Il mare di Palizzi
- Autore: Ada Murolo
- Categoria: Narrativa Italiana
- Casa editrice: Frassinelli
- Anno di pubblicazione: 2013
“Il mare di Palizzi” (Frassinelli, 2013) è il primo romanzo di Ada Murolo, insegnante, nata nel 1949. Mi è piaciuto, mi ha coinvolto, mi ha commosso perché, al di là della qualità della scrittura, pur pregevole, ha suscitato in me una serie di sollecitazioni affettive, di riscoperte di odori, oggetti, abitudini, modalità espressive e comunicative tipiche di certi anni, che sono anche i miei.
La Murolo guarda indietro, cerca nella sua infanzia, in una Calabria assolata e nobile, povera e aristocratica, le radici della sua famiglia e della sua identità. Nel lungo romanzo autobiografico, una saga familiare raccontata senza retorica e senza infingimenti, l’adulta di oggi, madre e nonna, ma ancora figlia di Lili, ultraottantenne irriducibile, ripercorre tutte le tappe della sua infanzia trascorsa a Palizzi, una paese poco distante da Reggio Calabria dove la famiglia possedeva una imponente casa e dove la protagonista Adela aveva vissuto fino a dodici anni. Il nonno Azio Laganà, maggiorente e proprietario di terre e fondi, era il padrone assoluto, nel suo rigido senso della proprietà, di figli, nipoti e sottoposti: la figlia Lili aveva accettato di rimanere in casa col padre insieme al marito, Beniamino Bruno, succube dell’autoritario suocero, insieme ai loro figli, Daddo, Adela, Angelica e Betta. Adela sarà spaventata e affascinata dal nonno, morbosamente attaccata al padre, distante dalla madre bella, elegante, fredda e autoritaria come suo padre, attratta dal fratello Daddo che, maschio e primogenito, otterrà sempre un trattamento privilegiato al contrario di Adela, troppo creativa e fantasiosa per rispondere alle attese adeguate ad una femmina del sud nei primi anni cinquanta.
La scrittrice ci descrive i profumi, i cibi, la natura, fiori e frutti, le abitudini familiari di una ricca borghesia di provincia, ma anche i rancori, le divisioni, il conformismo, la religiosità, il perbenismo, la rigida gerarchia sociale di un’epoca ormai lontana ma i cui echi sentiamo ancora vicini.
La lingua colta e raffinata dell’insegnante si mescola e si ibrida nella narrazione con il dialetto che impronta i dialoghi e i rapporti fra i diversi personaggi della storia, con le filastrocche che avevano fatto da colonna sonora a quell’infanzia che ora si rievoca….
”Rosa Teresa fimmina di casa veni lu tu zzitu ti pizzica e ti vasa!”
oppure
“c’era ‘na vota, ‘nc’era cu nc’era, Mastru Cicciu cu la cioccolatiera, pizzi pizzi panarizzi, a li corti di lu re…..”
Nomi di un altro tempo e di un’altra temperie culturale, la Ticara, la zia Doride, la Barbera, la vecchia donna di casa, donna Annuzza, e poi i parenti americani, la zia Josephine che porta l’asse da stiro pieghevole e il ferro a vapore mentre in casa le donne continuano a stirare sul tavolo di marmo stendendo una vecchia coperta e inumidendo i panni con la concolina d’acqua, mentre si fa merenda con i biscotti Saiwa Oswego, il nonno profuma di colonia Atkinsons e di brillantina Tricofilina, si mangia lo zatterino Algida, ci si sposta con una giardinetta di legno con le frecce che fuoriescono dalla carrozzeria, ci si veste con abitini cuciti dalla sarta del paese, la cartella si scuola è di pelle marrone, il fiocco del grembiule di raso (si scioglie continuamente), la colla coccoina odora di mandorle, la domenica dopo la messa si comprano il Monello e il Corriere dei Piccoli per Adelina, l’Intrepido per Daddo, la Gazzetta del Sud per i grandi, il giorno della Prima Comunione l’ostia non dovrà essere toccata con i denti…
Insomma la Murolo ci racconta gli anni cinquanta con una grazia straordinaria e la ricostruzione fedele di un tempo in cui i riti esteriori corrispondevano perfettamente ad un modo di sentire. Solo negli anni successivi la cultura della psicologia familiare cercherà ed analizzerà le ragioni di tanti comportamenti capaci di ferire e di allontanare definitivamente gli stessi fratelli: Adela non parlerà più con suo fratello Daddo, medico trasferito a Lecco che non vuole ricordare un’infanzia troppo dolorosa, interrompe i rapporti con la sorella Betta, li avrà episodici con l’altra sorella ormai divenuta inglese col matrimonio e pessimi con la madre, che, senza consultarla, vende pezzo pezzo le proprietà calabresi che erano state il teatro della sua infanzia perduta.
Il tentativo di ricucire i rapporti, almeno con l’amato Daddo, sono appesi ad una lettera che la protagonista tenta di scrivergli… Pirandello, Leopardi, Rilke, D’Annunzio, Kafka, gli studi classici, l’origine greca della sua terra, una grande cultura pervade tutto il racconto e lo ispira, eppure si sente ad ogni pagina il dolore per quel paradiso perduto di affetti e di sapori, di bellezza dei paesaggi, di struggimento per un’epoca in cui felicità era rubare le mentine nel negozio dello zio, raccogliere le mele rotolate via da un cartoccio insieme al padre amatissimo, vedere un film in bianco e nero nella nuova sala cinematografica ideata e messa su da Beniamino con la collaborazione di tutto il paese, assistere all’uccisione del maiale, sentire il profumo dei fichi appena raccolti dall’albero o delle “frisce” appena uscite dal forno a legna…
Un libro pieno di tutto: storia, natura, sentimenti, contrasto fra un Sud mitico e il Nord dove la scrittrice vive e lavora, l’ora e l’allora, senza altro filtro che quello attento di una memoria proustiana, precisa ed analitica, alla ricerca degli affetti che non possono ritornare.
“Che cosa siamo noi, se non una memoria?”
Con questa frase si apre il romanzo e ne è le più corretta ed efficace conclusione.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Il mare di Palizzi
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