Negli ultimi giorni la parola femminicidio capeggia sui titoli di giornale e regna sovrana negli articoli di cronaca, indicando un fenomeno tristemente in ascesa: le donne uccise per mano di un uomo.
Si tratta di uno dei termini che meglio caratterizzano la nostra epoca, eppure, a ben vedere è qualcosa che accade da sempre, sin dai tempi antichi, al quale solo di recente abbiamo imparato a dare un nome.
Vi siete mai chiesti quale fu il primo caso di femminicidio della storia? E chi fu la prima persona a coniare il termine “femminicidio”? Sapete, inoltre, da quanto tempo è entrato a far parte del dizionario della lingua italiana? Le risposte a queste domande potrebbero farvi parecchio riflettere.
In occasione del 25 novembre e della Giornata internazionale contro la violenza sulle donne vi proponiamo un approfondimento per analizzare le implicazioni linguistiche, politiche e legislative del termine.
Probabilmente non potevate immaginare che il termine “feminicide” era già in uso nella pratica legislativa inglese dell’Ottocento e fu ufficializzato nel linguaggio comune grazie a un libro pubblicato da una criminologa americana nel 1992.
Il primo caso di femminicidio della storia
Uno dei primi casi di femminicidio riportati dalle cronache risale infatti all’Antica Roma ed è l’assassinio di Appia Annia Regilla, avvenuto sotto l’impero di Adriano, attorno al 160 d.C. La donna, appartenente a una casata aristocratica, fu uccisa da un liberto al servizio del marito, il nobile Erode Attico. Alcimedonte, così si chiamava il servo, fu incaricato dallo stesso Attico di picchiare la donna, probabilmente per futili motivi. Appia Annia Regilla morì a soli trentacinque anni, in seguito alle percosse ricevute che provocarono anche la morte del bambino che portava in grembo. Ci fu poi un processo, ma il ricco Erode Attico fu assolto, grazie al sostegno di Marco Aurelio. Per redimersi dal peso della colpa Erode dedicò alla moglie un mausoleo, il famoso cenotafio di Annia Regilla che si trova a Roma sulla via Appia.
Dall’assassinio di Regilla a oggi le cose non sono poi molto cambiate, le cronache recenti sono piene di storie di donne uccise per mano di un uomo, spesso il loro compagno, marito o ex fidanzato.
Oggi, però, abbiamo un termine per definire questo massacro: femminicidio e, se è vero che dare un nome alle cose è il primo modo per comprenderle, per definirle, allora forse qualche passo avanti è stato fatto. Il termine “omicidio” perde la sua accezione neutra e designa qualcosa di specifico; non si tratta di un assassinio generico, avvenuto per circostanze causali oppure premeditate, ma dell’assassinio di una donna.
Femminicidio: quando è stato creato il termine?
La parola “femminicidio” deriva dal termine inglese, femicide, introdotto per la prima volta dalla criminologa Diana H. E. Russell in un articolo del 1992. La criminologa non aveva inventato il termine, ma l’aveva mutuato da alcuni manuali legislativi in uso nell’Ottocento: già nel 1848 il femminicidio era indicato come un crimine perseguibile per legge. Tra tutti lo riporta il Law Lexicon di John Wharton, una sorta di enciclopedia della legge britannica.
L’uso giuridico del termine, però cadde in disuso e fu recuperato grazie alla letteratura, in una raccolta di racconti della scrittrice femminista Carol Orlock, la prima autrice donna a scrivere di femminicidio negli anni Settanta. I racconti di Orlock rimasero inediti, perché nessuno, a quel tempo, voleva pubblicarli. Casualmente Diana Russell, parlando con un’amica di Londra, seppe che c’era una donna negli Stati Uniti che aveva intenzione di pubblicare un libro dal titolo Femminicidio. Da criminologa Russell si entusiasmò subito per la parola, vedendola come un sostituto del termine neutro di genere “omicidio”.
Russell decise quindi di utilizzare il termine a sua volta durante una conferenza tenuta a Bruxelles, in occasione del “Tribunale internazionale dei crimini contro le donne”, nel 1976.
In quell’occasione Diana Russell pronunciò un discorso memorabile in cui disse:
Dal rogo delle streghe in passato, alla più recente usanza diffusa dell’infanticidio femminile in molte società sino all’uccisione delle donne in nome del cosiddetto “onore”, ci rendiamo conto che il femminicidio va avanti da molto tempo.
Fu poi la stessa criminologa a riportarlo in forma scritta nel famoso articolo del 1992.
Nell’articolo in questione, Diana Russell sottolineava che le donne riportate nei casi da lei analizzati erano state uccise dagli uomini solo per il fatto di essere donne. “Femminicidio” era il termine più adatto per designare una violenza mortale perpetuata da un maschio. Tramite quel discorso a Bruxelles, Russell aveva dato per la prima volta al termine una risonanza globale, aumentando la consapevolezza sulla maggior parte degli omicidi compiuti ai danni donne e ragazze.
Femminicidio: l’origine del termine in un libro
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Secondo l’analisi di Russell il femminicidio designava un caso specifico, ovvero un omicidio che era conseguenza di pratiche sociali o atteggiamenti misogini.
La morte della donna, in quest’ottica, rappresentava la conseguenza di una peculiare cultura, era un prodotto del patriarcato. L’uso del termine “feminicide” secondo Russell permetteva di focalizzarsi sulle dinamiche sociologiche della violenza, sottolineando il legame tra la pratica della violenza e la discriminazione sessuale.
Il concetto di femminicidio si estende al di là della definizione giuridica di assassinio e include quelle situazioni in cui la morte della donna rappresenta l’esito/la conseguenza di atteggiamenti o pratiche sociali misogine.
Diana Russell dedicò anche un libro al tema, intitolato Femicide: the politics of women killings, scritto a quattro mani con Jill Radford.
In seguito il termine coniato da Russell fu adottato dall’antropologa Marcela Lagarde per denunciare la drammatica situazione vissuta dalle donne in Messico: in cui sempre più donne erano vittime di uomini violenti o di quelli che apparivano come “tragici incidenti domestici”. Nel suo studio Lagarde sottolineava che il femminicidio non era un fenomeno improvviso o imprevisto, ma giungeva al culmine di un lungo ciclo di violenze e sopraffazioni perpetuate sulla vittima.
Femminicidio: l’uso del termine in Italia
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Il termine femminicidio si diffuse inizialmente in Italia per uso scientifico, indicato di frequente nei manuali di sociologia o di criminologia. Apparve anche in un articolo di giornale nel 2001, in riferimento alle violenze perpetuate dai talebani sulle donne, ma l’uso del termine causò un dibattito - in cui se ne discuteva l’accezione sessista - e scomparve dalle cronache.
Iniziò ad acquisire un significato politico e sociale nel 2008, quando la consulente Onu Barbara Spinelli ne parlò in un libro intitolato proprio Femminicidio. Dalla denuncia sociale al riconoscimento giuridico internazionale (FrancoAngeli, 2016). A partire da quel momento il termine femminicidio iniziò ad apparire anche sui dizionari italiani, tra cui il Devoto-Oli che lo riportò nel 2009 e lo Zingarelli nel 2010.
La legge sul femminicidio in Italia
Barbara Spinelli, avvocata specializzata in femminicidio, nel 2013 presentò anche un decreto legge alla Camera in cui sottolineava che la donna non era “soggetto debole,” ma un “soggetto reso vulnerabile dalla violenza maschile”. Nel documento in questione, l’avv. Spinelli metteva in luce la necessità di raccogliere dati per capire se il problema era generato dall’assenza di strumenti utili per intervenire in maniera efficace, oppure - come sottolineava già dieci anni fa - l’inadeguata applicazione delle misure esistenti a mettere in salvo la donna.
Il decreto legge n. 93 del 14 agosto 2013 fu poi convertito nella legge n. 119 del 15 ottobre 2013, conosciuta anche come la Legge sul femminicidio. La legge del 2013 ha istituito il reato di omicidio volontario aggravato dal rapporto di parentela o convivenza con la vittima di sesso femminile. Ha introdotto anche pene più severe per i reati di maltrattamenti in famiglia, stalking e violenza sessuale.
In Italia, dunque, l’uso politico e l’uso linguistico del termine femminicidio vanno di pari passo; tuttavia nel nostro Paese il femminicidio non è ancora considerato un reato autonomo, infatti l’attuale normativa non considera in maniera diversa o disgiunta l’omicidio e il femminicidio, prevede solo un’aggravante della pena nel caso in cui l’assassino abbia avuto con la vittima una relazione affettiva o precedenti di
stalking.
Attualmente, come riporta il sito ufficiale della Camera dei deputati, è in corso di esame alla Camera un disegno di legge governativo (A.C. 1294) volto a introdurre ulteriori disposizioni per contrastare la violenza sulle donne e in particolare la violenza domestica.
Tanta strada è stata fatta, dunque, tanta strada rimane ancora da fare; ma il riconoscimento del termine e del suo significato è sicuramente un passo importante in materia di diritti. Dare un nome alle cose è la prima maniera per avvalorarne l’esistenza.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “Femminicidio”: la storia e l’origine del termine diffuso grazie a un libro
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