

Il Richiamo dell’Abisso di Andrea Beltramo, meglio noto come doppiatore, conduttore televisivo e attore, è un romanzo che si fonda su una storia ben articolata e strutturata con equilibrio, dove le parti narrative sono perfettamente bilanciate con le parti descrittive e quelle riservate ai dialoghi.
Ciò che colpisce piacevolmente, che cattura il coinvolgimento del lettore come una vera calamita, è indubbiamente l’estrema cura, l’attenzione profonda, quasi maniacale - nell’accettazione più positiva del termine - riservata ai dettagli e ai particolari.


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Questo aspetto rappresenta, a mio avviso, la dinamica narrativa più solida e coinvolgente dell’intera storia narrata, una storia già di per sé accattivante e coinvolgente per gli onnipresenti elementi di suspense, per gli intrecci non scontati e i risvolti inaspettati che riguardano i legami fra i diversi personaggi, per il ritmo serrato e incalzante all’interno di una prosa scorrevole, lineare e diretta; un aspetto che ricorda da vicino l’indugio, particolare a cui ricorre un regista dietro la telecamera quando si sofferma con “lenta” precisione e attenzione, sequenza dopo sequenza, su più dettagli e particolari possibili.
Questa impostazione narrativa permette di calarsi al meglio non solo nelle atmosfere ben delineate dei contesti e paesaggi esterni, così come fra le mura di luoghi interni, al chiuso, ma soprattutto nei “panni” dei singoli personaggi, la cui fisicità e sfera psicologico-emotiva, i cui gesti e azioni sono abilmente tratteggiati.
In questa intervista conosciamo meglio il suo mondo narrativo, e non solo...
“A volte la verità non basta, a volte serve anche la speranza” sussurra, girandosi a guardarmi con quegli occhi che sembrano vedere attraverso di me.
L’intervista ad Andrea Beltramo
- Raccontaci come nasce il seme di questa storia. Ti affascinano da sempre le dinamiche che ruotano attorno al male e all’arcano, all’ignoto, al mistero, oppure le hai “incontrate” solo da poco tempo? Quali sensazioni e sentimenti ti lasciano dentro?
Il fascino per il mistero, l’ignoto e il male ha sempre esercitato una forte attrazione su di me. Il Richiamo dell’Abisso nasce proprio da questa curiosità: l’idea di esplorare il lato oscuro della psiche umana, ma anche di metterlo in contrapposizione con il desiderio di redenzione.
Il male è spesso visto come qualcosa di distante, ma in realtà è più vicino di quanto si pensi, si insinua nelle scelte quotidiane, nei compromessi morali. Questo libro è nato dall’esigenza di raccontare questa ambiguità, di scendere in quell’abisso interiore e capire fino a che punto un uomo può spingersi prima di perdere sé stesso. Scrivere questa storia mi ha lasciato un misto di inquietudine e riflessione, una consapevolezza più profonda della fragilità dell’animo umano.
- Ritroviamo nei personaggi maschili alcuni aspetti e chiaroscuri che fanno parte della tua persona? Se sì, quali?
Assolutamente sì. Ogni personaggio è inevitabilmente intriso di qualcosa di me, consapevolmente o meno. Nel protagonista c’è il mio senso di inquietudine, la mia ricerca di risposte, il desiderio di capire gli abissi della mente. Nei suoi momenti di smarrimento e paura rivedo le mie fragilità, mentre nella sua ostinazione a trovare un senso, nonostante tutto, c’è anche una parte di me che non si arrende mai. Pino, invece, incarna l’aspetto più oscuro dell’essere umano, quello che temevo ma che volevo esplorare: l’idea che a volte il male non abbia bisogno di una grande motivazione per esistere, ma sia semplicemente una forma di potere, di controllo, di sopravvivenza.
- Quale messaggio, o anche più di uno, hai cercato di veicolare attraverso questo libro?
Volevo raccontare il dualismo tra luce e ombra dentro ogni essere umano, l’idea che nessuno sia completamente buono o completamente cattivo, ma che siano le circostanze, le scelte, i rimorsi a definire ciò che diventiamo.
C’è anche un forte tema di identità e di destino: siamo padroni delle nostre azioni, o siamo trascinati da qualcosa di più grande? Infine, Il Richiamo dell’Abisso è anche un libro sulla solitudine, sulla ricerca di connessioni autentiche in un mondo che spesso ci lascia alla deriva.
- Cosa ami di Torino, città in cui è ambientata la storia, e cosa di lei desta in te perplessità?
Amo l’atmosfera di Torino, il suo fascino esoterico, il modo in cui il passato si mescola con il presente. È una città che sa essere misteriosa, quasi silenziosa, ma che nasconde storie potenti, antiche, quasi magiche.
Perplessità? Forse il fatto che questa sua bellezza non sempre venga valorizzata come meriterebbe, e che a volte sembri chiusa in sé stessa, quasi restia a mostrarsi completamente.
Torino ha questo modo di avvolgerti con le sue ombre e i suoi silenzi, nascondendo tutto ciò che non vuole farti vedere.
- Il tema della solitudine è indubbiamente predominante nel corso della narrazione. Che rapporto hai con lei e con il concetto di abbandono? Ritieni che la solitudine possa essere un’àncora di salvezza in alcuni casi, una sorta di compagna con cui si può convivere serenamente, oppure nutri diffidenza e paura verso di lei?
La solitudine può essere sia una condanna che una salvezza. Credo che a volte sia necessaria, perché ti costringe a guardarti dentro, a comprenderti meglio. Ma se diventa troppo prolungata, può essere pericolosa, perché rischia di allontanarti dalla realtà, di farti sprofondare in pensieri senza via d’uscita.
Nel mio romanzo, il protagonista lotta con questo dualismo: ha bisogno della solitudine per capire sé stesso, ma allo stesso tempo teme di perdersi in essa.
Gli altri non notano queste cose, ma io sì.
Forse è per questo che sono rimasto da solo.
- Il libro è improntato in più punti sul tema dell’istinto, dell’impulso carnale, della passione. Cosa senti di dirci dell’amore, del romanticismo? Credi che al giorno d’oggi ci sia un bisogno estremo di tornare a viverlo in modo più consapevole e vero?
L’amore oggi è spesso consumato in fretta, confuso con il bisogno di riempire un vuoto. C’è una difficoltà nel lasciarsi andare davvero, nel vivere le emozioni senza filtri, senza la paura di mostrarsi vulnerabili. Credo che l’amore, quello vero, sia un atto di coraggio, un salto nel vuoto. E sì, penso che ci sia un bisogno enorme di tornare a viverlo con più autenticità, senza schemi imposti, senza paura di sentire davvero.
Ci guardiamo, e in quello sguardo c’è tutto: la paura, la speranza, il desiderio e qualcosa di più profondo, una connessione che va oltre le parole e il tempo. Mi sembra di riconoscerla in un modo che non saprei spiegare, come se l’avessi cercata per tutta la vita e solo ora l’avessi trovata.
- Quali influenze letterarie possiamo rintracciare in questa tua opera? Quali autori hanno lasciato un’impronta nella tua visione di vita? Ce n’è uno in particolare a cui ti senti più legato, che ti ha maggiormente stimolato? E sulle influenze cinematografiche e televisive, cosa puoi rivelarci?
Ci sono sicuramente influenze di autori come Robert Louis Stevenson, Lovecraft, Edgar Allan Poe, ma anche di scrittori moderni come Stephen King.
Dal punto di vista cinematografico, Il Richiamo dell’Abisso ha un’estetica molto ispirata a Penny Dreadful, con le sue atmosfere gotiche e il suo senso di inquietudine costante.
- Cosa provi in generale durante la lettura, al di là dei gusti preferenziali di genere e delle aspettative verso un libro? E quali sensazioni ed emozioni nutri quando sei alle prese con la stesura di un libro?
Quando leggo, cerco sempre di farmi trasportare, di sentire le emozioni dei personaggi, di immedesimarmi in loro. Quando scrivo, invece, è un’esperienza ancora più profonda: è un viaggio interiore, un processo quasi terapeutico. Scrivere significa scavare dentro sé stessi, affrontare le proprie paure, le proprie domande irrisolte.
- Conduttore televisivo, doppiatore e attore. Sei sicuramente una figura poliedrica, plasmata da molteplici interessi, che si nutre di differenti stimoli. Quali aspetti ami di più, pensando a ciascun settore professionale che ti vede protagonista? Dove, fra i tre, ritrovi il tuo “io” più autentico e profondo?
Ogni settore ha la sua magia. La conduzione televisiva mi ha dato l’opportunità di raccontare e comunicare con un pubblico giovane. Il doppiaggio è un’arte che amo profondamente, perché ti permette di dare voce e anima a personaggi che altrimenti non avrebbero suono. Il teatro, però, è il luogo dove mi sento più vivo: il contatto con il pubblico, l’energia della scena, l’adrenalina del momento.
- Hai già in progetto un altro libro, l’idea di una storia che ti stuzzica?
Sì, sto già lavorando a un nuovo romanzo, questa volta ambientato nella Torino del 1862. Sarà una storia intensa, con elementi storici e misteriosi che si intrecciano. Non voglio anticipare troppo, ma posso dire che anche questa volta ci sarà un forte legame con la città e con le sue ombre.
Mi guardo meglio: sono io, un trentaseienne solo che sembra sempre alla ricerca di qualcosa senza mai sapere precisamente cosa.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Intervista all’attore Andrea Beltramo, autore di “Il Richiamo dell’Abisso”
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