispirazione e il tormento l’uno per l’altra. Duse recitò in alcune delle maggiori opere d’annunziane, tra cui La Gioconda, La gloria, La città morta, testi che lui realizzava su misura per lei, cucendoli sulla sua persona. Ma l’idillio non fu eterno e proprio da D’Annunzio la Duse ebbe la sua più grande delusione: nel 1904 lui le negò la parte di protagonista ne La figlia di Iorio attribuendola invece all’attrice Irma Gramatica. Lei, ai tempi, era sommersa dai debiti e si era rifiutata di produrre la tragedia; lui quindi si vendicò sostituendola sul palco. Naturalmente, fu la fine di tutto.
Cinque anni dopo, nel 1909, Eleonora Duse chiuse la sua carriera, dopo aver recitato nel Rosmersholm di Henrik Ibsen. Avrebbe tentato altri progetti, tra cui una “Casa per attrici” sulla Nomentana a Roma, che ebbe però breve durata, nonostante il progetto fosse ambizioso e promettente: un luogo dove gli artisti “possano tra loro riunirsi, dove abbiano dei libri da consultare per le loro interpretazioni”. In seguito interpretò alcune parti nel cinema muto. Sullo schermo interpretò la pellicola Cenere, tratta dall’omonimo romanzo di Grazia Deledda.
I tentativi non ebbero successo e, dopo un momento di smarrimento, la Divina tornò sui suoi passi, ovvero a calcare il palcoscenico poiché, come scrisse: “Ogni altra strada mi è ignota”. Nel 1921 tutti i maggiori rotocalchi nazionali festeggiarono trionfalmente il ritorno sulle scene della Divina. Il 5 maggio tornò sulle scene, a Torino, interpretando La donna del mare di Ibsen: si riconosceva nel personaggio tormentato di Ellida, che continua a rivivere dentro di sé il suo passato, rievocato dalla presenza del mare. Nell’inquietudine di Ellida, Eleonora Duse trasfuse tutto il suo desiderio angoscioso di libertà, regalando una delle sue migliori intepretazioni. Si racconta che sulla scena improvvisò “un gioco misterioso con il suo mantello” di colore verde-azzurro, portandolo a riprodurre il moto ondivago del mare.
Era però indebolita e provata da seri problemi di salute, anche se sul palco si compiva la metamorfosi e lei diventava la Divina d’un tempo, superiore ai problemi e alle insidie mortali. Morì di polmonite, sola in una stanza d’albergo di Pittsburgh, durante una tournée negli Stati Uniti, il 21 aprile del 1924.
La recitazione di Eleonora Duse
Il vero incontro galeotto nella vita di Eleonora Duse fu quello con l’attrice Sarah Bernhardt, avvenuto a Torino nel 1882. Duse vide Bernhardt recitare ne La signora delle camelie di Dumas. Allora la francese aveva quattordici anni più di lei, ed era già considerata la più grande attrice vivente. La storia le ritrae come rivali, ma la verità è che Eleonora apprese molto da Bernhardt, comprendendo che - se doveva essere la Divina - doveva anzitutto darsi all’improvvisazione e alla sperimentazione, fattore che divenne sempre la cifra fondante del suo stile recitativo. Si aprì quindi ai drammi di Ibsen e di Dumas, affrontando pièces più moderne e mondane.
Nulla di tutto ciò sarebbe accaduto se non avesse visto recitare Sarah Bernhardt, come scrisse in una lettera:
Mi sentii liberata. Sentii che avevo il diritto di fare tutto ciò che volevo e non quello che mi veniva imposto.
Stregò i teatri del mondo con la sua recitazione. Dicono che il suo recitare oscillava “cadenza e cantilena” e che fosse dotata di una particolare sensibilità musicale versando “un incanto” nelle parole. Scrivono: “faceva una successione di armonie figurate e di armonie vocali”, in riferimento alla sua interpretazione nelle tragedie d’annunziane. Ma il vero talento di Eleonora Duse era la sua presenza scenica: animava i suoi personaggi, andando oltre i confini delle convenzioni. Il suo corpo sul palcoscenico si smaterializzava, sembrava divenire un’immagine pittorica, aerea, astratta. Nella solitudine di quel palco lei era come la luce che emergeva dal buio, un concentrato di spiritualità che trascendeva il potere significativo delle parole. Fu questo dunque a fare di lei la Divina.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Eleonora Duse: i 100 anni dall’addio alla Divina
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