

Il 7 Marzo del 1782 nasceva nel bergamasco Angelo Mai, cardinale, teologo e filologo classico, figura di spicco del panorama intellettuale italiano a cavallo fra XVIII e XIX secolo.
A livello popolare, l’erudito è conosciuto principalmente per aver ispirato a Giacomo Leopardi "Ad Angelo Mai", la canzone con la quale il poeta recanatese ne lodò l’impegno culturale e umanistico che lo aveva appena condotto a ritrovare, presso la Biblioteca Vaticana, alcuni frammenti del De re publica di Cicerone.
La circostanza, che suscitò vasta eco e profonda ammirazione fra gli intellettuali dell’epoca, fornì al recanatese l’ispirazione per comporre l’opera che numerosi critici considerano la summa delle sue idee politiche e civili in quel periodo.
Vediamo chi era Angelo Mai e analizziamo la poesia che il giovane Leopardi scrisse per lui nel Gennaio del 1820.
Chi era Angelo Mai
Cardinale, filologo classico e fine teologo, Angelo Mai è stato uno degli intellettuali più significativi del contesto culturale italiano ed europeo nel periodo di passaggio dal XVIII al XIX secolo.
Il futuro ecclesiastico nacque a Schilpario, il provincia di Bergamo, il 7 Marzo 1782, figlio del carbonaio Angelo e di Pietra di Batistei.
Nonostante il rango modesto, la famiglia, piuttosto numerosa, era abbastanza agiata dal punto di vista economico.
Rimasto orfano di padre in tenera età, crebbe con uno zio che gli permise di intraprendere un regolare corso di studi, per i quali il giovane allievo si mostrò fin da subito assai portato.
Divenuto gesuita, Angelo viaggiò e soggiornò in varie città della Penisola finché, nel 1819, si trasferì a Roma, dove in un primo tempo fu nominato prefetto della prestigiosa Biblioteca Vaticana e in seguito cardinale per nomina di Papa Gregorio XVI.
Oltre che come eminente uomo di Chiesa, Mai viene ricordato per le importantissime scoperte in ambito filologico, non casuali e fortunose, bensì scaturite da una metodica sapiente ed efficace, frutto di approfondite ricerche, impegno costante e vivida intelligenza.
Oltre al rinvenimento di alcune parti del De re publica ciceroniano, si devono a Mai anche quelle dell’ epistolario dello scrittore latino Marco Cornelio Frontone, l’orazione di Iseo Per l’eredità di Cleonimo (Περὶ τοῦ Κλεωνύμου κλήρου) e i Vaticana Fragmenta.
Da citare, inoltre, i suoi fondamentali studi sugli Apocrifi dell’Antico Testamento.
Il Cardinale morì improvvisamente a Castelgandolfo l’8 Settembre del 1854 dopo aver disposto che i suoi beni venissero distribuiti ai poveri del borgo natio e ai collaboratori.
La biblioteca, ricca di preziosi volumi, come da richiesta venne acquistata dal Papa alla metà del prezzo originario.
Angelo Mai è sepolto a Roma nella basilica di Santa Anastasia al Palatino nella monumentale tomba realizzata dallo scultore neoclassico Giovanni Maria Benzoni.
L’epitaffio apposto sul sarcofago venne dettato dal cardinale stesso.
L’amicizia tra Angelo Mai e Giacomo Leopardi
A partire dal 1816 iniziò l’amicizia epistolare che per anni legò Mai al giovanissimo e precoce Giacomo Leopardi.
Non stupisce che il religioso si mostrasse sinceramente impressionato dal talento letterario e dall’erudizione del promettente recanatese.
Subito dopo la scoperta dei frammenti del De re publica, il ventenne poeta gli dedicò la celebre canzone Ad Angelo Mai, dove il colto ecclesiastico assurge a simbolo dell’Italia che attraverso la cultura e la passione per lo studio e la ricerca oppone resistenza all’imperante decadenza del presente.
Mai e Leopardi si conobbero di persona a Roma nell’inverno del 1822-23, ma stando a quanto scritto dall’artista in una lettera inviata al padre Monaldo, l’incontro si rivelò per lui un po’ deludente.
Ciò perché Mai gli dette l’impressione di essere un po’ troppo "politico": "è gentilissimo con tutti, compiacentissimo in parole, politico in fatti; mostra di voler soddisfare a ciascuno, e fa in ultimo il suo comodo" annotò.
Ad Angelo Mai: testo e parafrasi della canzone
AD ANGELO MAI
QUAND’EBBE TROVATO I LIBRI DI CICERONE
«DELLA REPUBBLICA»
Testo | Parafrasi |
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O coraggioso italiano, per quale motivo non smetti mai di ridestare dalle tombe i nostri antichi padri romani, e li porti a parlare a questo secolo, morto, spiritualmente per l’incapacità, su cui grava tanta nebbia di noia? E come adesso, o antica voce dei padri, in silenzio per così lungo tempo, arrivi così forte ai nostri orecchi e così spesso? E perché tanti rìsorgimenti, cioè tanti ritorni a nuova vita delle opere dell’antichità, attraverso le molte scoperte del Mai? Ad un tratto gli antichi codici (conservati nelle biblioteche) divennero fecondi di voci uscite dai palinsesti; le biblioteche dei monasteri, polverosi in quanto dimenticati da secoli, conservarono le nobili e sante parole degli antenati a vantaggio dell’epoca attuale. E quale grandezza fuori dall’ordinario, o illustre italiano, ti concede il fato? O forse il destino, che vorrebbe perpetuare lo stato di viltà degli Italiani, non riesce ad impedire che nascano grandi uomini? Certo non avviene senza un misterioso ma favorevole volere degli dei, proprio quando la nostra irrimediabile trascuratezza è più inerte e grave, sempre una nuova voce dei nostri padri giunge a scuoterci, a svegliarci dal nostro torpore. Il cielo dunque, cioè Dio, è ancora pietoso verso l’Ita1ia; ancora si preoccupa di noi qualche divinità: poiché, essendo questo il momento, e mai se ne ripresenterà un altro simile, di ripristinare l’antico valore degli Italiani, tuttora inerte come una spada arrugginita, vediamo che la voce dei morti si alza grande e nobile, e che la natura fa quasi uscire gli eroi antichi per capire se in questa epoca in avanzato stato di decadenza ti piace, o patria, restare ancora attaccata alla tua viltà. O gloriosi eroi del passato, avete dunque per noi una qualche speranza di resurrezione? Non siamo spiritualmente morti del tutto? Forse a voi non è impossibile conoscere il futuro. lo sono moralmente distrutto dal dolore né ho alcuna difesa da esso, perché per me l’avvenire è buio, e tutto quello che vedo è tale da far sembrare la speranza sogno e favola (impossibile da realizzare). O anime di eroi, nella vostra terra (l’Italia) ha preso posto una plebe priva di onore, perciò spregevole e turpe; per i vostri discendenti ogni valore di azione nel campo civile, e di poesia nel campo della letteratura, è oggetto di scherno; delle vostre eterne glorie non hanno più né vergogna né invidia; una vita oziosa ed indifferente va avanti intorno ai vostri monumenti; e siamo diventati un esempio di viltà per le generazioni future. O nobile ingegno, dato che oggi agli altri non importa nulla dei nostri gloriosi antenati, siano essi a te a cuore, a te a cui il fato spira o soffia favorevolmente, così che, per merito tuo, sembrano ancora qui, cioè rivivono il Rinascimento, quando dal triste e lungo oblio del Medioevo risorgevano insieme con gli studi, prima abbandonati, gli antichi magnifici scrittori, ai quali la natura, pur senza rivelare i suoi segreti, si rivolse direttamente, ispirando fervide e generose illusioni, così che con le loro poesie allietarono gli ozi, i giusti riposi (quelli che si fanno dopo aver lavorato) dei cittadini di Atene (dei Greci) e di Roma. Erano ancora calde le tue sacre ceneri (o Dante), perseguitato ma mai domato dal destino, al cui sdegno e dolore fu più amico l’inferno che la terra, perché ti rifugiasti col pensiero nell’inferno per vedere dentro di esso puniti i malvagi della terra. E quale luogo -perfino l’Inferno! -non è migliore della terra? E le dolci corde della tua lira vibravano ancora al tocco della tua mano, o Petrarca, sfortunato amante. Ahimè, la poesia italiana nasce dal dolore. E tuttavia la sventura che ci addolora, è meno oppressiva e straziante del tedio, della noia che scaturisce dall’inerzia, dal vuoto dell’anima. Oh te beato, o Petrarca, a cui il pianto fu ragione di vita! Noi, fin dalla nascita, sin da quando eravamo in fasce siamo avvolti dalla noia; sia quando nasciamo, sia quando moriamo, accanto a noi siede inamovibile il Nulla. La tua vita, o coraggioso figlio della Liguria (Cristoforo Colombo, genovese di nascita) era in compagnia delle stelle e del mare, allorquando, oltre alle colonne d’Ercole (lo Stretto di Gibilterra) e ai lidi occidentali, ai cui abitanti sembrò, verso sera, sentir stridere le onde all’immergersi del sole affidato agli infiniti flutti dell’oceano (il tramonto), tu ritrovasti, a occidente, il raggio del sole tramontato, e il giorno che sorge, allorquando ai nostri lidi esso è giunto alla fine, cioè a sera; e, superato ogni pericolo della natura, un enorme continente sconosciuto fu motivo di gloria per il tuo viaggio e per i rischi del ritorno. Ma, ahimè, il mondo conosciuto dopo le nuove scoperte, non diventa più grande, anzi diventa più piccolo, perché l’ideale raggiunto è delude sempre; perciò l’aria vibrante di suoni e la terra che ci nutre e il mare appaiono assai più vasti al bambino, che ne conosce le dimensioni, che non al saggio che invece ne è consapevole. Dove sono andate, che fine hanno fatto le nostre belle fantasie intorno ai luoghi sconosciuti di sconosciute popolazioni e intorno alla dimora degli astri durante il giorno, e intorno al letto lontano, in fondo al mare, in cui di notte la giovane Aurora dormiva col vecchio marito Titone, e intorno al sonno nascosto del sole? Ecco, dopo l’impresa di Colombo, a un tratto esse scomparvero e il mondo è disegnato in una piccola carta geografica; ecco, è tutto uguale, e con l’accrescersi delle conoscenze, (l’uomo si rende conto che) aumenta solo il nulla, perché la realtà è così povera e meschina che, rispetto all’ideale, a quello cioè che siamo capaci di immaginare, è nulla. O caro immaginare, conforto quotidiano al nostro male di vivere, appena è giunto, il vero ti vieta a noi (il sopraggiungere del vero uccide l’immaginazione), ti impedisce cioè di avere il suo effetto positivo su di noi; da te si allontana per sempre la nostra mente; al tuo meraviglioso potere sopra di noi ci strappano gli anni (il sopraggiungere dell’età adulta), cioè le esperienze della vita e le conoscenze fornite dal progresso della scienza; e con la tua scomparsa si perde il conforto, che ci veniva da te, alle nostre pene. O Torquato (Tasso), allora, nel pieno Rinascimento sfolgorante di leggiadre fantasie, il destino, con la tua nascita (nel 1544), preparava, a noi, il tuo alto ingegno, a te, soltanto il pianto, una vita di dolore. Oh infelice Torquato! la dolce poesia non fu sufficiente a consolarti o a sciogliere il gelo, col quale l’invidia dei privati e dei principi Estensi ti avevano oppresso l’animo appassionato. Anche l’amore (per Eleonora d’Este), che è l’ultima illusione della nostra vita, perché è la più duratura, ti rendeva infelice. Il nulla, ossia la totale vanità delle cose, ti parve come un’ombra, qualcosa di immateriale e inconsistente, e tuttavia reale e solida, e il mondo (ti sembrò) un luogo deserto. I tuoi occhi non videro il tardivo onore della incoronazione poetica; l’ora della morte per te fu una grazia, non una sventura. Chi conobbe il dolore della nostra umana condizione, richiede la morte, non la corona di alloro, simbolo di gloria. Torna a vivere tra noi, levati dal tuo sepolcro, silenzioso e desolato, perché non tenuto in cura da chi vive (la tomba del grande poeta era in stato di abbandono), se sei desideroso di angoscia, o esempio pietoso di vita dolorosa e infelice. Il nostro modo di vivere è assai peggiorato rispetto a quello che a te sembrò tanto triste e spregevole. O caro, chi ti compiangerebbe, se per sfrenato egoismo, ognuno non ha cura se non di se stesso? Chi anche oggi non chiamerebbe follia la tua grave angoscia, se desiderare qualcosa di grande e di eccezionale è chiamato follia, se ai sommi ingegni tocca in sorte non più l’invidia che implica pur sempre il riconoscimento di un valore, ma l’indifferenza, che è ben più crudele dell’invidia, perché implica la negazione di ogni valore; o quale alloro ti si preparerebbe, se oggi il contare, ovvero la ricerca dei beni materiali, è cercato più della poesia? Dopo di te, fino ad oggi, o sfortunato ingegno (del Tasso), non è nato nessun altro uomo degno dell’antica gloria italiana, se non uno solo (Alfieri): solo un fiero piemontese (Allobrogo, in quanto gli Allobrogi erano gli antichi abitanti della Savoia), immeritevole di vivere nella sua epoca vigliacca, a cui nel petto il virile coraggio venne dal cielo, non dalla mia Italia stanca ed inaridita; per questa maschia virtù venutagli dal cielo, egli, cittadino privato ed indifeso (memorabile audacia), con le sue tragedie sulla scena fece guerra ai tiranni: almeno si conceda questa piccola guerra a questo metaforico, e perciò inutile, campo di battaglia, costituito dal teatro, alle ire impotenti degli oppressi contro i tiranni. Egli per primo e solo scese in campo, e non lo seguì nessuno, perché l’ozio e il vile silenzio oggi interessa ai nostri concittadini più di ogni altra cosa. Aborrendo i tiranni e i vili e fremendo di sdegno contro di essi, condusse tutta la vita in modo incontaminato e la morte lo liberò dal dovere assistere al peggio dell’età seguente. O mio Vittorio, non era questa l’epoca adatta a te, né il luogo. Altri tempi ed altra sede conviene agli alti ingegni. Oggi viviamo soddisfatti dell’ozio e guidati da ideali mediocri: il sapiente è sceso e la plebe, il volgo, è salita allo stesso livello, che rende tutti uguali. O famoso scopritore di opere antiche (si rivolge di nuovo al Mai), continua la tua opera, risveglia i morti, poiché i vivi dormono; ridai la forza alle voci spente degli antichi eroi; così che, alla fine, questo secolo corrotto o aspiri a nuova vita e si impegni a compiere nobili imprese o, almeno, si vergogni. |
Struttura metrica di “Ad Angelo Mai”
Ad Angelo Mai è una canzone suddivisa in 12 strofe di 15 versi ciascuna fra settenari ed endecasillabi, secondo lo schema rimico AbCBCDeFGDeFGHH.
Stile, linguaggio e figure retoriche principali
Per quanto sia difficile sintetizzare un’opera complessa come la canzone Ad Angelo Mai, possiamo affermare che essa ruoti intorno a due poli essenziali, ovvero la condizione di assoluta inerzia dell’Italia, a sua volta iscritta in quella più generale dell’intera umanità contemporanea all’autore da una parte, e il sofferto vagheggiamento del fervore immaginoso proprio dei tempi antichi e della fanciullezza dall’altra.
Per dirla con la formula cara a Leopardi, si tratta del "vero" e del "caro immaginar".
Tale concezione, filosofica oltre che letteraria e poetica, si esprime anche attraverso lo stile e il linguaggio.
Per amplificare la sensazione di definitiva fissità della negatività del reale, il recanatese utilizza molti latinismi e termini arcaici (ad esempio nume, virtude, viltade, ruina, duolo, polo), mentre dal punto di vista sintattico si serve di formule estremamente asciutte e secche, da epigrafe funeraria; quasi tutte sono poste a chiusura di strofa, a voler sottolineare l’approdo ad una certezza assoluta da cui è impossibile fuggire.
Le figure retoriche preponderanti sono le metafore (ad esempio nebbia di tedio e tedio che n’affoga) e le perifrasi (ad esempio allobrogo feroce, che sta per fiero piemontese).
Secondo una parte della critica, esse servono a rendere linguisticamente la materializzazione dell’astratto (Blasucci, Galimberti).
Fin qui il linguaggio del vero, mentre quello dell’"immaginar" predilige raffigurazioni vaghe, in grado di evocare indeterminatezza e senso di indefinito (ad esempio ignota immensa terra e infiniti flutti).
L’effetto di vastità, infine, come accade anche nell’Infinito e La sera del dì di festa, si amplifica attraverso il massiccio impiego della vocale a, spesso seguita dalla consonante n (ad esempio mare, vasto, alma, sonante e cantor).
Spiegazione, analisi e temi di “Ad Angelo Mai”: l’impietoso contrasto fra il glorioso passato dell’Italia e lo squallore del presente, la nostalgia dei tempi antichi e della fanciullezza
Ad Angelo Mai è un’opera complessa, da larga parte della critica considerata la summa delle concezioni leopardiane proprie del periodo compreso tra la fine degli anni ’10 e l’inizio degli anni ’20 dell’800.
Prevale il tema civile e patriottico, a cui si intreccia quello esistenziale della perdita delle illusioni sul piano sia storico che individuale.
Nella canzone l’autore esprime sconcerto e ancora di più doloroso avvilimento per la situazione in cui versa l’Italia, caduta un un pericoloso quanto insopportabile stato di squallore a causa di cittadini che definisce avvolti da "ozio turpe" e della "immonda plebe" che, intenta solo a "computar", considera "folle" ogni valore ed è incapace di un qualsiasi atto di eroismo.
Un ritratto amaro e sconsolato dell’amata patria, al quale fa da contrappunto la memoria della gloria che in passato l’aveva resa grande, ma di cui nel presente sembra non restare alcuna traccia.
Dopo il positivo sussulto del Rinascimento, l’Italia è miseramente caduta in uno stato di letargo culturale, civile ed umano da cui non sembra capace di risollevarsi, condizione che amareggia profondamente il poeta, inducendolo a consolarsi passando in rassegna alcuni degli uomini e delle gesta che le erano valsi l’ammirazione e il rispetto del mondo intero.
Davanti a tale angosciosa situazione, Leopardi mostra un contegno titanicamente combattivo (come Alfieri, che pure cita) che tende tuttavia a ripiegare, infine, in un atteggiamento di avvilita disperazione.
Il contrasto fra antichi e moderni è tematica dominante della canzone Ad Angelo Mai.
L’antichità, ovvero la "giovinezza" dell’umanità, è vista come l’"età dell’oro", perché a quel tempo "Natura parlò senza svelarsi", quindi non c’era ancora quella percezione della realtà che in seguito avrebbe condotto all’annullamento delle illusioni, gettando l’uomo in una cupa e non più rimediabile disperazione.
Gli antichi, grazie alla possibilità di nutrire ancora ampie immaginazioni, erano spinti ad azioni eroiche, uno slancio annientato delle nuove scoperte scientifiche, che inducendo all’uso della ragione, hanno dissolto il mito e la fantasia, proiettando il genere umano in una micidiale e vergognosa condizione di inerzia.
Tale conflitto antichi-moderni, espresso nelle strofe dedicate a Cristoforo Colombo e Ludovico Ariosto, si collega direttamente a quello natura-ragione, che a sua volta si estrinseca nei già menzionati concetti di "caro immaginar" e "vero" (l’argomento costituirà il fulcro di un’altra opera celebre di Leopardi, Alla Primavera o delle Favole antiche, del 1822).
La riflessione passa ora dal piano storico a quello umano, in cui l’"età dell’oro" è rappresentata dalla fanciullezza, il momento, l’unico della vita, in cui il mondo appare per ciò che non è, bello, accogliente, suggestivo, pronto ad essere scoperto nelle sue meraviglie.
Crescendo, l’acquisizione delle conoscenze, la maturità e lo sviluppo della capacità di discernimento, ci mettono di fronte al "vero", che presentandosi in tutta la sua crudezza ci mostra la nostra miseria.
Diventando adulti si comprende che "solo il nulla s’accresce", che tutto è vano, a parte il dolore.
Con amarezza Leopardi constata che la civiltà ha irrimediabilmente cancellato la conoscenza immaginosa, tipica degli albori della nostra storia e della fanciullezza, sprofondandoci in uno stato di perenne tormento.
Il tedio, prima ed inevitabile conseguenza di questa situazione, assume una duplice connotazione: una storica, in riferimento al clima oppressivo della Restaurazione che Leopardi, confinato nella remota provincia pontificia sente fortemente, e un’altra esistenziale, che vede la vita come Nulla assoluto.
Angelo Mai, a cui l’autore si rivolge in apertura e in chiusura di componimento, e gli uomini che come lui, con perseveranza e dedizione riportano alla luce gli scritti degli antichi, costituiscono il solo ma significativo barlume di speranza in questa visione sconsolata dell’Italia e dell’umanità intera: le loro voci, tornando a parlare al mondo moderno, potrebbero scuoterlo dall’insostenibile torpore in cui è precipitato.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Chi era Angelo Mai, il filologo a cui Leopardi dedicò una poesia
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