Cenere in bocca, il secondo libro di Brenda Navarro edito da La Nuova Frontiera nella traduzione di Gina Maneri, si apre con una scena sconcertante che si svolge a ripetizione nella mente della protagonista come se fosse impressa su pellicola. La donna riformula nella sua testa un’immagine a cui non ha davvero assistito nella realtà: il suicidio del fratello adolescente. Dunque ecco Diego che cade e il rumore del suo corpo sul marciapiede, espresso attraverso varie onomatopee dal suono sinistro. L’immagine, quasi fotografica, del falling man attraversa questo libro come una costante: è la tragedia alla quale le parole non riescono a dare senso né sostanza, qualcosa che accade al di sopra di tutto e scava tutt’attorno una fossa di muta impotenza. È il trauma da cui sgorgano come sangue le parole che diventano un organismo vivo.
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La scrittura di Brenda Navarro è travolgente, impetuosa, non lascia scampo, avviluppa interamente il lettore nel suo sentire tenendolo come in apnea, senza concedergli di riprendere fiato. Cenere in bocca è una storia cruda, reale, di un’attualità bruciante. È una storia raccontata dal punto di vista di chi non ha voce, di chi viene spinto ai margini e rimane inascoltato; ma ora, ecco, ha la possibilità di parlare attraverso questa protagonista che non si tira indietro e snocciola una parola dietro l’altra, agitando le parole davanti a sé come pugni, pronta ad attaccare. C’è un grido sottotraccia che percorre ogni pagina di questo libro: è la disperazione per una morte ingiusta che si poteva evitare; è la denuncia di una violenza silenziosa che si abbatte sempre sui più deboli, le donne, i bambini, gli stranieri; è il dolore dello sradicamento e della difficile costruzione di un’identità sociale valida in una terra straniera che ti respinge come un corpo estraneo. A un certo punto del romanzo la protagonista è costretta amaramente ad ammettere: “Sono del posto in cui vivo”.
Questa consapevolezza lacerante si unisce a una somma di altre consapevolezze che la voce narrante, una giovane donna messicana trapiantata in Spagna, accumula nel corso del suo accidentato cammino mentre riflette sul proprio passato e sul proprio futuro elaborando emotivamente il lutto per la morte del fratello.
Cenere in bocca ha avuto un enorme successo in Spagna; il principale quotidiano spagnolo El Pais l’ha definito una “trayectoria sacrificial, de desigualdad, racismo y desamparo”, una traiettoria sacrificale di disuguaglianza, razzismo e impotenza.
Ne abbiamo parlato con Brenda Navarro in questa intervista.
- Volevo iniziare dal senso metaforico del titolo: “Cenere in bocca” (nell’originale Ceniza en la boca, Ndr), indica una sensazione di amarezza, di scontentezza, ma si lega anche a una tradizione messicana per cui mettere della cenere sul capo è un segno di pentimento. Nel finale del libro tuttavia il significato metaforico-simbolico del titolo si dissolve e diventa reale come una forma antropofagica di elaborazione del lutto. Dove finisce la metafora e dove inizia il vero?
Per me era molto importante partire da questa metafora, la “cenere in bocca”, perché secondo il mio punto di vista il dolore passa attraverso il corpo e, soprattutto, attraverso il processo digestivo. Ed è sempre il corpo, la pancia, il luogo dove passano tutte le nostre paure e pure il nostro tentativo di elaborarle. Quindi per me era importante partire proprio da lì, dal corpo.
Il libro si apre con un lutto e racconta la sua elaborazione. Perché la mia protagonista affrontasse il proprio dolore era necessario questo gesto estremo, materiale, fisico: la “cenere in bocca”.
- Quando ha sentito che era giunto il momento di scrivere questo romanzo? C’è qualcosa in particolare che l’ha ispirata?
Stavo scrivendo un altro romanzo, quando ho sentito la notizia di un ragazzo di quattordici-quindici anni che si era buttato dalla finestra. La tragedia era avvenuta in un barrio sud di Madrid, il che significava che il ragazzo doveva essere un migrante. Da quel momento ho cominciato a pensare come la protagonista, la voce narrante, che è la sorella del ragazzo morto suicida.
Quindi ho abbandonato del tutto l’altro romanzo a cui stavo lavorando, perché ho pensato a quanto forte dovesse essere il dolore di questo adolescente che non aveva altra maniera di comunicarlo se non attraverso un gesto così estremo. L’unica sua possibilità di dire qualcosa politicamente era attraverso il suo corpo. Un corpo che cade da un’altezza vertiginosa. Con questa immagine, di forte impatto, si apre e si chiude la storia.
- Nel libro la discriminazione razziale patita dalla protagonista e dal fratello passa attraverso la lingua. Lei la chiamano “panchita”, mentre lui è chiamato “il Cule” – e capiamo a pelle che si tratta di un insulto. Il razzismo si esprime anche attraverso il linguaggio?
Io sono una scrittrice messicana che vive a Madrid e sento ogni giorno che il castigliano che si parla nella capitale non è un castigliano neutro. Ci sono diversi tipi di castigliano, non solo quelli spagnoli, ma anche quelli che provengono dal sud America. Mi sembrava una proposta letteraria interessante utilizzare questa lingua sapendo che c’erano dei lettori che avrebbero capito la discriminazione insita in essa.
Io stessa non me ne sono accorta finché non ho iniziato a vivere in Spagna. Solo una volta arrivata a Madrid mi sono resa conto che le donne latine erano relegate a un certo tipo di lavoro, dunque a fare le badanti o altre mansioni più degradanti. Per la prima volta ho avuto la consapevolezza di essere parte di quel gruppo. Quindi quella narrata nel libro è una storia di finzione, ma, in parte, è anche la mia storia. La cosa più interessante era ascoltare le donne spagnole, mentre prendevano il caffè, parlare delle loro lavoratrici latine: dicevano di considerarle loro pari, ma dalle sfumature nella lingua si intuiva che non era davvero così.
- È corretto dire che i sentimenti dominanti in questa storia sono la solitudine e la rabbia?
Questo romanzo l’ho scritto durante la pandemia. Tutti abbiamo vissuto la solitudine durante la pandemia e mi sono chiesta quanto difficile dovesse essere per un adolescente affrontare questa situazione e riuscire a raccontare un sentimento così indefinibile. Mi è sembrata una buona metafora per riflettere sul fatto che noi non ascoltiamo gli adolescenti, il loro dolore – e come società è il peggior errore che stiamo commettendo.
Per questo motivo volevo costruire il personaggio dell’adolescente attraverso il silenzio; anche se qualche volta lo sentiamo parlare non sappiamo mai davvero cosa pensa, perché c’è sempre un filtro, attraverso la madre, attraverso la sorella.
- Nel libro il ragazzo, Diego, non esprime il suo dolore…
Il ragazzo non parla, doveva essere costruito per forza attraverso questa assenza di linguaggio. La costruzione della verità a partire da uno specifico punto di vista è ciò che mi interessa soprattutto problematizzare nella letteratura.
- Tutti i suoi libri hanno un impianto sociologico. In queste pagine si parla di emigrazione, sradicamento e del dolore che ne deriva. Secondo lei, da sociologa oltre che da scrittrice, c’è una soluzione a questo problema? Si può limitare la solitudine degli stranieri?
Sì, c’è un fattore sociologico, in effetti. Il primo libro che ci fanno leggere all’università è Il suicidio di Émile Durkheim. Ed è molto interessante affrontare il suicidio come argomento filosofico, culturale e sociale, anche perché solitamente non ce ne lasciano parlare.
Credo invece che bisogna cominciare a parlare del suicidio e smettere di considerarlo un tabù. E penso che la letteratura possa essere uno spazio dove questo possa avvenire. In fondo è proprio questo il mio lavoro dentro la letteratura; il mio punto di vista è sempre quello dei sopravvissuti, che il più delle volte sono incarnati dalle donne. Ci dicono sempre che gli eventi importanti avvengono quando si prendono delle decisioni, oppure quando accade qualcosa in concreto. Ma a me interessa quello che succede dopo questi fatti. Il mio grande riferimento è la scrittrice Ágota Kristóf, quando scrive ne Il grande quaderno: “Tu che mi parli della guerra, siamo noi donne poi che medichiamo i feriti, ascoltiamo le loro necessità, gli diamo da mangiare, ricostruiamo le città”. Ed è esattamente questo che mi muove quando scrivo, soprattutto mentre scrivevo Cenere in bocca che, più che un libro sul suicidio, è un libro sul dolore. Perché in fondo il fatto stesso di migrare è un dolore, una sorta di lutto.
- Nel suo precedente libro, Case vuote, narrava temi delicati come la violenza sulle donne, il femminicidio, oltre alla maternità. Anche in questo romanzo ritorna il tema della violenza, anche se in forma più silenziosa.
La letteratura secondo lei deve essere questo, una forma di denuncia?
Il mio lavoro nella letteratura è raccontare un punto di vista ai margini, quello delle vittime, dei sopravvissuti. Però non sono d’accordo quando dicono che la letteratura che scrive una donna è una letteratura di denuncia, perché in questa maniera tendono a relegarla in un piccolo spazio, come se solo altre donne potessero leggerla. Io invece lotto perché le donne scrittrici non vengano relegate, perché si capisca che la loro è anche una proposta estetica, di linguaggio.
Allo stesso tempo mi emoziona tantissimo quando usano i miei libri per parlare di tematiche e problemi sociali, perché significa che ho fatto il mio lavoro.
Si ringrazia Gianluca Cataldo per la traduzione simultanea.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Intervista a Brenda Navarro, in libreria con “Cenere in bocca”
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