Finalista al Premio Neri Pozza 2013 con “Dentro c’è una strada per Parigi”, Novita Amadei vive in Francia. L’abbiamo intervistata quando, di passaggio in Italia, il 28 novembre ha presentato a Milano il suo nuovo romanzo in uscita in tutte le librerie: “Finché notte non sia più”.
- Di te sappiamo che sei nata a Parma, che vivi in Francia e che lavori da anni nell’ambito delle migrazioni e dell’integrazione psicosociale di richiedenti asilo e rifugiati, ma come sei arrivata alla scrittura?
Viaggio da tanto, anche per lavoro, e il viaggio è stato occasione di incontro e gli incontri sono stimolo di storie. Scrivo racconti da anni, credo dal periodo del liceo, anche perché la narrativa breve si adattava bene a una vita fatta frammentata, fatta di partenze e di ritorni. Poi, però, ho sentito l’esigenza di misurarmi con una scrittura più lunga, ed è nato Dentro c’è una strada per Parigi. Una volta concluso il romanzo, mi incuriosiva avere un commento, uno sguardo professionale, tecnico, di qualcuno che lavora nel settore. Per questo, cercando fra le varie case editrici, sono incappata nella Neri Pozza, che aveva appena pubblicato il suo primo bando di concorso del Premio Letterario Nazionale, e ho partecipato. Tutto poi è stato una sorpresa: fra più di ottocento manoscritti, sono entrata nella dozzina scelta, poi nella cinquina e infine la decisione della casa editrice di pubblicare tutti e cinque i romanzi, finalisti, non solo il vincitore…
- “Finché notte non sia più” è il tuo secondo romanzo, dopo “Dentro c’è una strada per Parigi”. Mi sembra di cogliere temi ricorrenti – oltre all’amore –, come gli anziani, la malattia, la perdita...
Sì, ci sono temi a me cari e, fra questi, gli anziani: mi commuovono perché evocano mondi remoti e perché il tempo, anziché renderli forti come rocce, in realtà li fragilizza. Gli anziani sono figure che si prestano bene alla narrazione, alla letteratura: sono persone che se cadono “si rompono” ed è dai cocci rimasti a terra che nasce il nostro tempo, che nasciamo noi stessi.
Sono cresciuta con i miei nonni, ho avuto il privilegio di averli fino adesso e quindi sono molto legata alla figura dell’anziano che, effettivamente, ritorna nei miei due romanzi. In questo, in particolare, volevo che fosse un anziano affetto da morbo di Parkinson, e quindi che cadesse. Attorno a quest’uomo, Delio, che subisce, anche fisicamente, più degli altri, gli anni e il tempo, si aggregano tutti i personaggi.
- A proposito di personaggi, dove li “trovi”?
I personaggi principali sono persone realmente esistenti. Delio è il padre di una mia amica, che in realtà io non ho mai conosciuto di persona, ma solo tramite i racconti della figlia. Gli altri, invece, in parte si sono piegati ai bisogni narrativi, e in parte raccolgono da persone che ho conosciuto realmente o da vicende autobiografiche. La storia del matrimonio fra Hamza e Klara, evocato da Amir, è un episodio cui ho assistito da vicino durante la mia permanenza a Parigi, dove ho vissuto diversi anni. Mi è stata regalata da un immigrato marocchino e io l’ho recuperata in questo romanzo. Realtà e finzione si toccano fino a confondersi, ma il nucleo forte dei personaggi sono persone reali, con caratteristiche che mi rimangono in testa e che ho il bisogno di mettere su carta.
- Ciò che ho particolarmente apprezzato, nel tuo romanzo, è il fatto che forma e contenuto, trama e linguaggio sono in perfetto equilibrio: come si raggiunge questo risultato?
Io sono guidata dai personaggi: una volta creati, sono loro che portano avanti la trama della storia. Mi sento spesso loro prestanome, nel senso che ci sono personaggi – come il cane Ramingo – che in realtà sono stati “tirati dentro” da altri. Un personaggio è portatore anche di un linguaggio, e a me piace, in generale, lavorare sul linguaggio; mi piace crogiolarmi a cercare le parole giuste, a interrogare la punteggiatura… Credo sia una forma di rispetto per la lingua e per il lettore e, oltretutto, curare la lingua, lo stile narrativo, mi dà molta gratificazione.
- Il titolo e la citazione iniziale sono tratti da una poesia di Emily Dickinson: che cosa rappresentano per te?
Ti rispondo sinceramente: avevo pensato a un altro titolo per il romanzo, che tra l’altro è contenuto nel libro stesso: il titolo era “Il buio è solo un colore”. È stato il Direttore della Neri Pozza a suggerirmi invece “Finché notte non sia più”, perché lo sentiva più letterario e, in realtà, richiamava quello che avevo pensato io. Effettivamente descrive, in un verso, tutto il finale del libro, dove confluiscono e si risolvono, in una notte, i destini di tutti i personaggi. È una notte che si compie attimo dopo attimo, dettaglio dopo dettaglio, come granelli su una spiaggia troppo impercettibili da notare. È un titolo azzeccato.
- Lo stato di “immigrato” o di “migrante” – che anche tu vivi, essendoti trasferita in Francia – è molto legato all’apprendimento ed all’uso di nuova lingua, diversa dalla lingua madre. Daniele la definisce “la forma di esclusione più efficace”, Liliana afferma che quando parla francese è come se indossasse abiti non suoi e che non sa portare...
Il tema della lingua è un tema che mi abita al quotidiano, vivendo all’estero.
La lingua veicola sentimenti e per chi vive fuori dalla propria nazione la lingua madre rappresenta la casa, penso sia una sorta di seconda pelle, perché ci richiama a quello che siamo nella nostra identità più profonda, più primitiva. Quindi la nostra identità è, in buona parte, identità linguistica. Quando ci si confronta con lingue straniere, ci si può anche non capire, ci si può sentire inadeguati e quindi, di fatto, il tema della lingua, che ritorna spessissimo nel romanzo, richiama il tema della migrazione e dello spaesamento, che è proprio di molti personaggi, quasi di tutti.
- Questo ci porta ad un altro tema molto importante nel tuo romanzo: l’amicizia. Quella fra Daniele e Amir, due persone dalle origini diverse, alla fine, sembra entrare in crisi: non è possibile questo legame, quando entrano in gioco profonde differenze culturali?
Come dicevo, quella dei matrimoni fatti con l’inganno, per ottenere il permesso di soggiorno, è una storia vera, di cui sono stata testimone: l’ho utilizzata perché mi sembrava emblematica delle difficoltà che un immigrato incontra in Occidente. Difficoltà che però non impediscono il dialogo culturale, tant’è che Daniele e Amir sono amici, anche se rimane uno zoccolo duro per cui la cultura dell’altro non si può mai abbracciare o capire fino in fondo,.
Quello dell’amicizia, in questo caso, è un tema che si intreccia a quello dell’emigrazione, cui tengo molto, personalmente e professionalmente. Nel romanzo volevo dare voce al fatto che le radici non si possono cancellare: Amir è risucchiato dalla propria famiglia e dalla propria terra. L’identità, per quanto lontano si vada e per quanto a lungo si rimanga, non potrà mai prescindere dal paese dal quale veniamo, anche dai cibi che ci hanno cresciuti.
Il romanzo finisce con un loro litigio, con un loro allontanamento, ma Daniele sa che in realtà Amir ce l’ha lui ma con le tradizioni culturali che lo hanno risucchiato: credeva di poter cambiare abitudini, di cambiare testa, di cambiare il corso delle cose, ma deve sottostare alle imposizione della sua cultura e della sua famiglia.
- Cosa puoi aggiungere su un personaggio al quale hai dedicato brevi capitoli, il professor Marthelot?
Questo personaggio appartiene alla comunità nella quale Caterina si trova a vivere, una comunità fatta di persone sole, ma la cui solitudine, in realtà è una solitudine buona, che crea relazioni, che crea legami. Quella del professore, invece, è la solitudine forse la più dura, la più triste, perché la sua persona rimane ancorata a questo sentimento. Il suo personaggio, a un certo punto, sembra evolvere, ma poi rimane chiuso su se stesso. Letteratura non gli consente di superare questo stato, e l’alcol nemmeno. Sembrava consentirglielo Caterina, tanto che rimane piuttosto ambiguo l’innamoramento che sembra provare nei suoi confronti, ma alla fine preferisce lasciarla andare senza tante parole, e rimanere nella stanza piena di libri, ma vuota, come vuote sono le sue prospettive.
Anche con il professore si creano riflessioni sulla lingua, sulla letteratura e, di nuovo, sull’amore – che poi è il tema che attraversa in filigrana tutto il romanzo. Il professore ricorda a Caterina una frase di Proust che dice che “amare è una malasorte contro cui, come nelle favole, nulla si può si può finché l’incantesimo non sia cessato”.
Le fa dunque da mentore, le insegna che non può nulla contro l’amore: non può direzionarlo, chiamarlo a sé o respingerlo. Le suggerisce di abbandonarsi all’amore, quando lo troverà, ed è quello che Caterina farà. Nella scena finale, quando conoscerà effettivamente l’amore, le torneranno in mente le parole del professore.
- In uno dei suoi incontri con Caterina, il professore fa riferimento alla morte del romanzo: condividi questa visione?
No, non credo che il romanzo sia morto, ma credo sia minacciato da esplosioni di generi e da occasioni da tante occasioni di non-lettura. Auguro che riesca, come una falda sotterranea, a mantenere la sua forza e la sua purezza, ma è sempre più difficile trovare lettori appassionati alla lettura ed alla buona lettura. È una minaccia che, secondo me, lettori e scrittori sentono e che il professore ha voluto evocare.
- Le madri del tuo romanzo sono spesso inadeguate, soprattutto, come veniamo a scoprire, Teresa, la madre di Daniele.
Trovo che le famiglie si costruiscano in buona parte anche attorno ai conflitti, ai non-detti. In questo romanzo faccio esplodere le famiglie nucleari tradizionali. Sia Caterina, sia Daniele, si allontanano dalle loro famiglie e l’allontanamento è anche geografico: una si sposta da Roma al sud della Francia, l’altro nella periferia parigina. In realtà, poi si riavvicinano, trovano occasioni di dialogo e di comprensione, ma la distanza è necessaria per dare più lucidità al proprio vissuto, al proprio passato, alle origini. La distanza è necessaria anche per riconoscere che ci sono forme diverse di famiglia, di “familiari diversi”. Caterina dice a un certo punto che ci sono persone che attraversano la tua vita per brevi istanti, ma che hanno più peso di persone che la abitano da sempre. E Delio per lei è quello: è casa. Si ricostruiscono, si reinventano le relazioni familiari su persone che familiari non sono, ma che poi invitano a riflettere sulle proprie origini. Quanto a Teresa, mi piaceva indagare il fatto che la maternità non è sempre scontata e non da tutte le donne viene vissuta con felicità e naturalezza. La maternità ha preso in contropiede Teresa, che ha avuto l’ostilità di rifiutarla. Credo che intorno alla maternità ci siano tantissimi tabù e mi piaceva che un personaggio fosse portatore di uno di questi. Io sono madre di tre figli e non mi riconosco nella figura di Teresa, però, senza giudicarla, volevo dare voce a chi ha il coraggio di dire che la maternità è difficile, alle madri che non rappresentano la classica figura che esiste nell’immaginario collettivo.
- C’è una sorta di colonna sonora nel romanzo: che rapporto hai con la musica?
Io ho suonato flauto barocco per quasi una decina d’anni, da bambina, poi mi sono allontanata dalla musica classica e dalla musica in generale, ma la musica non mi ha lasciata. Pur non seguendo la musica dalla mattina alla sera e non avendo una particolare preferenza, il sottofondo musicale mi rimane nella testa. Trovo che questa sia una componente letteraria affascinante: evocare la musica con le parole significa quasi dar più valore alle parole stesse. Conosco poco di musica, ma mi affascina scriverne e vederla “letta”, immaginarla in una narrazione.
- Nella contrapposizione fra città e campagna, è la campagna ad avere la meglio?
L’ambientazione del romanzo è autobiografica: sono nata a Parma, ho vissuto per una decina d’anni a Parigi e ora vivo nella campagna francese. In realtà sono una nostalgica delle grandi città, però al tempo stesso, sono affascinata dai ritmi della terra, da piante, animali…; trovo che le vicende della flora e della fauna siano di straordinaria ricchezza, pieni di insegnamenti per noi uomini.
Nel romanzo, inoltre, la campagna, come grande spazio di terra e di cielo che favorisce l’introspezione, consente a dei personaggi di abitare il vuoto: sia Daniele, sia Caterina, si spostano dalle grandi città e si ritrovano in uno spazio libero.
Ed è qui che riescono a vedere con maggiore lucidità i propri percorsi, a riconciliarsi con i padri, quindi con l’infanzia e con l’adolescenza. E a ritrovare la propria strada nel mondo.
© Riproduzione riservata SoloLibri.net
Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Intervista a Novita Amadei, scrittrice di ricordi e di ritorni
Naviga per parole chiave
Approfondimenti su libri... e non solo Ti presento i miei... libri News Libri Neri Pozza Novita Amadei
Lascia il tuo commento