È uno dei rompicapi più affascinanti della linguistica, sebbene la sua soluzione ormai non sia più un mistero. L’indovinello veronese continua ad affascinarci con la sua singolare interpretazione, che ne fa uno dei testi cardine non solo della storia della lingua italiana, ma della letteratura stessa. Ciò che rende interessante questo primo documento scritto dell’italiano volgare è proprio la sua natura ibrida: non è un mero reperto storico, si tratta di una suprema sintesi del concetto di metafora e, in modo analogo, della funzione stessa della scrittura. Concetti tanto variegati e interessanti sono racchiusi tutti in una sequenza di parole in rima che, ancora oggi, si propone ai lettori come un quesito, con l’enigmatica inconcludenza di un interrogativo da risolvere che lascia tuttora aperto un punto di domanda.
Cosa dice l’indovinello veronese? Quale dilemma ci propone? E qual è il suo significato?
Scopriamone testo, origine e interpretazione. Voi sapreste risolvere l’arcano? Ve lo proponiamo per mettervi alla prova, ma sappiate che se avete studiato linguistica non vale dare subito la risposta...
L’indovinello veronese: il testo
Il famoso Indovinello veronese è unanimemente riconosciuto come una delle prime attestazioni di italiano volgare e recita così:
Se pareba boves, alba pratalia araba
albo versorio teneba, negro semen seminaba.
Gratias tibi agimus omnipotens sempiterne Deus.
L’indovinello veronese: la traduzione
Anteponeva a sé i buoi, arava bianchi prati/
e aveva un bianco aratro/ e un nero seme seminava/
Ti rendiamo grazie Dio onnipotente ed eterno.
L’indovinello veronese: origine e storia
Il testo fu scritto da un anonimo copista veronese al margine di un codice liturgico (la pergamena 3 del Codice LXXXIX) tra la fine del VIII secolo e l’inizio del IX.
Il documento originale, scoperto nel 1924 da Luigi Schiapparelli, è oggi conservato presso la Biblioteca Capitolare di Verona. Dopo anni di studi filologici non è stato possibile risalire all’autore del manoscritto; l’ipotesi ora più accreditata è che si trattasse di un monaco amanuense veronese appartenente alla stessa biblioteca Capitolare.
L’indovinello, a partire dal suo ritrovamento, pose diverse questioni agli studiosi non solo legate alla sua interpretazione, ma all’uso stesso della lingua che difatti presenta un singolare ibrido tra italiano volgare e latino classico.
Alcuni ritengono che la lingua utilizzata non possa davvero definirsi “volgare” poiché presenta ancora diversi legami con il latino e ricalca la metrica stessa dell’esametro, la struttura della poesia classica latina.
Per la prima volta, però, assistiamo a una contaminazione: gli elementi latini genuini si alternano a termini volgari, assistiamo in particolare a una caduta delle desinenze (-t) della terza persona singolare dei verbi. Eloquente in questo senso parabat che diventa pareba e, subito dopo, arabat che si trasfigura in araba. Inoltre assistiamo alla scomparsa della desinenza in -um dell’accusativo maschile, sostituita per la prima volta da -o. A questa prima ibridazione volgare si affiancano ancora numerose forme tipiche del latino classico (come boves e pratalia) che alimentano i dubbi negli studiosi: può davvero considerarsi la prima attestazione di italiano volgare? Molti lo ritengono un documento semi-volgare nato in un ambiente dotto ed ecclesiastico dove si parlava principalmente latino, secondo questo ragionamento il vero atto di nascita della lingua italiana sarebbe Il Placito Capuano. C’è da notare che l’indovinello si conclude con la tradizionale formula di ringraziamento a Dio scritta in corretto - e ineccepibile - latino.
Il copista veronese era quindi una persona colta che sapeva destreggiarsi bene nei meandri della lingua e della grammatica; con ogni probabilità l’indovinello fu finemente architettato non solo nel concetto, ma persino nelle rime (vedi araba/seminaba) per creare un riuscito effetto cantilena. L’autore non era un semi-analfabeta dilettante, ma uno scriba navigato, molto consapevole dell’opera che stava creando e, soprattutto, del suo fine.
L’aspetto più affascinante dell’indovinello, tuttavia, è che non propone solo un rompicapo linguistico, ma soprattutto di contenuto: voi avete capito cosa significa?
L’indovinello veronese: qual è il significato
Ciò che maggiormente affascina dell’Indovinello veronese è il significato metaforico che nasconde oltre la sua traduzione letterale. Custodisce un enigma nell’enigma, come una matrioska, e infine rivela una soluzione inattesa e apprezzatissima dagli amanti della letteratura: poiché è un elogio alla scrittura, all’atto stesso di scrivere.
L’interpretazione tematica dell’indovinello è infatti la seguente: in apparenza raffigura una scena bucolica, di tradizione virgiliana, ma in realtà i buoi che arano il campo sono una metafora dell’atto di scrittura.
Ogni elemento descritto ha un valore duplice, dalla valenza simbolica come dimostrano le sue parti scomposte nei minimi termini:
- Teneva davanti a sé i buoi: le dita della mano
- Arava bianchi prati: le pagine immacolate di un libro ancora da scrivere
- E un nero seme seminava: il “nero seme” descritto altro non è che l’inchiostro che traccia le parole sul foglio scrivendo l’opera.
L’anonimo copista veronese dunque non stava descrivendo altro che il suo lavoro di scrittura. Tramite la metafora della scena campestre - i buoi che arano il campo - l’autore ci proponeva, tramite un intuitivo paragone, una visione del suo meticoloso lavoro.
Chissà, forse l’indovinello veronese fu scritto in un momento di noia, nel tentativo di trovare uno svago, di strappare un sorriso. Il copista distratto probabilmente non immaginava che quel testo, scritto per diletto in una giornata pigra, sarebbe divenuto un vero e proprio rompicapo negli anni a venire sul quale, ancora oggi, si interrogano e si accapigliano generazioni di studiosi. L’indovinello, però, non manca di affascinare gli studenti di Lettere che lo interrogano affascinati come se si trattasse di un prodigio: quell’immagine dei buoi che arano il campo con l’inchiostro nero, la similitudine tra il campo coltivato e l’atto di scrittura si imprime fissa nella memoria a caratteri di fuoco e non se ne va più via. Ci fa pensare che, in fondo, scrivere è come coltivare. Che poi, “coltivare”, non è il significato stesso di cultura? La parola italiana “cultura” deriva sempre dal verbo latino còlere che indicava la coltivazione della terra.
Il meraviglioso labirinto della lingua ci insegna che tutto, infine, si ricollega come in un cerchio: “scrivere”, “coltivare”, “apprendere” sono azioni cariche di significato che continuano a dare un senso all’agire dell’uomo, poiché in qualsiasi tempo e in qualsiasi luogo sono sinonimo di crescita e di “futuro”.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Cosa dice “L’indovinello veronese”? Testo, traduzione e significato
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