La sfida è il secondo romanzo di Carlo Patriarca, medico prestato alla letteratura con esiti eccellenti.
Ambientato fra Milano, Pavia e le Alpi, sul finire della Prima Guerra Mondiale, quando si sta diffondendo l’epidemia di spagnola, è frutto di un lungo e approfondito lavoro di documentazione. La vicenda fa rivivere il clima delle retrovie del conflitto, i casi di autolesionismo, la crisi degli ideali e, soprattutto, dà prova della capacità dell’autore di penetrare nella profondità dell’animo dei protagonisti, due medici e un’infermeria.
Lo abbiamo intervistato per conoscere meglio il suo lavoro.
I protagonisti del tuo romanzo sono due medici ed è impossibile non chiederti, vista la tua professione, quanto c’è di te in loro: entrambi, come te, hanno studiato a Pavia e se io dovessi accostarti, almeno fisicamente, a uno dei due, penserei a Steno, “Stelo”...
Steno è alla ricerca della propria vocazione, persa nel lavoro di medico militare, e Lucio è alla ricerca di un riscatto scientifico. Qualsiasi medico attraversa periodi e territori professionali che incrociano con gli stati d’animo dei due protagonisti. Ma mentre Steno somatizza le sue frustrazioni, Lucio inghiotte e digerisce tutto, i suoi atti più abominevoli come le sconfitte più brucianti; eppure mi piacerebbe che il lettore trovasse ragioni e torti in entrambi, come accade anche a me. Pavia poi mi ha aiutato a sentirli vicini. Coi suoi cortili e i suoi collegi, non solo è quasi un set cinematografico, ma è la cornice obbligata di qualsiasi storia universitaria lombarda che affondi le sue radici nei primi decenni del novecento.
La sfida è ambientato durante la Prima Guerra Mondiale: è nei momenti di “crisi” che emerge il vero carattere di un uomo, in generale, e di un medico, in particolare, oppure questo contesto era necessario per affrontare i tanti temi contenuti nel romanzo?
Dalle testimonianze di allora, si capisce bene come la guerra non abbia cancellato i formalismi, l’arrivismo, la codardia e la furbizia. La guerra e in particolare quella guerra immobile e claustrofobica, è un generatore inesauribile di psicopatologie. Non si può dire che abbia forgiato i caratteri; penso piuttosto che sia stato il terreno ideale per far emergere, assieme ad atti estremi di altruismo, anche i peggiori difetti. Del resto la tua domanda ha attanagliato anche i medici dell’epoca: la guerra irrobustisce, o al contrario fa impazzire o almeno emergere malattie mentali latenti? Oggi noi sappiamo che la guerra fa ammalare e che lo shock traumatico bellico, che colpisce anche alcuni personaggi del mio romanzo, è una patologia a tutti gli effetti. Ma all’epoca il conflitto fu per molti medici un’occasione inedita di studio sull’adattamento di massa a condizione di vita estreme.
Una parte del romanzo si svolge sulle Alpi: la montagna è un’altra tua grande passione?
Non tanto la montagna, quanto la gente che sa andare per davvero in montagna. Quello che mi colpisce della "Guerra Bianca", la guerra sulle cime, è il grado di antropizzazione in alta quota e anche la violenza esercitata su luoghi incontaminati. Solo l’industria dello sci degli anni sessanta e settanta è riuscita a spingersi oltre.
Anna è una donna molto intelligente ed emancipata; ci viene presentata in modo progressivo e indiretto, attraverso brevi cenni, le sue lettere o i ricordi di Steno.
All’inizio del romanzo si legge: “Lei stava per tornare dall’adunata del sabato...”. Questo mi ha fatto capire, a ritroso, che entrambi sono sopravvissuti, ma mi ha fatto anche sorgere un dubbio circa la sua adesione al fascismo e la curiosità di sapere che cosa è successo dopo la fine del romanzo. Ho dato troppa importanza a un dettaglio?
Non credo. Anna è una donna emancipata e secondo me ha continuato ad esserlo anche sotto il fascismo. Tuttavia è anche una infermiera caposala che ama l’ordine e la catena di comando degli ospedali; credo che abbia un debole per la disciplina. Bisognerebbe capire dove ha collocato il suo punto di rottura, ma questa è una storia che ancora non ho scritto.
A cent’anni dall’epidemia di spagnola, ci sono ancora molte ombre su alcuni aspetti e peculiarità della malattia: da esperto, come spieghi quella che hai chiamato “una rimozione quasi completa in tanti libri di storia”?
Ci sono vari motivi: il dibattito sulle cause nelle riviste scientifiche è stato molto serrato, ma poco è trapelato perché ai clinici e batteriologi dell’epoca costava troppo ammettere di brancolare nel buio. Inoltre la censura vigente sui giornali, che fu anche in certi periodi censura preventiva e che era sempre pronta a bollare come disfattista qualsiasi notizia negativa, impedì in parte che si desse risonanza all’entità della pandemia. Questo ha ridotto le fonti a disposizione, almeno fino a ottobre del ‘diciotto, quando con il picco delle morti divenne impossibile tacere. Inoltre mancano le grandi testimonianze degli scrittori, allora impegnati nel resoconto della carneficina del fronte. C’è infine da fare i conti con il passato disinteresse della storiografia per la medicina: è un peccato, perché le epidemie sono una straordinaria palestra di studio della diversità di reazione dell’uomo alle emergenze, proprio in relazione al mutare di fattori economici e sociali.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Intervista a Carlo Patriarca, autore de La sfida
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