I vicerè e Il gattopardo, pur scritti in epoche diverse, trattano di un argomento comune: l’unità d’Italia dal punto di vista dei nobili borbonici. Cosa hanno effettivamente in comune questi due romanzi?
I Viceré di Federico De Roberto
Scritto nel 1891, I vicerè, romanzo di Federico De Roberto, si occupa del risorgimento meridionale visto con gli occhi della nobile famiglia catanese degli Uzeda, i cui membri sono discendenti diretti dai viceré spagnoli e abituati da sempre a spadroneggiare con mezzi non sempre leciti.
L’intento di De Roberto, scrittore verista, è più che altro quello di dimostrare come gli Uzeda, potenti per nome e non per capacità, siano decadenti nel corpo e nella mente a causa anche di continui accoppiamenti tra consanguinei che ne hanno "avvelenato il sangue" (l’autore sposa le teorie positiviste di fine Ottocento e tende a descrivere con particolari anche ripugnanti gli effetti delle malattie ereditate dai vari membri della aristocratica famiglia).
Il personaggio chiave dell’intero romanzo, Consalvo, che nella prima parte della storia è visto bambino, è colui il quale riesce a cavalcare gli eventi e a far perpetuare il potere nelle mani della sua famiglia riuscendo a farsi eleggere sindaco di Catania e poi deputato. L’unità del paese, quindi, fa solo da sfondo perché l’autore, pur mostrando il nuovo che avanza, sembra tristemente convinto che nulla sia effettivamente cambiato (in meglio) per chi sperava nel passaggio dai Borboni ai Savoia.
Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa
Scritto nel 1957 e pubblicato postumo l’anno seguente, Il gattopardo a un occhio poco attento sembrerebbe molto simile al romanzo di De Roberto: ambientato a Palermo, il romanzo inizia nel maggio 1860, mentre Garibaldi si accinge a sbarcare in Sicilia e si occupa della nobile e decadente famiglia dei Salina.
Il romanzo di Tomasi di Lampedusa però è un romanzo moderno e più introspettivo, che ruota fondamentalmente intorno alla figura del principe Fabrizio, disilluso, cinico, pieno di sensi di colpa perché spesso compie azioni che non condivide: i continui tradimenti perché poco soddisfatto dalla consorte malaticcia e beghina, il voto affermativo al plebiscito dell’annessione al regno di Piemonte perché considerato "inevitabile".
L’unità del paese diventa in questo caso un simbolo: la fine di un’epoca, il passaggio di consegne da un’aristocrazia chiusa e dominatrice a borghesi senza scrupoli (quale l’emergente sindaco e faccendiere Calogero Sedara) o nobili capaci di vendersi al miglior offerente (quale Tancredi, nipote di don Fabrizio, spigliato, spregiudicato, convinto che l’aver seguito Garibaldi possa essere un passaporto per mantenere il potere avito). Tomasi di Lampedusa, che nel suo romanzo riserva ampie pagine ai fatti occorsi tra il 1860 e il 1862, guarda agli eventi con l’occhio distaccato del ricercatore, trattandosi di avvenimenti di quasi cento anni. Il lettore ha una maggior percezione del processo di cambiamento del paese, ma si accorge anche del prezzo pesante che il sud e in particolare la Sicilia hanno pagato.
Se De Roberto è più scientifico, lo scrittore Tomasi di Lampedusa opta per uno studio più intimista, benché entrambi pervengano al risultato pessimista del male dell’unione del paese.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: L’unità d’Italia in De Roberto e Tomasi di Lampedusa
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