Iniziamo il nuovo anno con una poesia di Eugenio Montale dedicata al Capodanno. Il primo gennaio è un giorno strano, lattiginoso, apatico, intorpidito, come se faticasse a risvegliarsi da un lungo sonno. È il giorno dei calici vuoti, dei nastri della festa sparpagliati ancora per le stanze come lo strascico di un vestito da sposa. Un giorno che ti inghiotte con le fauci spalancate dei buoni propositi e delle infinite possibilità: l’inizio di 365 giorni nuovi di zecca, pagine intonse di calendario tutte da strappare, un tempo nuovo oppure semplicemente un giorno come tanti.
In questi splendidi versi, contenuti nella raccolta Satura (1971), Montale ci restituisce in maniera veritiera e realistica l’atmosfera del primo giorno dell’anno, spogliandola della finta (e ipocrita) patina di allegria che la tradizione le ha assegnato.
Protagonista indiscussa de Il primo gennaio è Drusilla Tanzi, detta “Mosca”, la moglie del poeta la cui presenza-assenza è un filo conduttore dell’intera raccolta; suoi sono i gesti compiuti in questa giornata che appare sospesa in un confine incerto tra passato e futuro, tra mondo reale, concreto e un imprecisato aldilà. I gesti concreti, pratici, fattivi della moglie che pulisce la casa dopo le feste si oppongono all’apatia del poeta che riflette sul fatto che si possa “vivere” anche “non esistendo”.
Ritorna il rapporto di estraneità con la realtà moderna, dall’autore giudicata invivibile, già espressa in Fine del ’68, composta sempre in occasione del Capodanno e contenuta nella medesima raccolta, Satura, che sembra testimoniare il progressivo distacco di Montale dalla vita.
“Il primo gennaio” di Eugenio Montale: testo
So che si può vivere
non esistendo,
emersi da una quinta, da un fondale,
da un fuori che non c’è se mai nessuno
l’ha veduto.
So che si può esistere
non vivendo,
con radici strappate da ogni vento
se anche non muove foglia e non un soffio increspa
l’acqua su cui s’affaccia il tuo salone.
So che non c’è magia
di filtro o d’infusione
che possano spiegare come di te s’azzufino
dita e capelli, come il tuo riso esploda
nel suo ringraziamento
al minuscolo dio a cui ti affidi,
d’ora in ora diverso, e ne diffidi.
So che mai ti sei posta
il come – il dove – il perché,
pigramente rassegnata al non importa,
al non so quando o quanto, assorta in un oscuro
germinale di larve e arborescenze.
So che quello che afferri,
oggetto o mano, penna o portacenere,
brucia e non se n’accorge,
né te n’avvedi tu animale innocente
inconsapevole
di essere un perno e uno sfacelo, un’ombra
e una sostanza, un raggio che si oscura.
So che si può vivere
nel fuochetto di paglia dell’emulazione
senza che dalla tua fronte dispaia il segno timbrato
da Chi volle tu fossi…e se ne pentì.
Ora,
uscita sul terrazzo, annaffi i fiori, scuoti
lo scheletro dell’albero di Natale,
ti accompagna in sordina il mangianastri,
torni indietro, allo specchio ti dispiaci,
ti getti a terra, con lo straccio scrosti
dal pavimento le orme degli intrusi.
Erano tanti e il più impresentabile
di tutti perché gli altri almeno parlano,
io, a bocca chiusa.
“Il primo gennaio” di Eugenio Montale: analisi e commento
Il Capodanno di Montale è malinconico, solitario, ritirato, segnato da un palese distacco dal vivace tripudio di festeggiamenti che caratterizzano le festività. Il primo gennaio di Eugenio Montale è attraversato dal sentimento dell’amarezza che viene rappresentata dal contrasto evidente tra due atteggiamenti opposti: l’alacrità della moglie, Drusilla, si scontra con l’apatia del poeta stesso che vaga tra le stanze come un fantasma, smarrito nei suoi pensieri. La riflessione del poeta si ritorce e riavvolge su sé stessa tramite parallelismi espressi in forma di chiasmo: “si può vivere/non esistendo”; “si può esistere/non vivendo”. La statica immobilità del suo pensiero si oppone ai movimenti solerti di Drusilla che annaffia i fiori, lava il pavimento ed esplode in un riso di ringraziamento nei confronti del “minuscolo Dio” cui si affida.
Alla fede mite e inoppugnabile della moglie, Montale oppone la sua teologia negativa, la propria inoppugnabile idea della “divina indifferenza”.
Lo stato d’animo del poeta ricorda quello espresso in Carnevale di Gerti (1928), nel quale analogamente rammentava una sera dell’ultimo dell’anno in cui l’amica Gerti Frankl, seguendo la tradizione della propria patria austriaca, compie un gesto scaramantico sciogliendo dell’acqua fredda sul piombo fuso per leggere i pronostici dell’anno nuovo. Il gesto di Gerti appariva a Montale come un tentativo di fermare la fuga del tempo. Su questo probabilmente il poeta torna a meditare, pensoso, rimanendo a bocca chiusa, come il più indesiderabile degli invitati, in una festa che non sente appartenergli eppure si svolge proprio a casa sua. Negli ultimi versi l’autore accentua il sentimento di estraneità e di alienazione nei confronti della realtà circostante che si fa più accentuato in un momento in cui a tutti è richiesto di essere allegri, propositivi, vivaci, pronti a vivere alla massima potenza. Ai buoni propositi dell’anno nuovo Eugenio Montale contrappone il grido dell’uomo nei confronti del proprio destino: un urlo che rimane sommesso, taciuto e si esprime, appunto, a bocca chiusa mentre tutti gli altri si affaccendano inseguendo poi chissà cosa, chissà perché. Possiamo percepire, tra le righe, anche una forma di sana invidia di Montale nei confronti dell’atteggiamento positivo della moglie, che si affida al suo minuscolo Dio, e innocentemente tiene viva la speranza nel futuro, come un lumino acceso a combattere le insidie dell’oscurità.
Quella di Montale è una “poesia di inappartenenza”, come spiega nella celebre Ex voto, eppure, anche nelle vette più estreme della sua sospensione, si lega alla salda figura di Drusilla, detta “Mosca” per le sue pupille “tanto offuscate” capaci però di vedere davvero, che sembra ricondurla a sé stessa, come la nave al porto.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “Il primo gennaio” di Eugenio Montale: una poesia per Capodanno
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È sempre stato il mio Maestro fin dal liceo... Grazie a Lui ho continuato a scrivere...ed Oggi sono un nonno coi capelli bianchi.... ancora adesso i suoi versi sanno attraversami l’anima.... grazie davvero
Roberto Capucci
la poesia è dedicata a Laura Papi, completando la suite dedicatale partendo da "Dopo una fuga".
Fonte: note al testo di "Satura", Mondadori, sotto la direzione di Guido Mazzoni, a cura di Riccardo Castellana con un saggio critico di Romano Luperini e uno scritto di Franco Fortini.