Jean-Baptiste Camille Corot, Public domain, da Wikimedia Commons
Il mito di Orfeo ed Euridice è un racconto antico che ha assunto, nel tempo, varie forme letterarie: viene narrato da Ovidio nelle Metamorfosi e in seguito ripreso da Virgilio nelle Georgiche.
In verità il mito di Orfeo ha origini greche, che precedono la narrazione latina e si perdono nei meandri oscuri della mitologia. Orfeo infatti designava il poeta per eccellenza, figlio della musa Calliope e di Apollo, era considerato l’inventore della cetra e l’antenato di Omero ed Esiodo. Fa la sua comparsa anche nella leggenda degli Argonauti dove, grazie al suo canto, riesce a placare le temibili sirene, permettendo ai cinquanta eroi di proseguire il loro viaggio. Orfeo, nell’antica Grecia, divenne una figura celebrata tanto che attorno a lui si sviluppò una vera e propria religione: l’orfismo, una sorta di culto iniziatico o misterico in cui si sosteneva la liberazione dell’anima dal corpo attraverso il processo della metempsicosi (ovvero la reincarnazione delle anime).
L’orfismo era legato al concetto di immortalità e alla celebrazione del Regno degli Inferi, proprio perché il mito di Orfeo era una delle prime narrazioni antiche a trattare il concetto di aldilà attraverso il viaggio nell’oltretomba: uno degli episodi più affascinanti del mito era la catabasi, ovvero la discesa dell’anima di Orfeo nell’oltretomba per salvare la sposa Euridice. Tuttavia la storia romantica tra Orfeo ed Euridice, l’immagine di lui che si volta perdendola per sempre non viene mai menzionata nel mito greco classico: fa la sua apparizione, per la prima volta, nella versione di Virgilio narrata nel IV libro delle Georgiche quando il pastore Aristeo parla della moria delle sue api e scopre di averla causata lui stesso innamorandosi di Euridice e provocandone, involontariamente, la morte.
In seguito la storia ritorna narrata da Ovidio nel X libro delle Metamorfosi, in cui ci viene narrata una versione del mito simile eppure diversa: nella narrazione ovidiana infatti viene eliminato del tutto il personaggio di Aristeo e, a causare la morte di Euridice, è in realtà una tragica fatalità.
Vediamo più nel dettaglio la storia, analogie e differenze tra la versione ovidiana e quella virgiliana.
Il mito di Orfeo e di Euridice in Virgilio
“Orpheu, quis tantus furor?”. Nel IV libro delle Georgiche si parla di una “follia che prese l’incauto amante”. Il mito di Orfeo trova la sua massima espressione e il punto più elevato di pathos nel momento in cui Orfeo si volta e perde Euridice per sempre.
ed Euridice, essendo stata restituita, andava verso l’aria aperta,
seguendolo da dietro - infatti Proserpina aveva dato questa condizione -,
quando una improvvisa follia prese l’incauto amante,
una follia da perdonare certamente, se i Mani sapessero perdonare.
Il gesto di Orfeo viene definito da Virgilio una “follia”, perdipiù imperdonabile. Virgilio ci racconta che il cantore rompe il patto stabilito con i sovrani infernali, Plutone e Proserpina, secondo il quale non deve mai voltarsi indietro per vedere se Euridice lo sta seguendo. Proprio all’ultimo istante, Orfeo si volta, rompendo così il patto e facendo svanire Euridice tra le ombre. L’infrazione di Orfeo segue lo schema classico delle fiabe popolari, ovvero il divieto infranto, secondo cui al protagonista viene posto un divieto esplicito che lui puntualmente infrange suscitando un tragico rivolgersi degli eventi.
Il dramma, che si consuma in pochi istanti, viene narrato dal punto di vista della stessa Euridice che lo interroga con voce straziata: “Orpheu, quis tantus furor?” Non c’è risposta a questa domanda, resta sospesa come un enigma, che i versi di Virgilio lasciano, forse volutamente, intatto.
Ecco di nuovo i crudeli fati mi chiamano
indietro e un sonno seppellisce gli occhi che vacillano. Ora addio:
vengo trascinata dopo essere stata circondata da una notte profonda
La vicenda di Orfeo ed Euridice viene inserita da Virgilio all’interno delle Georgiche con un espediente letterario: il racconto nel racconto. La storia infatti viene inserita all’interno della vicenda del pastore Aristeo, un apicoltore angosciato dall’improvvisa moria delle sue api. Sarà il vecchio Proteo a rivelare ad Aristeo la causa dell’estinzione delle sue api: ha suscitato l’ira di un Dio. Il dio in questione è Orfeo, che non si dà pace per la perdita della sua Euridice. Secondo la versione virgiliana del mito infatti è stato proprio Aristeo a suscitare la morte della giovane donna. Mentre il pastore innamorato di lei la inseguiva per i boschi, Euridice cadde e fu morsa da un serpente che, con il suo veleno, la uccise e lei, afferma Virgilio: “fu condannata a morire”.
Ti perseguita l’ira di un dio, e non dappoco,
sconti una grave colpa commessa: Orfeo, infelice
senza sua colpa, ti suscita queste pene
Nella versione virgiliana inoltre il personaggio di Orfeo e quello di Aristeo appaiono speculari e al contempo opposti intrecciandosi in un complesso gioco di corrispondenze: Orfeo fallisce perché trasgredisce il divieto impostogli dagli Dei; mentre Aristeo viene premiato poiché segue le indicazioni dell’indovino Proteo, sacrifica un bue agli Dei, e così ottiene ciò che ha perduto.
Il destino di Orfeo è tragico nel racconto di Virgilio, in quanto è condannato a vagare senza consolazione alla sua tristezza e viene infine ucciso dalle Baccanti che, ardenti di vita, lo fanno a pezzi e lo divorano.
“Nessun amore, nessun nuovo matrimonio piegò il cuore di Orfeo: andava solo, per i ghiacci iperborei… gemendo per Euridice-”
Il mito di Orfeo e di Euridice in Ovidio
C’è una differenza fondamentale tra la narrazione virgiliana e quella ovidiana: in Ovidio Euridice è muta, si fa ombra e non presenza. Tutto ciò che Ovidio ci dice di lei è che “non ebbe parole di rimprovero per il marito” ed è allora che proferì il suo “ultimo addio”, che a malapena “giunse alle orecchie di lui”.
Anche nella narrazione ovidiana del mito Orfeo si volta, trasgredendo il divieto; ma, a differenza di quanto accade in Virgilio, qui il gesto di Orfeo viene spiegato. Di tutte le ragioni del mondo, Orfeo si volta per troppo amore, perché teme di perderla e, al contempo, arde del desiderio di vederla.
Non erano lontani dalla
superficie terrestre, e qui Orfeo, per amore,
temendo che non gli venisse a mancare ed avido
di vederla, volse indietro gli occhi, ed ella subito
scivolò indietro e tendendo le braccia e cercando
di afferrarla ed esserne afferrato, non prese altro che aria cedevole.
Anche nella versione ovidiana il dramma si consuma in pochi istanti ed è irreparabile: qui ha però una spiegazione e, infine, una svolta diversa e inattesa. Una volta tornato in Tracia, Orfeo sfugge ogni “amore di donna” perché il suo è finito male e decide quindi di consolarsi con “l’amore dei maschi”. Nella trama ovidiana dunque la storia di Orfeo ha una svolta omoerotica, mentre nella versione di Virgilio - come da tradizione - Orfeo vaga inconsolabile e rifiuta l’amore di ogni donna e per questo motivo viene ucciso e fatto a pezzi dalle Baccanti adirate.
Il mito di Orfeo ed Euridice narrato da Rilke: “Lei così amata”
Una splendida versione moderna del mito ce l’ha consegnata Rainer Maria Rilke con la sua poesia dedicata a Orfeo ed Euridice dal titolo Orfeo, Euridice, Hermes (1904): l’innovazione operata da Rilke è quella di introdurre tra i due sposi un’altra figura, Hermes, il “dio dei viandanti e dei messaggi”. Nella versione del poeta tedesco di origine boema Hermes cammina tranquillamente alle spalle di Orfeo, insieme ad Euridice.
Singolare la presentazione che Rainer Maria Rilke fa di Euridice: non la delinea infatti come presenza a sé, ma come oggetto di amore. Ciò che fa di Euridice, Euridice, è il fatto di essere la “Tanto Amata”, il poeta la definisce con un epiteto singolare: Lei così amata. Rilke decide di presentarci Euridice senza menzionare il suo nome, utilizzando le parole del canto che Orfeo aveva scritto per lei e con il quale sperava di riportarla in vita:
Lei – così amata – che una sola cetra
la pianse più di mille donne in lutto;
e tutto il mondo fu in pianto, boschi e valli,
strade e paesi e campi e fiumi e animali;
intorno a questo mondo di pianto
come intorno a un’altra terra
volgevano in silenzio il sole
e il cielo pieno di stelle,
cielo di pianto e stelle sfigurate -:
lei, così amata
Ci viene presentata come un essere immemore, ormai pienamente compiuta nella morte: il suo essere morta la riempiva come una pienezza. Perduta nella morte Euridice - che non viene mai nominata da Rilke con il suo nome vero - non era più lei, non era più la bionda donna cantata da Orfeo, la presenza profumata che lui aveva accolto “nell’ampio letto”.
La vera Euridice appare solamente nel finale, quando formula una domanda straziante, dunque fa udire la sua voce quando dice “Chi?”. La domanda di Euridice cristallizza il dolore, facendo di lei la protagonista. Se la versione virgiliana poneva al centro Orfeo che si voltava, facendone un topòs, ecco che Rilke dà ad Euridice - lei così amata - l’ultima parola che è un soffio dall’eco immortale. In quel “Chi?” pronunciato da Euridice emerge tutto il mistero straziante della morte: la misura della perdita irrimediabile, il dolore innaturale.
E quando il dio bruscamente
fermatala, con voce di dolore
esclamò: Si è voltato -,
lei non capì e in un soffio chiese: Chi?
Il mito di Orfeo ed Euridice nell’arte pittorica, musicale, letteraria
Il tema di Orfeo che si volta, inaugurato dalle Georgiche virgiliane, avrebbe avuto un grande seguito e sarebbe stato ripreso nelle arti pittoriche, letterarie e musicali: Orfeo ed Euridice ritornano nell’opera di Gluck e di Monteverdi, nella scultura di Canova e di Rodin, nei quadri di Tiziano, Chagal, Bruegel e Corot. Forse a colpire gli artisti non è solo la vicenda tragica in sé, ma il grande numero di tematiche che essa racchiude: amore e morte, trionfo e fallimento, ricerca della bellezza e dell’assoluto. Rivive eternamente la triste favola di Orfeo che, pur di raggiungere la sua amata, decide di varcare i confini dell’Oltretomba per riportarla indietro, ma viene tradito dal suo troppo amore e si volta facendo di lei un’ombra. Sarà proprio il gesto di Orfeo - che tradisce le aspettative e impedisce il lieto fine atteso - a catturare l’attenzione di letterati, artisti, poeti: poiché è il dramma senza giustificazione, la domanda sospesa, il nodo mai sciolto. Perché Orfeo si volta? Non ci sono vere risposte a questo interrogativo, solo numerose ipotesi: c’è chi pensa che Orfeo si sia voltato perché non udiva più i passi di Euridice dietro di sé e chi crede che l’abbia fatto semplicemente perché non poteva farne a meno.
In Dialoghi con Leucò, nel racconto dedicato al mito dal titolo L’inconsolabile, Cesare Pavese ipotizza che Orfeo si sia voltato perché in fondo ritiene il ritorno di Euridice impossibile, così come è impossibile per un uomo recuperare la giovinezza.
L’Euridice che ho pianto era una stagione della vita. Io cercavo ben altro laggiù che il suo amore. Cercavo un passato che Euridice non sa.
Pavese cerca un senso al gesto di Orfeo - che tanto ha assillato i lettori del mito - e infine lo giustifica così, attraverso il dialogo con Bacca:
Orfeo: Che c’entra il destino. Il mio destino non tradisce. Ridicolo che dopo
quel viaggio, dopo aver visto in faccia il nulla, io mi voltassi per errore o per
capriccio.
Bacca: Qui si dice che fu per amore.
Orfeo: Non si ama chi è morto.
Nel testo dedicatole dal cantautore Roberto Vecchioni, dal titolo Euridice, la donna amata da Orfeo viene lasciata nell’oltretomba perché ormai è morta ed è lì il suo posto: la morte è irreparabile, Euridice è già diventata un’ombra.
E mi volterò perché tu sfiorirai
Mi volterò perché tu sparirai
Mi volterò perché già non ci sei
E ti addormenterai per sempre.
Nelle versioni più contemporanee della storia - da Cvetaeva a Yourcenar, da Calvino a Rushdie - il focus si sposta sul punto di vista di Euridice, diventa lei la vera protagonista in una prospettiva rovesciata, di matrice femminista: colei che non aveva parola viene chiamata a raccontare la propria storia e - al contrario della versione ovidiana - rinfaccia al marito di non averla salvata. In questa prospettiva rovesciata Orfeo non viene rappresentato come un innamorato tragico, ma come un uomo che cerca di superare il confine tra divino e umano, ingannando la sua sposa morta con false promesse di rinascita.
Nella poesia Euridice a Orfeo (1923) di Marina Cvetaeva, prende parola la stessa donna che non vuole essere salvata perché riconosce di non essere più donna ormai e supplica il suo amato: “Dimentica e abbandonami!”
Giacché in questa casa
illusoria tu, vivo, sei fantasma, e vera
io, morta… Che posso dirti – oltre:
«Dimentica e abbandonami!»Non riuscirai a turbarmi! Non mi farò portare!
Non ho neanche mani! Né labbra
da posare! Dal morso di vipera dell’immortalità
la passione di donna prende fine.
Cvetaeva pone l’accento su una questione non molto diversa da quanto viene accennato da Rilke: il poeta tedesco per primo scorpora Euridice, ribadendo che ciò che la rende presenza è l’amore che le è stato tributato in vita, “Lei così amata”; ora la poetessa russa - che con Rilke ebbe una corrispondenza appassionata - va più a fondo, ribaltando la visione del suo amato mentore. Mentre Rilke osserva che Euridice ormai è ombra, ma rammenta di essere stata viva soltanto quando Hermes osserva: “Si è voltato”, riferendosi ad Orfeo; ecco che invece Cvetaeva ci mostra Euridice morta che ha completamente accettato la sua condizione. In questa nuova visione delle cose, l’atto compiuto da Orfeo non è un tentativo di salvezza, ma un’intromissione, una violenza, poiché il regno dei vivi e quello dei morti sono separati e non possono più, in alcun modo, comunicare.
L’invocazione implorante di Euridice ad Orfeo è, dunque, che lui continui a vivere e non si contamini con le ombre: “Dimentica e abbandonami!”.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Il mito di Orfeo e Euridice: da Virgilio a Ovidio a Rilke
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