La sfida
- Autore: Carlo Patriarca
- Genere: Romanzi e saggi storici
- Categoria: Narrativa Italiana
- Casa editrice: Rizzoli
- Anno di pubblicazione: 2018
Fra i numerosi rappresentanti del felice connubio fra medicina e letteratura, Carlo Patriarca, milanese d’adozione, anatomopatologo dai numerosi talenti, è al suo secondo romanzo.
Dopo Il campo di battaglia è il cuore degli uomini (Neri Pozza, 2013), ha infatti da poco pubblicato La sfida (Rizzoli), l’intensa storia di tre destini uniti fra loro, con due medici come protagonisti, ambientata nel periodo che precede la fine della Prima Guerra Mondiale, dove medicina e politica, etica e amore si intrecciano e si influenzano l’un l’altro.
Tra la seconda metà del 1800 e i primi anni del ‘900, oltre a personalità di successo come Camillo Golgi, Agostino Gemelli e Ludovico Necchi, hanno studiato e si sono laureati presso la facoltà di medicina di Pavia anche il dottor Steno Zorzi – personaggio complesso e tormentato, in preda ad una crisi di ideali. Un uomo alto, coi baffi e palpebre spioventi, un’aria mite, un accenno di pancetta e grandi mani – e Lucio Farradi – microbiologo dalla
mole pingue e glabra, enormi braccia bianche, come gambe adipose di una superfetazione.
“Stelo” è il nomignolo con cui Lucio ha battezzato il collega all’epoca del collegio: già sovrappeso, ostentava disprezzo rivoluzionario per il giovane Steno, magro socialista riformista.
Mentre il primo, durante la Grande Guerra, è stato al fronte come ufficiale medico, due volte sull’Isonzo, nel corso di due epidemie di tifo, ed ora, nell’ambulatorio esoneri di Milano, cerca di smascherare casi di simulatori e autolesionisti, il secondo è relegato ai margini della medicina e, con la sua attività clandestina basata sul passaparola tra soldati, sta conducendo una personale guerra di sabotaggio.
Collocato dal destino nel cono d’ombra di Steno, che rispedisce i fanti al fronte, il dottor Farradi ha allestito un piccolo laboratorio domestico con quanto serve a un microbiologo esperto per procurare qualche malanno ai soldati e dar loro una mano.
Rispetto ai tempi dell’università, tutto è cambiato. Steno aveva creduto che la malattia formasse due schieramenti netti: i malati da una parte, i sani dall’altra, e lui sulle barricate a combattere. Allora non pensava che qualcuno potesse procurarsi deliberatamente una patologia per salvarsi da un male maggiore, la guerra.
Così, i malati che si presentano al suo ambulatorio non sono più creature fragili in cerca di aiuto, ma corpi da avvicinare con sospetto e da visitare alla ricerca di un indizio con cui smascherare il malfattore:
"Lo Zorzi fa un lavoro delicato” ammette il direttore dell’ospedale. “Se guarisce e rimanda al fronte gli autolesionisti, invece di denunciarli, questi seminano il disfattismo nel loro reggimento. Ma se collabora con loro nel cronicizzare le patologie, oltre a commettere un crimine, mi riempie le corsie dell’ospedale. Lo raccomando sempre a tutti gli ufficiali medici: l’ospedale deve essere come una porta girevole del grand hotel, si fa per dire… Qui si smista e basta: fronte, manicomio, tribunale, camposanto. Letti sempre caldi e malati nuovi."
In preda a ripetuti attacchi di colite ed alla nausea che sempre lo afferra dopo una giornata di lavoro, Steno trova conforto nella relazione con Anna, esperta caposala, fervente nazionalista, con la quale intavola animate discussioni sul ruolo della medicina e sulla sua relazione con la politica:
Steno era rimasto anzitutto un medico, continuando a combattere la simulazione e l’autolesionismo credendo di farlo anche nel nome dei feriti in battaglia e perché combatteva contro le malattie ben prima della guerra. Ma era stanco di quello strano conflitto che aveva fatto di lui un ispettore e all’occorrenza un gendarme.
Fin dal luglio 1914 la società italiana si era infatti trovata di fronte a un dilemma – intervento o neutralità – che l’aveva profondamente divisa. Non si trattava soltanto della divisione di fondo fra interventisti e neutralisti, ma di tutta una serie di differenze all’interno di ognuno di questi schieramenti.
Il travaglio di posizioni ed interessi contrastanti si era risolto con il trionfo degli interventisti, ma l’Italia aveva subito la guerra disorientata e smarrita, incapace di comprendere quali fossero le forze realmente in gioco.
La polemica sulla partecipazione al conflitto che agitava la vita pubblica milanese e incrinava i rapporti tra i socialisti, dopo la disfatta di Caporetto, era salita di tono: l’esperienza del bagno di sangue non era rimasta senza conseguenze.
Sono molti i dubbi generati da un ripensamento generale sulla guerra reale, ben più lunga e del tutto diversa da come l’opinione pubblica se l’era immaginata:
«I medici possono fare del male per procurare del bene quando tagliano la pelle per estrarre un calcolo o un tumore, ma è lecito il contrario?»: così le aveva detto in preda allo scoraggiamento della ritirata. Si sentì un idiota. Certo che medichiamo le loro ferite per rimandarli a morire. Ricomponiamo i loro pezzi perché qualcuno li disperda di nuovo oltre la nostra linea del fuoco.
Ma lei stava ripartendo per le retrovie del fronte mentre lui restava al sicuro nei conforti della città. Avrebbe dovuto infonderle coraggio e non dubbi.
Poco prima della controffensiva sul Piave, si diffonde anche il contagio della spagnola.
Comparsa nella primavera del 1918 con una breve epidemia di carattere benigno, era poi scomparsa, per iniziare a mietere nuovamente le sue vittime da luglio in poi, raggiungendo l’apice ad ottobre.
Accanto ai letti dei feriti del fronte, ci sono dunque quelli dei malati infettati dal morbo sconosciuto. Steno può fare nuovamente il medico:
Ma la spagnola lo aveva spinto in una terra sconosciuta in cui non c’erano libri da aprire o colleghi più esperti a cui chiedere consiglio: per curare quell’epidemia nessuno sapeva da dove cominciare. Si ricordò di Lucio Farradi, forse lui avrebbe potuto fornirgli qualche risposta, ma chissà dov’era e che fine aveva fatto il vecchio compagno.
Il vecchio compagno non solo è molto vicino a Steno, ma è anche un passo avanti rispetto alle ricerche condotte a Pavia dal professor Trevi, lo stesso che tanti anni prima lo aveva cacciato, umiliandolo, dal suo prestigioso istituto.
Ma per verificare l’esattezza delle sue teorie non gli rimane altra scelta che esporsi in prima persona, lasciando in eredità, a Steno, una lettera e il difficile compito di dare spiegazioni ad Anna su episodi del passato dai contorni oscuri.
Oltre al dilemma interiore di chi, come il protagonista, ha la consapevolezza di una solitudine, di una sorta di incapacità ad aderire alla vita degli altri, destinati, per scelta o per obbligo, ad una prova storica, emergono nel romanzo di Carlo Patriarca i caratteri inediti della guerra: il logoramento della vita di trincea, i traumi degli assalti e dei bombardamenti, gli inevitabili cambiamenti nella vita psichica dei soldati.
Una delle più gravi emergenze per i comandi militari italiani fu senza dubbio rappresentata dal numero sempre crescente di disertori e ammutinati, di sobillatori e disfattisti di ogni genere, che popolavano l’esercito, e non solo.
Spinto dal rifiuto di una guerra diventata intollerabile, un soldato poteva cercare di allontanarsi dal fronte o tentare di non farvi ritorno: fra le varie forme di diserzione, l’autolesionismo non solo era considerato immorale, ma rasentava la malattia mentale.
Proprio per questo i medici, e gli alienisti in particolare – Agostino Gemelli studiò a lungo questo fenomeno e compare fra i personaggi del romanzo – furono coinvolti in una lotta senza quartiere contro indisciplinati, insubordinati, uomini in fuga nella follia, simulata e non. Nei padiglioni dei manicomi italiani vennero rinchiusi in osservazione tutti quei militari che accusavano sintomi di patologie nervose e psichiche, ma la principale preoccupazione degli specialisti era smascherare chi simulava quei disturbi per restituirli prima possibile ai loro superiori e alle trincee.
Un punto di vista originale, focalizzato su alcuni aspetti della guerra e una materia che l’autore conosce profondamente, non sono i soli pregi di questo romanzo, che mantiene un equilibrio perfetto fra realtà e finzione, grazie all’inserimento di personaggi storici realmente vissuti.
Oltre al già citato Agostino Gemelli, vengono menzionati Paolo Pini, Camillo Golgi, Muzio Mussi, Bava-Beccaris, Filippo Corridoni, Giuseppe Ungaretti e diversi altri.
Il risultato è uno spaccato a volte crudo – ma, proprio per questo, vero, credibile ed emotivamente coinvolgente – del mondo descritto.
Il realismo con cui è raccontata la vicenda di Steno, Lucio e Anna, non si manifesta solo nella descrizione dei luoghi e degli ambienti, nel tratteggio dei personaggi, della loro psicologia e dei moti interiori dell’animo oltre che nella fedeltà alle vicende storiche che fanno da sfondo al romanzo, ma si si avverte anche nelle scelte stilistiche ed espressive che caratterizzano la prosa e il modo di raccontare.
Il vocabolario è ricco di termini propri del lessico militare, colloquiale o dialettale: in questo modo Patriarca consolida nel lettore un senso di partecipazione emotiva e di umana solidarietà.
A ciò si aggiunge un registro in cui compaiono espressioni più alte, termini medici specifici o tipici di una certa retorica, quando vengono riferiti i pensieri e i dialoghi dei protagonisti e fra i personaggi più istruiti.
Luoghi e ambienti – da Milano alle Alpi, dall’ambulatorio medico alla campagna – pur essendo descritti in modo veritiero nell’esaltazione di colori, luci, paesaggi e atmosfere – sono in stretto rapporto con gli stati d’animo dei personaggi.
Da ultimo, anche se il lettore ne fa esperienza fin dalle prime pagine, il tempo narrativo misto: è estremamente significativa la scelta del narratore di passare dai tempi narrativi ai tempi commentativi, e di intervenire rivolgendosi direttamente ai personaggi in chiave moderna.
Una scelta che non solo è tipica di una rappresentazione non lineare dei fatti, così che chi legge percepisce la natura complessa e stratificata della trama, ma permette al tempo di dilatarsi:
È una considerazione censurabile, dottor Zorzi? Oggi c’è chi le ricorderebbe che un malato non è un caduto, e quando mai muore per una giusta causa? I caduti sono uomini che combattono per un ideale, mettono in conto la morte. Un paziente no, combatte per sé. Se lui muore, muore anche la causa, almeno un po’. Eppure la storia dei progressi della medicina è fatta anche di morti rivelatesi utili a capire che era il caso di cambiare strada e poi lei ha esercitato prima di un’altra guerra mondiale, chiusa da un famoso processo.
Con la diretta intromissione del narratore/autore nel testo per manifestare il suo pensiero, le sue opinioni e il suo punto di vista, da una posizione esterna alla trama, si viene a creare un rapporto comunicativo autore-lettore del tutto privilegiato, che rende La sfida una lettura ancora più stimolante.
La sfida
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