Paolo Zardi, nato a Padova nel 1970, di professione ingegnere e, per passione, scrittore, è da poco tempo in libreria con XXI secolo (Neo), romanzo particolare, ambientato in un futuro non così lontano. Il libro sta avendo grande successo e si è già meritato la candidatura al Premio Strega 2015 con la presentazione di Giancarlo De Cataldo e Valeria Parrella. Questo è solo l’ultimo dei suoi scritti: l’autore ha esordito nel 2008 con una narrazione facente parte dell’antologia “Giovani cosmetici” (Sartorio), cui han fatto seguito le raccolte di racconti “Antropometria” (2010, Neo) e “Il giorno che diventammo umani” (2013, Neo), il romanzo “La felicità esiste” (2012, Alet) e “Il Signor Bovary” (2014, Intermezzi).
L’autore ha acconsentito a presentare il suo ultimo libro. Ecco l’occasione per conoscerlo meglio.
- XXI secolo, libro dai tratti distopici e cupi, è uno sguardo su un futuro non così lontano e con tanti aspetti d’una Europa in decadenza. Perché la scelta di affrontare un simile argomento, di descrivere una realtà, purtroppo, non impossibile?
I motivi principali che stanno dietro alle scelte che governano la scrittura di un romanzo sono soprattutto di carattere estetico: il paesaggio distopico nel quale si muove il protagonista, e la sua inquietante somiglianza con il presente, mi hanno consentito di riverberare la storia del protagonista su una scala un po’ più ampia, di darle maggiore spessore o di contraddirla. Dietro, evidentemente, ci sono considerazioni di natura più generale, ma più che l’esposizione di una “teoria del mondo futuro”, che per inciso non ho, mi interessava parlare degli effetti che la decadenza dell’Occidente produce su un uomo che non lo riconosce più.
- Nel libro ci sono spesso riferimenti al secolo precedente. Si legge "Il futuro roseo, sbandierato nella seconda metà del Novecento, si era manifestato con le sembianze di un tragico aborto. Del passato nessuno parlava. Faceva male. Restava solo quel presente grigio e maleodorante..." Ci sono rimpianto e amarezza in questo brano. Anche lei la pensa così?
Del passato, del ventesimo secolo, si rimpiange soprattutto il futuro che allora ci si immaginava – la sua fantascienza ottimista, i sogni di eguaglianza sociale, la sensazione che la felicità, perfetta e definitiva, fosse a portata di mano: insomma, che sarebbe bastato impegnarsi ancora un po’ per arrivare a costruire un paradiso terrestre sulla terra. Non so dire se alla base di quell’ottimismo ci fossero buoni motivi o, piuttosto, una sorta di ebetudine su scala mondiale: di sicuro, si era convinti che domani sarebbe stato meglio di oggi. Il personaggio del libro rimpiange soprattutto questo: non la ricchezza del ventesimo secolo, ma la sua prospettiva di crescita. E’ un problema con il quale ci troviamo anche noi – noi che viviamo una vita fuori da questo romanzo – a dover combattere ogni giorno.
- Il protagonista della vicenda, un padre di famiglia affettuoso e innamorato, si trova all’improvviso davanti a un destino oltremodo difficile quando si deve occupare dei figli quando la moglie Eleonore, colta da ictus, cade in coma. Chi è quest’uomo, definito solo con un "Lui" ma il cui nome s’intuisce nel finale o, almeno, si capisce sia costituito da tre sillabe pronunciate dalla moglie che forse si risveglia?
Lui è un uomo del novecento: crede nel futuro, nella possibilità di migliorare la propria posizione sociale con la sola forza del proprio lavoro, nel dovere di un uomo di garantire il benessere alla propria famiglia. Ha valori in linea con quelli della borghesia del ventesimo secolo: una villetta, una bella moglie, due figli, un buon lavoro. Ma il mondo è cambiato. La crisi economica, che qui viene immaginata come definitiva e irreversibile, ha scoperchiato il vuoto che c’era sotto le vite della gente; e il dramma personale, scatenato dall’ictus di Eleonore e dalle sue inaspettate conseguenze, costringe “lui” a rivedere la propria esistenza, a definire, forse per la prima volta, la propria identità.
- Chi è Eleonore per il protagonista? La moglie o molto, molto di più?
Eleonore garantisce al protagonista la possibilità di essere quello che aveva sempre desiderato: un uomo dedicato a rendere felice la propria famiglia. E’ un simbolo, una rappresentazione, una sorta di feticcio: la Moglie, la Madre dei Propri Figli. I segreti di Eleonore, che lui scopre per caso mentre lei è in coma, lo costringono a prendere coscienza del fatto che sua moglie aveva una vita al di fuori della famiglia, una vita che riguardava solo lei e dal quale lui era escluso. Scopre che esisteva davvero. Ed è questo il motore di tutto il romanzo, da qui nascono le domande implicite che il romanzo pone al lettore: come si può sopravvivere a questa scoperta che stravolge il proprio passato? Come deve cambiar il personaggio principale per sopravvivere a questo capovolgimento di prospettiva? Cosa conosciamo delle persone con le quali viviamo?
- Quale valore ha la presenza dei figli Miriam e Marco nella storia?
Nella storia i figli hanno una funzione fondamentale: il protagonista, investito da una tragedia insopportabile, è costretto a non mollare per garantire un futuro a Miriam e Marco.
In una società “liquida” finalizzata al consumo – materiale e umano – di tutto, i figli rappresentano un’eccezione, perché costringono a prendere in considerazione il futuro, a progettarlo. Il motto del ventunesimo secolo potrebbe essere quello scelto da una compagnia telefonica qualche anno fa: life is now, la vita è adesso. L’invito, incessante, che ci viene rivolto è di non pensare a domani; al valore del risparmio, tipico del novecento, si è sostituito quello dell’acquisto con la carta di credito, cioè con soldi che ancora non possediamo. I figli, invece, prevedono un progetto di lungo periodo, i cui frutti saranno goduti da altre persone. Sono la nemesi dell’Occidente, la sua negazione, un residuo di un mondo completamente diverso.
- Sembra che al decadimento generale s’unisca quello dei sentimenti. Ci si tradisce, ci s’innamora di qualcun altro anche in questa vicenda. Ma sopravvive, comunque, da tanti secoli, il sentimento di gelosia verso l’essere amato...
I sentimenti che muovono le persone sono sempre gli stessi: possiamo non capire la dinamica delle battaglie che si combattevano davanti a Troia ma intuiamo che i personaggi dell’Iliade hanno un cuore molto simile al nostro. La gelosia è un sentimento primitivo, intimamente connesso con le esigenze dei nostri geni: non ha nulla di razionale, come ha scoperto sulla propria pelle il povero Otello shakesperiano. Il personaggio principale di questo libro combatte contro questa forza che lo tormenta e l’esito di questa battaglia è incerto fino alle ultime pagine del libro.
- Il finale pare quasi apocalittico: blackout generale, tutto va a fuoco. Eppure, in quella realtà, l’amore per la famiglia tutto supera e, se posso dir la mia, nel perdono e nel desiderio di prendersi cura di chi si ama c’è il riscatto del XXI secolo. E’ un po’ un ritorno al passato, alle origini. Che pensa Paolo Zardi?
Il perdono è uno dei fondamenti sui quali poggia il nostro sistema di valori, ma credo che in “XXI secolo” non si parli di questo: il perdono presuppone una colpa, e una sorta di gerarchia tra chi pecca e chi, invece, è nel giusto. Il proverbio popolare che afferma che la miglior vendetta è il perdono coglie una verità sottile. Mi piace invece di parlare di “accettazione”. Accogliere gli altri, accettarne le differenze. Includere. E’ un tema che diventerà sempre più centrale, nei prossimi anni, su scala molto più ampia.
- Lei non è nuovo alla scrittura. Ha già pubblicato libri e serie di racconti. A quale dei due formati si sente più legato?
Non ho una preferenza per il romanzo o per il racconto, lungo o breve che sia: ci sono storie che richiedono molto tempo per essere raccontate, e altre, invece, che hanno bisogno di rapidità per raggiungere il loro scopo. Quando emerge un’idea, inizia una lunga fase di elaborazione per capire come può essere realizzata e una delle discriminanti consiste nel valutare se nel personaggio esiste un’evoluzione o se, piuttosto, viva una sorta di illuminazione improvvisa. Nel primo caso, sento che il romanzo, con la sua struttura ampia che contempla la complessità di una trasformazione, sia la soluzione giusta; il racconto, invece, riesce a cogliere uno strappo inaspettato – è la rappresentazione dello sgambetto che la vita, qualche volta, fa agli esseri umani.
Dal punto di vista del piacere legato alla scrittura, il racconto consente di osare di più, soprattutto per quanto riguarda le scelte stilistiche. Per fare un esempio, anni fa avevo scritto un racconto con un solo punto fermo alla fine, una soluzione che, evidentemente, sarebbe insostenibile in una storia lunga cento pagine. Mentre si scrive un romanzo si ha l’impressione di scivolare lungo le pareti di un imbuto: mano a mano che si procede, le scelte sono sempre più vincolate. Di solito, quando si arriva a mettere la parola “fine”, si tira un sospiro di sollievo.
- Il passaggio da ingegnere a scrittore non è un salto da poco. Come coniuga le proprie attività e i propri interessi?
Come la maggior parte degli scrittori, presenti e passati, non vivo di scrittura – non potrei permettermelo – ma al di là del motivo contingente per il quale continuo a esercitare la professione di ingegnere, ho la sensazione che la mia vita sarebbe monca senza la coesistenza di questi due mondi paralleli, quello del lavoro, con il suo pragmatismo, i problemi pratici, le soluzioni scientifiche, e quello della scrittura, governato dall’arte, dall’ispirazione, dall’esplorazione incessante dei meccanismi che stanno dentro il cuore e il cervello degli esseri umani. Oltre a questo, devo ammettere che il rigore dell’informatica, per la quale nutro una passione che ha già superato i trent’anni (ero uno di quei ragazzini un po’ brufolosi che smanettavano su un computer con 48K di memoria, nei primi anni ottanta), spesso lo sento affiorare in quello che scrivo, nel modo particolare con il quale cerco di rappresentare il mondo che mi circonda.
- Tornando a XXI secolo, cosa prova ad essere fra i dodici finalisti del Premio Strega? E’ scaramantico o accetta gli auguri, peraltro meritati?
Al di là della felicità che naturalmente provo per questo risultato bello e inaspettato – bello soprattutto perché inaspettato – inizio ad avvertire una sensazione molto particolare nei confronti del mio libro: non lo sento più mio. Qualche giorno fa un’amica mi ha girato una foto che ha scattato in un autobus di Roma: c’era una ragazza sconosciuta che stava leggendo “XXI secolo”. Mi ha fatto un enorme piacere – non si scrive per questo? per essere letti dagli sconosciuti? - ma ho sentito come se il mio romanzo fosse salpato su una nave nella quale l’autore non può trovare più posto.
Ma al di là di questo effetto collaterale, l’avventura dello Strega si sta rivelando molto piacevole: l’attenzione che questo libro sta ricevendo è sorprendente; e trovarsi a competere – una competizione in senso lato – con autori dei quali ho letto tutto, e con grosse case editrici, produce quell’euforia che tutti gli outsider conoscono bene.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Intervista a Paolo Zardi, candidato al Premio Strega 2015 con XXI secolo
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