“Essere in un limbo”. Fateci caso, ultimamente questa espressione indubbiamente poetica, ma dalla sfumatura inquietante, troneggia su libri, giornali, newsletter e persino nei graffiti di street-art che campeggiano sui muri delle nostre città.
Una metafora perfetta dei nostri tempi incerti, sinonimo di una confusione strisciante che oggi si riverbera persino nelle trame dei romanzi sempre più spesso scritti in prima persona, egoriferiti e non finzionali, in cui il/la protagonista il più delle volte non compie alcuna azione specifica, ma si limita a descrivere la propria condizione di apatia e rassegnazione: sembra “essere in un limbo”, appunto. La conclusione del libro viene spesso a coincidere con l’uscita del protagonista da quello stato di stasi, ma è anche possibile che questo non accada e a tutti gli effetti si tratta di una chiusa ricorrente nella narrativa di oggi che non presenta più la rassicurante evoluzione dei bildungsroman di fine Settecento. In fondo, non viviamo tutti quanti in un limbo? Non siamo tutti nell’attesa indefinita di qualcosa?
Ma cos’è il limbo? Per spiegare l’origine del modo di dire “essere in un limbo”, che definisce qualcosa di vago, di incompiuto, di indefinito, dobbiamo raccontare, per l’appunto, il concetto di limbo e come fu concepito dagli antichi.
Cos’è il limbo?
La parola limbo ha un’origine latina, deriva da limbus che significa “orlo, margine”. Quest’espressione giunse a designare una sorta di “non luogo”, la troviamo citata nei versi di Giovenale che colloca il limbo nelle strette vicinanze dell’Inferno:
discese / nel limbo de lo ’nferno
La collocazione esatta del limbo era dunque legata alla topografia dell’Oltretomba: era la zona dove, secondo la teologia cattolica, stavano le anime non mondate dal peccato originale e che perciò non potevano godere della contemplazione di Dio. Il limbo veniva descritta spesso come una zona molto triste e desolata, senza pena ma anche senza gioia, poiché in quel non luogo si trovavano tutti coloro che erano nati prima della venuta di Cristo e anche i bambini che non avevano ricevuto il battesimo.
Nella Divina Commedia di Dante il “Limbo” è citato da Virgilio già nel secondo canto dell’Inferno, quando il poeta latino confessa a Dante di essere stato prelevato da Beatrice da quella zona grigia dell’inferno per essere condotto a lui e fargli da guida. Dante, nel corso del suo viaggio nell’Oltretomba, farà il suo ingresso nel limbo nel Canto IV e in quel “non luogo” incontrerà le anime dei poeti classici, Omero, Lucano, Orazio e Ovidio, ma scoprirà che in quella zona nell’anticamera dell’Inferno sono custoditi anche gli scrittori latini Terenzio, Cecilio Stazio, Plauto, Varrone e molti altri.
Insomma, nella Divina Commedia il limbo sembra essere la “terra dei poeti e dei letterati”, fatto che la rende senza dubbio affascinante; ma nella verità sappiamo che non è così. Il concetto di limbo è stato creato dalla Chiesa per poter collocare le anime, macchiate dal cosiddetto peccato originale, che non erano state purificate dalle loro colpe e rimanevano quindi prigioniere in attesa della liberazione di Cristo.
Nel tempo la Chiesa ha rivisto le proprie posizioni affermando che anche queste anime, come quelle dei peccatori, potessero essere salvate dalla cosiddetta “misericordia” divina. Il concetto stesso di limbo è quindi divenuto desueto, ma non ha smesso di affascinare per il suo peculiare simbolismo.
L’immagine del limbo è sempre stata cara ad artisti e poeti, che non tardarono a intravedere in essa una condizione esistenziale. È stato dipinto, ad esempio, da Andrea Mantegna nel 1492 in Discesa al Limbo: nel quadro in particolare Mantegna raffigurava la discesa di Cristo al limbo per portare i savi in Paradiso. Un dipinto analogo è stato realizzato da Paul Cézanne, si intitola Cristo al limbo ed è datato 1867.
I pittori dunque lo rappresentavano raramente e sempre mettendoci in qualche modo in mezzo la presenza salvifica di Cristo, poiché il limbo in sé stesso si tratta di un concetto molto difficile da rappresentare, perché è oscuro e fumoso come una nebbia perenne che rende impossibile vedere.
Da qui deriva il significato dell’espressione, essere in un limbo, oggi perfetta metafora della contemporaneità.
Essere in un limbo: significato
L’espressione “essere in un limbo” delinea una particolare condizione di incertezza esistenziale, di confusione, di ansia e di perenne inquietudine.
Equivale a sentirsi sospesi tra una possibile condizione di partenza e un traguardo desiderato o per certi versi anche solo immaginato.
Si usa anche nell’accezione “vivere in un limbo”, per indicare lo stile di vita di chi è sempre trasognato e sembra vivere in un mondo irreale o fantastico.
Ma può anche verificarsi la circostanza in cui si è “tenuti in un limbo” e dunque ci si trova ostaggio di una situazione non risolta, si vive in una perenne attesa di qualcosa che forse non arriverà mai.
Essere in un limbo: quando si usa
Come utilizzare nel modo corretto questa espressione? Ecco, alcuni esempi d’uso:
- Essere come un’anima al limbo
- In questo periodo della mia vita mi sento in un limbo
- Finché non mi arriva quella risposta resterò in un limbo
- Va’ al limbo! (in molte regioni d’Italia viene usata come alternativa a “va’ all’inferno!”)
- Sono come sospeso in un limbo, non so che fare
- Finché non si farà vivo sarò io a essere in un limbo
- Eccomi fermo nel limbo dell’attesa
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “Essere in un limbo”: significato, quando e perché si dice
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