Alessandro Seravalle è nato a Udine nel 1968, si è laureato in filosofia presso l’università degli studi di Trieste con una tesi sul Privatdenker romeno Emil M. Cioran.
Con tre venti dischi all’attivo è sul panorama musicale italiano da trenta anni (varie formazioni: The Garden Wall e Officina F.lli Seravalle), nell’ambito della musica rock ed elettronica. Nel 2021 è uscito il suo primo libro, per i tipi della collana Mosaico, Cioran e Buddha, una fruttuosa impossibilità.
L’autore ha dialogato con Vincenzo Mazzaccaro a partire dal suo ultimo libro Cioran verso una parola inzuppata di silenzio (The Writer Edizioni, 2023).
- Da dove ha preso spunto per creare un titolo così accattivante?
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Più che di uno spunto si tratta di una vera e propria citazione. In Un Ètranger avec, sous le bras, un livre de petit format, pubblicato per i tipi di Gallimard nel 1989 (tradotto in italiano con il titolo di Uno straniero con, sotto il braccio, un titolo di piccolo formato, uscito in prima edizione nel 1991 per SE edizioni) Edmond Jabès, poeta naturalizzato francese, figlio di ebrei italiani, nato a Il Cairo e trasferitosi successivamente a Parigi in seguito all’espulsione decretata dall’Egitto nei suoi confronti nel 1957, scrive:
Bisogna imparare a scrivere con parole inzuppate di silenzio.
Quando m’imbattei in quest’affermazione, grazie a Pier Aldo Rovatti, mio Professore all’Università di Trieste e mio futuro relatore per la discussione della tesi di Laurea, che aveva curato un breve ma illuminante saggio proprio a chiusura dell’edizione italiana segnalata del testo in questione intitolato L’Io straniero e il silenzio della parola, realizzai che la fulminante sentenza di Jabès avrebbe senz’altro potuto costituire una sorta di boa, esterna ma al contempo fortemente connessa al pensiero di Cioran, cui fare riferimento nella mia navigazione silenziosa e il più possibile attenta a tradire il meno possibile la peculiare anti-sistematicità del Privatdenker rumeno (così sovente Cioran “definiva” se stesso mutuando Søren Kierkegaard). Perché non inserirla nel titolo dunque, vista l’azione gravitazionale che aveva costantemente esercitato nel corso della stesura del testo? Un altro cardine attorno cui tutto il mio saggio ruota non poteva essere che un aforisma di Cioran stesso, contenuto nei Sillogismi dell’amarezza:
Non c’è salvezza se non nell’imitazione del silenzio. Ma la nostra loquacità è prenatale. Razza di parolai, di spermatozoi verbosi, noi siamo chimicamente legati alla parola.
Emerge da qui un altro tema che ritengo centrale in una possibile ermeneutica del pensiero cioraniano, ossia quella dell’impossibilità, dello scacco consustanziale al fatto stesso di esistere. “Essere è essere incastrati”, avverte infatti l’autore de L’inconveniente di essere nati.
- Cioran è stato per molti anni uno studioso per palati fini, piuttosto sconosciuto, mentre ora un suo aforisma dai libri Adelphi è un modo di dire che si concedono in tantissimi. Che è successo?
Credo che Cioran abbia preconizzato in modo violentemente lucido, una lucidità che è “pugnale nella carne” (il rumeno scrive questo della coscienza, ma tant’è…), la condizione umana di questo inizio di terzo millennio. Sebbene egli disprezzasse ogni forma di “profetismo”, in quanto ogni profeta che nasce aumenta il tasso di male presente nel mondo (i danni delle ideologie, quella unica neoliberista attuale è solo l’ultima anche se forse la più metastatizzante, nel corso della storia sono sotto gli occhi di chiunque voglia guardare), il suo prefigurare il futuro in senso catastrofico, il suo dispensare veleno si “capovolge”, questa per altro l’etimologia del termine “catastrofe”, in una insperata possibilità terapeutica, in inatteso farmaco (φαρμακον è sì medicina e rimedio ma anche, per l’appunto, “veleno”). Lui stesso sostiene che la sua medicina “non è universale” eppure, per dirla con Guido Ceronetti, frequentando lo scrittore rumeno si avverte la presenza di “una mano tesa”.
Questo bizzarro rapporto di amicizia che Cioran è capace di instaurare con i suoi lettori potrebbe essere alla base di questa specie di Cioran-renaissance cui stiamo assistendo. In ogni caso, e resto ancora dalle parti di Ceronetti, “l’ultima lanterna” come ebbe a designare il piemontese:
Succede anche questo: che i migliori amici della società umana si reclutano spesso proprio in questi smilzi rinneganti rinnegatori. Chi denuncia che la peste c’è, salva; chi dice che si tratta di un raffreddore, assassina.
Forse la chiave sta proprio qui.
- Perché ha scritto questo nuovo saggio dal momento che Cioran era già nel titolo di un suo libro ora non più disponibile in commercio?
Il mio primo saggio cercava d’indagare le assonanze tra Cioran e pars destruens del buddhismo; qui invece sono entrato in uno dei nuclei forti del pensiero di Cioran. Molte sono le strade d’accesso al pensiero del filosofo di Rašinari ma qui ho voluto imbastire la faccenda intorno al tema del silenzio non solo per la sua centralità ma anche perché questo mi avrebbe consentito la digressione musicale presente nel testo (il sottoscritto è infatti in primis un musicista). La musica del XX secolo (si tratta di musiche che letteralmente adoro e che considero l’esito forse più alto in ambito artistico del “secolo breve”) mostra rapporti senza precedenti con il silenzio non solo nei tre compositori cui ho brevemente fatto cenno (György Ligeti, transilvano come Cioran ma ungherese, il “nostro” Luigi Nono e lo statunitense Morton Feldman) ma in innumerevoli altri (l’esempio più ovvio è quello naturalmente di John Cage che alla relazione tra musica e silenzio ha anche dedicato un saggio). Il silenzio inoltre è anche interconnesso, si veda la citazione più sopra, con l’altro tema forte del testo ossia, appunto, quello dell’impossibilità, dello scacco, del fallimento (Apologia del fallimento potrebbe essere un buon titolo per un futuro lavoro). Insomma laddove Cioran e Buddha: una fruttuosa impossibilità (titolo del mio primo saggio in cui è per altro presente proprio il termine di cui si discorreva poco fa) parte dalla periferia per inoltrarsi verso l’interno, con Cioran verso un parola inzuppata di silenzio, emergiamo direttamente dentro il nucleo rovente del “pianeta Cioran”.
- Lo studioso romeno, vissuto a Parigi per gran parte della sua vita, ha di fatto ucciso la filosofia hegeliana e kantiana, tornate ad essere materia di studio, ma nessuno si sognerebbe di farne libri per i lettori. Perché?
A mio parere la filosofia sistematica tende a forzare le cose. Il filosofo sistematico parte da un’idea e piega il reale e la vita a quell’idea. Se la realtà dovesse rivelarsi incompatibile con le sue posizioni, tanto peggio per la realtà. Mi vengono in mente quei giochi per bambini in cui bisogna inserire ogni forma al proprio posto. Diciamo che il filosofo sistematico, se fosse il caso, sarebbe disposto a spingere un triangolo dentro un quadrato anche a costo di mandare tutto in pezzi.
Il frammento invece segue la vita, persino la fisiologia, secondo Cioran. Ecco cosa scrive il rumeno nei Cahiers:
Il mio procedimento è quello dei pittori: disegno, ossia scrivo i contorni di un testo; poi sviluppo procedo per strati successivi; il che comporta necessariamente contraddizioni, incompatibilità, contrasti; è un rischio da correre, un rischio che corro. Che cosa fa, invece, uno spirito coerente? Enuncia una definizione da cui non intende recedere; viola il problema di cui tratta, lo forza sempre. La logica ne guadagna, la vita ne soffre. Anche lui corre dei rischi.
Sebbene certamente provvisti di un’auto-percezione e di un’autocoscienza capaci di garantirci (o di darci l’illusione di farlo!) la sensazione di una continuità, di essere sempre “noi stessi”, è indubbio che invece ci modifichiamo, talvolta nel giro di pochi istanti. Le più recenti acquisizioni delle neuroscienze mi sembrano davvero chiarificatrici, anche se siamo probabilmente ancora all’alba della conoscenza del cervello. Non a caso ultimamente sono molto interessato alla questione della coscienza (decisiva anche per Cioran) letta in chiave scientifica.
Mi dichiaro in questo senso “emergentista”, una posizione che, in estrema sintesi, supera la contrapposizione tra il dualismo cartesiano tra res cogitans e res extensa senza cadere nel riduzionismo fisicalista che mi pare altrettanto insostenibile, sposando l’idea che la coscienza, come la vita stessa d’altronde, sia un «fenomeno emergente» dalla complessità della struttura materiale del nostro cervello. Il quid che emerge non può né essere totalmente ridotto al cervello, come vogliono i fiscalisti più duri (e dunque si nega la sovrapponibilità assoluta di mente e cervello), né essere considerato come una sostanza autonoma completamente slegata dal mondo materiale, come asseriscono invece i dualisti (e dunque si sbarra la strada a letture troppo metafisiche della realtà).
- In generale la sistematizzazione di un pensiero filosofico la lasciamo nelle aule universitarie. Perché il frammento ci è così congeniale?
Il frammento, la scrittura aforistica sembrano essere capaci di «catturare qualche atomo di verità» (si tratta di un’autocitazione e con la parola “verità” scritta rigorosamente in minuscolo), di dare conto delle nostre contraddizioni (una costruzione sistematica invece andrebbe in frantumi davanti a un’aporia o a una contraddizione insanabile). I famosi “maestri del sospetto” hanno in qualche modo sciolto i legami che tenevano insieme la nostra società (probabilmente la «morte di Dio» annunciata da Friederich Nietzsche è quella che ha esercitato il potere di lisi più profondo, ma certamente l’opera, in un certo qual modo, di “disgregazione del soggetto” operata da Sigmund Freud non appare meno notevole); in questo senso la sentenza cioraniana secondo cui “è chiaro come il sole che Dio era una soluzione e che non ne troveremo mai una altrettanto soddisfacente” mi pare emblematica.
Senza più alcun centro di gravità cui affidarsi, con gli occhi spalancati volenti o nolenti (e mi viene in mente “Arancia meccanica” nonostante la tematica del film di Stanley Kubrick non abbia nulla in comune con quello di cui andiamo divagando) siamo gioco forza costretti a consegnarci al frammento, nella speranza (ma si sa che “la speranza è la forma normale del delirio”) di trovare un gioco, meccanicamente inteso come minimo spazio, si pensi a un dado e a un bullone, ove poter esercitare «lo scandalo del respiro»; un risicato spazio di manovra è infatti tutto ciò che abbiamo.
- Perché è così importante il silenzio nel pensiero di Cioran?
E qui arriviamo al terzo cardine: l’idea di silenzio melodioso. Per quale ragione Cioran arriva a sostenere che “la creazione fu il primo atto di sabotaggio”?
Perché essa, la creazione, ha posto fine all’onnipotenzialità del possibile precedente l’atto creativo divino, perché, e uso un’immagine tratta dalla meccanica quantistica, la creazione ha causato il collasso della funzione d’onda, ha stabilito una realtà che non possiamo mutare se non verso il peggio (come noto l’intera storia umana viene considerata dal pensatore rumeno come una corsa verso l’Irreparabile, vera essenza del reale e sua realizzazione finale), perché, in ultima istanza, ci ha strappati dal silenzio melodioso. Questo ossimoro folgorante fa dunque riferimento a una situazione antecedente ogni “caduta nel tempo”, a una paradossale condizione in cui tutto avrebbe anche potuto andare diversamente (l’idea di un creatore non proprio cattivo ma senz’altro «incompetente» ritorna spesso nelle sue pagine).
Ossimori e paradossi sono trappole retoriche capaci di intercettare e rendere in qualche modo disponibili particelle di verità (ancora, rigorosamente, con lettera minuscola), a loro dobbiamo affidarci se vogliamo ricevere qualche suggerimento sull’essenza della nostra situazione. Niente affermazioni stentoree, niente dogmi e nessuna verità legata alla scienza, lo dico da appassionato lettore di saggi di fisica, cosmologia o neuroscienze. Forse il punto di massima distanza tra i miei interessi e il pensiero di Cioran riguarda proprio la scienza e tuttavia quando, nei Sillogismi dell’amarezza, egli scrive «obiezione contro la scienza: questo mondo non merita di essere conosciuto», capisco perfettamente il suo punto di vista e ne subisco la fascinazione. Tutto il mio libro, in fondo, tenta di illustrare le strategie che il rumeno ha approntato per iniettare silenzio all’interno delle parole (non un silenzio qualunque, ma proprio il silenzio melodioso). Opponendosi al principio di non contraddizione, mediante l’uso massiccio di ossimori e paradossi, attraverso il suo straordinario stile iperbolico Cioran ha cercato di rendere le proprie parole porose, sorte di spugne capaci di lasciarci intuire il silenzio melodioso, quasi fossero globuli rossi che ci nutrono, non con l’ossigeno, ma con tale peculiare tipologia di silenzio. L’effetto, a mio parere, è stato quello di aumentare enormemente l’efficacia del suo dire, in una specie di apoteosi della nostalgia per il tempo prima del tempo in cui il silenzio melodioso dominava un universo ancora non nato; egli ci ha offerto una caritatevole cura, una «mano tesa» (Guido Ceronetti), un porto sicuro, un’amicizia profonda e lenitrice.
- Il silenzio è sempre nell’alveo del suo scetticismo?
Spesso Cioran viene tacciato di essere nichilista. Certo lui ben di rado si è preso la briga di contestare tale giudizio. Lo fa ad esempio nella “famosa” intervista rilasciata a Christian Bussy per la televisione belga nel 1973 («Io non sono nichilista. Non sono niente») che è stata pubblicata, con il meraviglioso titolo di Vivere contro l’evidenza (a proposito di fulminee e potenti espressioni che ci lasciano gustare qualcosa), dall’editore La scuola di Pitagora nel 2014 con la curatela del mio caro amico Antonio Di Gennaro. Cioran è decisamente meglio disposto verso lo scetticismo, una posizione che combacia molto più strettamente, realizzando una sorta di corrispondenza biunivoca, con la sua impareggiabile e devastante lucidità. Ritengo che l’esercizio della lucidità portato agli estremi cui Cioran è giunto abbia come esito inevitabile lo scetticismo. Attenzione però a non cadere in una qualche forma di “tentazione sistematica”, è lo stesso Cioran a disattivare ab initio questa possibilità quando, nella primissima pagina dei Cahiers (che aveva destinato alla distruzione ma che, per nostra fortuna, sono stati fatti pubblicare da Simone Boué, compagna del rumeno) afferma «il mio scetticismo è inseparabile dallo smarrimento, non ho mai capito come si possa dubitare per metodo» (corsivo dell’autore, probabile bersaglio Cartesio). D’altra parte la lucidità portata al parossismo, oltre che essere «incompatibile con lo scandalo del respiro», non può che portare allo smarrimento in un’ottica, a mio modo di vedere, di esacerbazione iper-realistica della percezione del nostro Dasein (che io usi un termine heideggeriano farà certamente rivoltare “il mio amico rumeno” nella tomba). L’approdo finale al silenzio editoriale da parte di Cioran potrebbe essere legato, ma si tratta solo di una mia ipotesi del tutto opinabile, proprio alla definitiva rottura degli argini da parte dello scetticismo lucido di cui Cioran era stato latore. Ricordo che lo skeptikós è il “sottile osservatore”, colui dunque che guarda alla realtà con maggior attenzione di chi legga ogni evento o ogni ente sulla base di una qualche lente deformante di stampo ideologico. Scèpsi e sguardo lucido sono davvero interrelati fin dal principio. La relazione scetticismo-silenzio può essere interpretata alla luce dell’impossibilità di stabilire una finalità, un τέλος per il reale di contro all’esigenza tutta umana di individuare uno scopo, un perché finalistico dell’esistente (si tratta della celebre Grundfrage, la domanda fondamentale che serpeggia tra Leibniz, Schelling e da ultimo Heidegger sul «perché l’essere invece del nulla»). Mi sembrano particolarmente significative le considerazioni che Giuseppe Rensi propone nel suo Apologia dello scetticismo che voglio riportare:
La formula dello scetticismo, più esatta che non quella “non c’è verità”, è la seguente: - ecco i fatti; essi non hanno alcuna spiegazione (essenziale, razionale); essi non hanno alcuna ragione.
Il reale è; è per questa“ non-ragione” che è; è, senza essere deducibile dalla ragione; è, e non è ragione. E bisogna capire che pretendere che le cose abbiano una ragione, è voler immettere in esse una nostra finctio o disposizione soggettiva; il desiderio umano d’un perché.
- Noi umani siamo "caduti" nel tempo storico e abbiamo bisogno di parlare per capirci, ammesso lo si possa fare nella Babele generale, usando almeno l’inglese. È possibile per lei che la gente ami Cioran perché è un precursore dell’ecologia tout-court?
In realtà ho come l’impressione che ci si capisca sempre meno. Credo anche che l’atomizzazione sociale indotta dall’ideologia neoliberista (alla faccia di chi sostiene la morte delle ideologie) abbia giocato un ruolo non indifferente in questo processo. Siamo sempre più individui isolati, la coesione sociale va sbriciolandosi e le occasioni di un dialogo franco e fruttuoso vanno diradandosi sempre di più. Ciò detto certamente Cioran riesce a stabilire un rapporto intenso e del tutto peculiare con i propri lettori e sospetto che la sua interpretazione potrebbe costituire un’ottima chiave di lettura. L’altra mia lanterna, se non si fosse capito, è Guido Ceronetti per il quale questo discorso vale allo stesso modo. Quando il piemontese dà alle stampe una frase come “Noi, i Geofagi”, sembra inaugurare un programma, redigere un manifesto con tre parole. Ancora una volta è in patente azione la potenza della distillazione aforistica dei pensieri, il potere riconfigurante del frammento. Oikos, che è l’etimo della prima parte della parola “ecologia", in greco significa “casa”.
Le “staffilate” di Cioran (e quelle di Ceronetti) configurano una casa, stabiliscono i contorni di un ambiente, creano letteralmente uno spazio condiviso in cui autore e lettore vivono la possibilità di un incontro. In questo senso credo che la sua suggestione sia ampiamente condivisibile.
- Non trova interessanti i libri di Vladimir Jankélévitch quasi quanto quelli di Cioran?
Jankélévitch mi fu suggerito da Pier Aldo Rovatti in una situazione informale (eravamo al Bar accanto alla Facoltà); all’epoca non lo avevo ancora mai affrontato. Rovatti mi disse che avrei potuto trovarlo di qualche interesse e così fu. Non ho letto la sua opera omnia ma certamente un paio di libri mi sono rimasti particolarmente cari. Mi riferisco a La morte, un testo che il filosofo francese pubblicò nel 1977, dal quale trassi, in particolare, il sentimento di una sorta di asimmetria tra nascita e morte, posizione che anche Cioran ha ripreso:
Prima si aveva la fortuna di non esistere; ora esistiamo e proprio questa particella di esistenza, quindi di sventura, teme di scomparire.
L’idea che «nascita e morte siano due misteri gemelli» è definito da Jankélévitch come “un grande errore” in quanto:
Il rovesciamento dei rapporti tra non-essere ed essere cambia tutto. Infatti, all’inizio, è l’essere che succede all’essere (…) No, non c’è nessuna omologia, nessuna equivalenza tra l’avvento all’essere di colui che ancora non era e la nichilizzazione tragica di colui che era già.
Certo, senza nascita non c’è morte possibile e questo resta un caposaldo della Weltanschauung del pensatore transilvano, e tuttavia questa asimmetria merita senz’altro di essere rilevata. L’altra opera capitale di Jankélévitch è, per me che sono un musicista, La musica e l’ineffabile (testo del 1961). Alla fine nella “digressione musicologica” presente nel mio libro non ho utilizzato citazioni da quel testo, ma certamente è un lavoro che ho molto amato. Ho appena fatto cenno alle citazioni. Il lettore noterà che anche nel corso di questa intervista ne ho fatto largo uso. Il mio punto di vista a riguardo, e probabilmente andrò un po’ controcorrente, è che se qualcun altro ha espresso un concetto meglio di quanto io possa mai sperare di fare, potrebbe essere un’idea non troppo bislacca prendere da lui e offrire a chi mi legge.
- Non è che il suo interesse per Cioran la renda più simpatico, nella foto profilo sembra uno dei Tre Moschettieri, ha sempre la battuta pronta? Se le va, ci dice il suo percorso accademico, o almeno le sue letture o i filosofi che le piacciono?
In genere le battute mi escono con mezz’ora di ritardo! Dunque…il mio percorso accademico... Prima di affacciarmi alla filosofia ho fatto studi di stampo scientifico. Ho frequentato l’allora Istituto tecnico biologico-sanitario a Gorizia; ho poi fatto due anni alla Facoltà di Medicina e Chirurgia a Trieste e sono infine approdato, con tutta la calma del caso che la musica restava pur sempre al centro dei miei interessi più intimi, alla Facoltà di Filosofia (sempre a Trieste). Prima della tesi su Cioran ho lavorato per qualcosa come quattro anni a una intorno alle ricadute sul dibattito tra realismo e antirealismo alla luce della meccanica quantistica («lei scrive in modo troppo brillante», era la continua obiezione del mio relatore).
A dirla tutta gran parte delle mie letture riguardano la scienza. Da sempre sono appassionato di astronomia, astrofisica, cosmologia e fisica fondamentale sebbene abbia discrete difficoltà già con le equazioni di secondo grado! Sono abbonato alla rivista dell’ Istituto Nazionale di Fisica Nucleare per cercare di tenermi aggiornato. In sintesi se la filosofia non trova di meglio che appiattirsi sulla scienza (naturalmente sto semplificando all’estremo ma certamente il programma di molto neopositivismo e di molta filosofia analitica era in estrema sintesi questo) allora mi pare molto più sensato rivolgersi direttamente ai fisici (in quanto rappresentanti della scienza più “dura”). Di recente m’interessano molto anche le neuroscienze e in particolare la questione dell’emersione della coscienza. Sul fronte “filosofico” amo coloro che, come Cioran, si situano in un’area grigia, al punto d’intersezione tra filosofia, poesia e arte. L’altro grande faro per me, come accennato, è Guido Ceronetti. Se avessi tempo (e, lo confesso, la forza) mi piacerebbe intraprendere uno studio comparato tra il suo pensiero e quello di Cioran. In rete esiste un breve articolo, da me redatto in occasione della morte del piemontese, dove prefiguro una tale possibilità dal titolo Ceronetti e Cioran. Amichevoli messaggeri dell’inesorabile ospitato dal sito Orizzonti culturali italo-romeni. Per chi volesse…altri abitanti di quell’intersezione che amo molto sono, volendo fare una rapida carrellata, Fernando Pessoa (considero Il libro dell’inquietudine un vero capolavoro), Edmond Jabés che abbiamo già incontrato, Elias Canetti e, un po’ il nonno di tutti, quello che considero il più grande filosofo italiano di sempre, Giacomo Leopardi.
La lista potrebbe continuare ma diventerebbe, forse, noiosa. Dunque da un lato la scienza, il suo metodo e i suoi panorami che considero molto più affascinanti di tanta “India turistica” e di troppi misticismi di bassa lega, dall’altro la lucidità impietosa di Cioran e di tutta quella pletora di diagnosti della condizione umana che a lui potrebbero essere avvicinati, perché, e lascio per l’ultima volta la parola all’amico rumeno (lo chiamo così come sapete…lo è davvero.
Per me Cioran non è infatti oggetto di studio ma di una forma peculiare di φιλία, di amore):
Solo un mostro può permettersi il lusso di vedere le cose per quel che sono.
Recensione del libro
Cioran verso una parola inzuppata di silenzio
di Alessandro Seravalle
© Riproduzione riservata SoloLibri.net
Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Intervista ad Alessandro Seravalle, in libreria con “Cioran verso una parola inzuppata di silenzio”
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