I nostri padri
- Autore: Karin Brynard
- Genere: Gialli, Noir, Thriller
- Categoria: Narrativa Straniera
- Casa editrice: E/O
- Anno di pubblicazione: 2019
Si definisce crime writer, scrittrice di romanzi del crimine, Karin Brynard, autrice sudafricana in ascesa. Il nuovo romanzo, “I nostri padri”, Edizioni E/O, (giugno 2019, 448 pagine, 18 euro) gronda materia ematica fin dall’inizio, per il piacere degli appassionati di gusti forti. Una ragazzina è letteralmente coperta di sangue, ma è della madre, seduta sulla poltrona del tinello della loro ricca casa nel quartiere bene di Stellenbosch. La stanza è inondata e coperta di cocci di vasi rotti, la donna ha la parte posteriore del cranio sfondata, con una violenza che ha provocato la fuoriuscita della materia grigia e disperso frammenti di ossa.
Tanto il capitano in trasferta Albertus Marcus Beeslar che Qhubeka, la collega coloured della polizia locale, trovano la scena del delitto complessivamente troppo intima per una tentata rapina nel leggendario paradiso urbano dei bianchi.
Tutt’altro habitat, a 1500 chilometri di distanza, presenta Soweto, la caotica bidonville di Johannesburg, la township più pericolosa al mondo, dove il sergente nero Johannes Ghaap sta svolgendo il suo apprendistato di pattuglia. Quell’agglomerato sconfinato di casupole divora i poliziotti. Solo i più esperti riescono a sopravvivere.
Karin Brynard è nata nel 1975 a Koffiefontein e cresciuta nel distretto rurale di Karoo, nella provincia del Capo. Karin è di origini africaner, la parte della popolazione dell’Africa meridionale di pelle bianca e radici olandesi. Parla e scrive in afrikaans, la lingua derivata dall’olandese del XVII e XVIII secolo. Dopo aver studiato dal 1976 al 1980 nell’Università di Pretoria, ha cominciato a lavorare da traduttrice, avviandosi poi verso la professione giornalistica in un piccolo quotidiano, prima di diventare notista politica per testate importanti. A ridosso del Duemila, ha scelto di ritirarsi dalle redazioni e di rendersi attiva come freelance, avviando collaborazioni con riviste culturali. Passo successivo è stato la scrittura. Le Edizioni E/O hanno già proposto nel 2018 il primo romanzo tradotto in italiano, “Terra di sangue”.
Riprendiamo a sfogliare il suo nuovo intreccio giallo. Il veterano Beeslar è in viaggio nel Capo, prima per diletto poi per partecipare al funerale di un caro amico. È impressionato dalla brutalità del delitto della bella signora nella bella villa e dalla reticenza dei figli della vittima. A fargli girare la testa concorre il fascino carnale della capitana Qhubeka. Anche a Ghaap gira la testa e pure qualcos’altro: intorno a lui è un vociare confuso in afrikaans, inglese e zulu, urlato da colleghi, operatori e curiosi che si sono addensati sul luogo dove l’autopattuglia ha fermato un ladro d’auto, che ha reagito, lo ha percosso e gli ha pure sparato un colpo, colpendolo di striscio alla caviglia. Niente di grave, poteva andare molto peggio: è quello che il giovane sergente comunica all’uomo al quale si sente più legato, “capo” Beeslar, che da parte sua gli rinfaccia di aver voluto cocciutamente andare a fare apprendistato a Soweto, il posto più pericoloso di tutti i posti pericolosi. Un inferno per i pivelli.
A Stellenbosch, il capitano muore dalla voglia d’essere coinvolto nell’indagine del presunto furto con omicidio, ma è fuori territorio e la gelosia dei superiori è più forte della competenza. A Soweto Ghaap ha rischiato di morire, ma non intende mollare di un centimetro. Sono in corso esistenze parallele tra Johannesburg e il Capo, anche se vanno in direzioni divergenti.
Una certa disponibilità della capitana consente a Markus di ricevere informazioni sul caso che tanto gli sta a cuore. Ancora più a fondo nel suo cuore c’è la rossa e pur sposata Gerda, che sta per dargli un figlio, anche se lui lo sa. È convinta che sarà una bimba, bella grossa come il papà.
Tanto lontano, il giovane sottufficiale è rosso di rabbia: gli hanno rubato l’auto. È un macinino, ma ci tiene tantissimo, mannaggia.
Non è solo l’automobile ad essere “andata”, anche Gerda viene rapita, col suo piccolo. Si mette male, molto male.
Anche due mondi sono contrastanti in questo romanzo afrikaans, che risente molto più del primo degli echi dell’apartheid, la politica di segregazione razziale imposta dai bianchi in Sudafrica dal 1948 al 1994. Laggiù non si riesce a chiudere i conti col razzismo, anche dopo decenni di governo di Nelson Mandela e dell’African National Congress, il partito di maggioranza dalla caduta del regime razzista.
Tornando alla morte della signora, non ci sono segni di effrazione, nessuno ha forzato niente, c’è solo una gran confusione in giro, come se si fosse scatenata una furia violenta. Cosa avrà mai fatto Elmane du Toit per scatenare quella violenza inumana? La statuetta dello zebù e i bonsai scaraventati in terra erano la sua passione, nutriva una vera mania per quelle piantine, rappresentavano una ragione di vita.
Se nella dorata realtà del quartiere elegante del Capo avvengono queste tragedie figurarsi quale può essere la quotidianità nell’enorme baraccopoli abitata da quasi 900 mila coloured. C’è una leggenda, da quelle parti, che sta per diventare realtà: sembra attivo uno stregone, “u baba (il padre), molto più potente dei Sangoma, i guaritori. Dicono che la sua malvagità non abbia limiti: è un mutaforma, può trasformarsi in animale per rubare bambini da trasformare in zombie. È malvagità pura ed esiste davvero. Ghaap ne saprà qualcosa.
I nostri padri
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