

Al compimento dei quarant’anni, secondo la testimonianza della moglie, Tomasi di Lampedusa aveva maturato l’intenzione di scrivere qualcosa; diceva:
Sarebbe interessante descrivere la giornata di un principe siciliano all’epoca dello sbarco di Garibaldi.
L’idea era ancora vaga (non si parlava del bisnonno, né della sua famiglia) e avrebbe trovato una forma concreta soltanto molto più tardi. Per la Principessa le ragioni del rinvio erano dovute a circostanze che gli condizionarono la vita:
Avrebbe senz’altro iniziato prima se non ci fosse stata la guerra e poi la perdita del palazzo di famiglia con tutti i disagi che essa comportò: accettare l’ospitalità dei parenti, cercare di salvare il salvabile, lottare per ricostruire la casa e poi contrattare a lungo per l’acquisto del nuovo palazzo.
È diciotto anni dopo che iniziava la stesura del suo romanzo, che si è sviluppato malgrado l’intenzione di ridurre il tempo narrativo al giorno ("saranno 24 ore della vita di mio bisnonno").
“Il Gattopardo”: le contraddizioni e i problemi irrisolti dell’Italia


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Scritto quasi ogni giorno nel segreto della solitudine, dalla fine del 1954 o dal principio del 1955 al 1956, al tempo della rivolta d’Ungheria e del centrismo della politica italiana che mostrava i limiti di un progetto incapace di coniugare il principio di libertà con le istanze di giustizia sociale, Il Gattopardo, coevo del Dottor Zivago, appare nel novembre 1958.
Nunzio Zago inserisce il romanzo nel dibattito meridionalistico. Il tema del Risorgimento tradito viene proiettato nella frattura nord-sud e l’anzidetto studioso e critico letterario raccorda le idee tradite dalla "conquista regia" all’impegno di Guido Dorso. Il romanzo, sostiene,
si presta ad una chiave di lettura dorsiana, sin dalla basilare esigenza di risalire a contropelo la storia d’Italia, per sorprenderla tutta sotto il segno d’una costante tendenza al compromesso e al trasformismo.
Il pessimismo di Lampedusa trae origine dal fallimento della questione meridionale, che trova spazio in un deteriore trasformismo vissuto dallo scrittore nel corso degli eventi successivi al secondo conflitto mondiale. È la delusione ad alimentarlo ed è la sfiducia in un presente legato all’opportunismo che lo induce a proiettarsi in un sentimento di pietà cosmica. Da qui la scelta dell’ambiente storico risorgimentale per individuare le cause remote del divario fra le due aree del Paese che hanno proceduto a ritmi del tutto opposti.
Del resto, egli era convinto di legare il presente con il passato e di rappresentarlo come storia. Eloquente questa sua riflessione:
I riferimenti di Stendhal alla storia sua contemporanea sono continui: ad un tratto, a proposito dei signori italiani del ’500, si rivolge ai composti monarchi del 1820 [...] Egli ha compreso che trattare di un’epoca trascorsa senza riferimenti al presente, è come ridurla a un oggetto di museo: distaccato dalla nostra vita e senza influenza su di essa. Proprio il contrario di ciò che è in realtà.
Le contraddizioni e i problemi irrisolti del presente vengono così osservati in un cammino all’indietro, essendo un inquieto passato a illuminare l’oscurità del tempo in cui lo scrittore viveva.
“Il Gattopardo”, Vittorini e Sciascia
È noto che Vittorini (allora dirigeva la collana di Einaudi "I gettoni"), assai legato al proprio stile e coerente con la funzione che egli assegnava alla letteratura, abbia infelicemente respinto il romanzo con limitative argomentazioni esposte in una lettera indirizzata allo scrittore e pubblicata nel 1957 in un numero della rivista "Linea d’ombra".
Vi si apprende anche che, pur mantenendo il giudizio negativo espresso in modo drastico con pretesti ideologici di cui si lascia condizionare, lo consiglia, senza osteggiarlo, alla Mondadori, indirizzando una nota ai responsabili della casa editrice che a loro volta oppongono un netto rifiuto alla pubblicazione dell’opera.
Per Sciascia lo scritto si situava nell’ambito del formalismo decadente, mentre Giuseppe Tomasi di Lampedusa era uno scrittore reazionario e qualunquista. E aveva esposto pubblicamente le sue perplessità ideologiche al Circolo di Cultura di Palermo nel gennaio del 1959: non condivideva l’idea di una Sicilia sottratta alla Storia e nemmeno l’incapacità dei siciliani al cambiamento. Cambierà opinione nel 1968 e in un dibattito organizzato dal quotidiano "L’ora" darà ragione a don Fabrizio sul mancato cambiamento della realtà socio-politica:
Il principe di Lampedusa ha purtroppo avuto ragione e noi torto [...] in effetti, la costante della storia siciliana (e oggi si può dire della storia nazionale) è il cambiar tutto per non cambiar niente. Questa lucida profezia che allora mi irritava, ora, in un certo modo mi affascina come tutte le cose fatali, inevitabili; mi affascina dolorosamente e su questo punto debbo dargli ragione.
Acuta la sua valutazione:
Del resto il libro si svolge, con letteratissima abilità ed una certa ironia, su due piani: quello dell’autobiografia, dell’autoritratto, della proustiana memoria; e quello della ricostruzione oggettiva, però condizionata da araldiche suggestioni. Il risultato è affascinante. E un gran bel giuoco e, sia detto senza ombra di ironia, il principe di Lampedusa l’ha fatto saggiamente durar poco: tanto da lasciare un solo libro. Un libro che ci affascina, che ci diverte, che ci fa riflettere [...] Il fatto è che "Il Gattopardo" è un libro scritto da un gran signore. Un gran signore “non è altro che qualcheduno che elimina le manifestazioni sempre sgradevoli di tanta parte della condizione umana e che esercita una specie di profittevole altruismo”: illuminante definizione che il Tornasi mette nei pensieri di Calogero Sedàra, che gran signore non è.


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Nel saggio "I luoghi del Gattopardo", inserito nell’opera Fatti diversi di storia letteraria e civile (Sellerio, 1989), a seguito del fallimento progressista, esplicitamente invita alla rilettura dell’opera:
Certo mancherebbe molto, alla letteratura italiana di questi anni se il libro non fosse stato pubblicato. E credo sia venuto il momento di rileggerlo; e per i giovani di conoscerlo.
Natale Tedesco ha precisato:
Fondamentalmente si potrebbe affermare che questo romanzo sia stato scritto con l’anima esterofila di quel gruppo di intellettuali che si radunò dapprima intorno alla fiorentina "Solaria", cioè con l’anima europea della cultura italiana tra due guerre che scopriva, o meglio riconosceva Svevo alla luce di Proust e di Joyce, e stava per acquisire Carlo Emilio Gadda [...] Allora salta fuori l’importanza di Genova, dove egli pubblica, sulla rivista “Le Opere e i Giorni” che si muoveva in qualche modo in un’area culturale di molteplici frequentazioni moderniste, i primi lavori d’interesse non provinciale, ma anzi esibendo una conoscenza di autori come Yeats o Joyce.
Un fatto è certo: mettere in discussione l’idea di progresso sebbene la storia si muova con velocità "supersonica", non credere nella possibilità della giustizia e assumere una visione retrograda della realtà, e anche cinica, dovettero inorridire l’intelligenza del tempo vittima di un’ideologia censurante e incapace di guardare la realtà senza l’ottimismo del tempo storico e del bene politico. È un’illusione tipicamente illuministica pensare che il tempo sia diritto e che vada avanti, creando progresso. Il tempo della storia non è direzionale, non va sempre avanti verso il meglio: le guerre, per esempio, si ripetono con più ferocia e riportano indietro rispetto alle sognate attese.
“Il Gattopardo”: la pubblicazione e il successo mondiale
È a Bassani che, avendone riconosciuto il valore letterario e antropologico, va attribuito il merito di averlo fatto stampare dalla Feltrinelli, intuendo, nella prima "Prefazione" all’opera, la particolare vicinanza di Tomasi di Lampedusa a Vitaliano Brancati ("Insomma meglio che a De Roberto, Tomasi di Lampedusa bisogna accostarlo al contemporaneo Brancati").
Il successo è immediatamente rapido. Della prima edizione, uscita nel novembre 1958, sono già vendute tremila copie e nel 1959 il romanzo, presentato da Ignazio Silone e da Geno Pampaloni, vince il premio Strega che gli consente una straordinaria affermazione. Poi mondiale e duratura grazie alla superba e brillante trasposizione cinematografica fatta da Luchino Visconti nel 1963.
“Il Gattopardo” e la Storia
Si è ormai chiarito che l’opera non va letta secondo un’ottica storica tradizionale. È appena un fragile scenario la storia, uno sfondo, mentre i suoi eventi, che non sono direttamente narrati, sono desunti dalle parole dei personaggi. Estremamente chiarificatore il commento di Samonà:
E qui si appalesa già subito il netto discostarsi di Lampedusa dal romanzo storico, anche da quello che è sembrato ai più simile al Gattopardo: Manzoni e Tolstoj, ad esempio, fanno precedere (o seguire di pochissimo) la narrazione delle vicende dei protagonisti da inserti puramente storici; Lampedusa invece distilla l’intera vicenda storica facendola fermentare soltanto nel pensiero e nel comportamento dei personaggi.
Lo stesso Tomasi nella lettera del 2 gennaio 1957 aveva esplicitamente detto all’amico Guido Lajolo:
Non vorrei però che tu credessi che è un romanzo storico! Non si vedono né Garibaldi né altri: l’ambiente solo è del 1860.
Spinazzola ha scritto che si potrebbe parlare di romanzo "antistorico" per il modo indiretto con cui si parla dei pochi fatti:
gli avvenimenti in quanto tali non sono mai esposti nel loro farsi: lo sbarco a Marsala è notizia di giornali; il plebiscito è rammemorato da don Fabrizio e rinarrato da don Ciccio Tumeo; l’Aspromonte è raccontato da Pallavicini; persino le celebrazioni cinquantenarie sono introdotte solo attraverso le chiacchiere di vecchie dame.
Ad ogni modo appare vero che il romanzo, a dirla con Tosi, contiene e sviluppa una riflessione abbastanza articolata e complessa sul Risorgimento con riferimento alla sua gestione in Sicilia. Ed è altresì evidente che il tempo storico e quello esistenziale, fantastico e allegorico, si intrecciano con linee di raccordo.
Lo stile si compiace di ricercate, preziose presenze auliche fino a manifestare per Natale Tedesco "una tastiera da poème en prose" per il "poetico amore delle parole" con "alto tasso di metaforicità".
Il Gattopardo: contenuto del romanzo
“Adesso e nell’ora della nostra morte. Amen”: con la recita quotidiana del rosario si apre la parte prima che si chiude con il medesimo rito. Il tono è di raccoglimento familiare a villa Salina e l’atmosfera è coinvolgente al punto che le le cose sembrano mutare aspetto.
Esiguo l’intreccio nelle otto le parti che compongono il romanzo. Iniziano nel maggio del 1860 con lo sbarco di Garibaldi in Sicilia e con le lotte che produrranno l’unità d’Italia. Si chiudono, mezzo secolo dopo, nel 1910. Protagonista assoluto è Don Fabrizio Corbera, principe di Salina, ben consapevole della fine della dinastia borbonica e del mondo che le ruota attorno:
La ricchezza, nei secoli di esistenza, si era mutata in ornamento, in lusso, in piaceri, soltanto in questo.
Non serve rifiutare l’ineluttabile corso della storia pur consentendo al nipote Tancredi, amato come un figlio, di adattarsi alle nuove circostanze: mettersi con Garibaldi per impedirgli di fare la repubblica. Il realismo del Principe si mostra quando non ostacola le nozze di questi con Angelica, figlia di Calogero Sedàra, contadino arricchitosi a spese dei padroni: trafficante e arrampicatore sociale senza scrupoli per il quale “approfittare è legge di natura”. Don Fabrizio è consapevole: l’avvenire è del ceto emergente e quindi non bisogna cedere ai sentimentalismi o alle nostalgie aristocratiche.
Tancredi Falconeri, nipote del Principe e amato come un figlio, è ambizioso, aspira alla carriera politica e necessita di un cospicuo patrimonio dotale per realizzare le sue aspirazioni. Perciò il principe, sia pure con riottosità, favorisce il loro matrimonio. Nessun Tancredi avrebbe mai resistito alla sua bellezza unita al suo patrimonio. Presentato con un’allegria riottosa e con un temperamento frivolo non esente a tratti da improvvise crisi di identità, mostra il suo deciso convincimento di lottare a fianco dei garibaldini.
L’iniziale scoraggiamento di don Fabrizio, senza dar segno di condivisione, cede poi alle sue insistenze, elargendogli un contributo finanziario. La frase del nipote lo fa riflettere:
Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi.
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Decadenza della nobiltà e ascesa di nuove classi sociali
Pare ora di poter dire che il romanzo sia in buona parte la rappresentazione della decadenza della nobiltà siciliana e l’ascesa di una nuova classe di proprietari terrieri ambiziosi e senza scrupoli.
L’aristocrazia siciliana, smarrite le virtù cavalleresche, si condanna così a un ruolo decorativo e passivo all’interno dei nuovi equilibri dello stato nazionale:
La ricchezza nei molti secoli di esistenza si era mutata in ornamento, in lusso, in piaceri; soltanto in questo; l’abolizione dei diritti feudali aveva decapitato gli obblighi insieme ai privilegi; la ricchezza, come un vino vecchio, aveva lasciato cadere in fondo alla botte le fecce della cupidigia, delle cure, anche quelle della prudenza, per conservare soltanto l’ardore e il colore. Ed a questo modo finiva con l’annullare se stessa: questa ricchezza che aveva realizzato il proprio fine era composta soltanto di oli essenziali e, come gli oli essenziali, evaporava in fretta.
Una galleria di ritratti è il romanzo: vi sono gli arricchiti, i parvenu, i campieri, i contabili, i soprastanti, i plebei tutti, gli attendenti e i cavalieri, i contabili, tra cui spicca la descrizione di Ciccio Ferrara:
un ometto asciutto che nascondeva l’anima illusa e rapace di un liberale dietro gli occhiali rassicuranti e cravattini immacolati.
Per lui, la cui immagine di "nuovo padrone" contrasta con la visione decadente e pessimistica di don Fabrizio, il nuovo orizzonte della storia è tracciato:
dopo un po’ di trambusto e di sparatorie tutto andrà meglio, e nuovi tempi gloriosi verranno per la nostra Sicilia.
Anche Pietro Russo, il soprastante che compie le sue ruberie convinto di esercitare un diritto, è l’espressione del nuovo ceto in ascesa.
Don Fabrizio, che vive per la morte accogliendola come una bella signora, si congeda dalla vita nel luglio del 1883 in un albergo palermitano al ritorno da Napoli dove si era recato per una visita medica. Muore lontano dalle cose e dai luoghi amati; senza i suoi spazi, egli è uno sradicato. Con la sua morte crolla il prestigio del casato: lo sfacelo si configura in tutta la sua evidenza quando, nell’ottava e ultima parte del libro, incontriamo avanti negli anni le sue tre figlie zitelle e il vescovo, il quale, a seguito di un’ispezione in tutte le cappelle private della città, accerta che di quelle custodite dalle tre sorelle solo alcune si salvino dalla distruzione. Il volo dalla finestra di Bendicò, imbalsamato, e la fine polverosa di tutte le "povere cose care" gettate nell’immondizia testimoniano la totale assenza di quel casato amato dal Principe.
Ormai Concetta, figlia del Principe e vittima sacrificale, è disincantata, vuole annullare ogni ricordo e liberarsi da un passato vissuto con oppressione. La sua è una rivolta interiore che segna in lei un sostanziale cambiamento: dalla pazienza ferita senza più brividi di speranza alla soppressione catartica di un passato che l’ha consumata.
Siamo agli antipodi della pittura di Chagall. Nel quadro di questi il volo è innamorato e procede verso sfere spirituali fuori di ogni gravità. La sua poesia si libra tra sogno e magia. Nasce dalla speranza e guarda a una vita rinnovata. Qui invece ci si trova dinanzi a una discesa nell’Ade, a un angoscioso annichilimento o svuotamento del sé. Anche se la forma della carcassa un attimo si ricompone in una fisionomia che richiama il gattopardo, la fine, che fa venire in mente il libro dell’Ecclesiaste sulla vanità del tutto, sull’immenso vuoto (“ogni fine è vuoto, ogni futuro è illusione”), è soltanto quella di "un mucchietto di polvere livida". Non a caso, nell’edizione del 1958, "La fine di tutto" s’intitola l’ultimo paragrafo dell’ultima parte. Ed è la fine polverosa di tutte le “povere cose care” che si riducono a cenere. Il cane imbalsamato che si polverizza è metafora di fugacità della vita verso il nulla, dell’aridità di un mondo che lentamente vede approssimarsi l’ineluttabile fine. Ha scritto Salvatore Silvano Nigro:
Il Gattopardo è un romanzo della disperazione, rabbiosa alla fine.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “Il Gattopardo”: storia e temi del romanzo di Tomasi di Lampedusa
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