Aldo Simeone, giovane autore nato a Pisa nel 1982, si presenta ai lettori e ci racconta com’è nato il suo nuovo romanzo, Per chi è la notte , edito da Fazi.
- Al mondo letterario s’affaccia un nuovo autore di talento che il pubblico conosce ancor poco. Chi è Aldo Simeone? Ci parli un po’ di lei e della sua passione per la scrittura.
Sono, prima di tutto, un lettore. Per me scrivere significa inventare le storie che vorrei leggere, tipo farsi i biscotti in casa. Per appropriarmi appieno di un’esperienza, ho bisogno di condividerla con gli altri. E la condivisione è – per l’essere umano – il racconto. Lo è sempre stato, dai tempi in cui le Grotte di Lascaux avevano un altro nome, o forse nessuno. Funziona allo stesso modo con le fotografie postate sui social, o con i filmini di nozze che certa gente impone ai malcapitati amici.
È stata mia mamma a trasmettermi la passione per il racconto. Ricordo certi viaggi in automobile per le vacanze più delle vacanze stesse, quando lei recitava interi episodi di Omero, Dante, Foscolo, Montale… Quanto erano più ricchi e belli della realtà, i suoi racconti!
Aveva anche lei la passione per la scrittura, ma era più brava con i versi. Da piccolo, seguendo il suo esempio, raccontavo i miei sogni. Quando esaurivo il materiale a disposizione, continuavo inventando. Ma credevo a tal punto alle mie fantasie che ancora oggi mi chiedo se, in verità, non abbia dimenticato i sogni che le hanno generate. Chissà. Magari continuo tutt’oggi a metterli per iscritto.
- Com’è nata l’idea di questo romanzo?
Da un desiderio. Volevo condividere una paura, anzi la paura infantile per eccellenza (le paure più vere sono quelle infantili): perdersi nel bosco. Intorno a questo concetto si è aggregata, dettaglio dopo dettaglio, una storia. Innanzi tutto il protagonista: un bambino. Anzi, due: come insegna Henry James, volevo un «giro di vite». Poi un paese che fosse letteralmente ingoiato dal bosco.
Per caso, in un fine settimana di tarda estate, fui accompagnato da alcuni amici di famiglia in Garfagnana, a Minucciano. Piombai così – letteralmente – nell’ambientazione del mio romanzo. Da quel momento, ogni dettaglio seguì l’altro in un effetto domino: le leggende garfagnine, le fortificazioni della linea Gotica, i racconti dei testimoni, l’isolamento. Secondo i suoi stessi abitanti, la Garfagnana è «l’ultima regione dell’universo». Vivendoci, si ha l’impressione di essere fuori da tutto. Qui la magia è ancora possibile. Ed ecco l’ultimo ingrediente che mi serviva: la magia.
- Bosconero, il luogo in cui è ambientato, è frutto di fantasia. C’è un luogo reale cui Lei fa riferimento? Se sì, perché lo ha scelto?
Bosconero è un po’ come la Vigata di Camilleri: esiste, ma con un altro nome. Anzi, almeno un paio. Quello d’invenzione lo devo a un amico che ho derubato di altre cose (come si capirà solo nominandolo): Francesco Tommaso Pastorelli. Nella realtà Bosconero è Fabbriche di Careggine, il paese sommerso dal lago di Vagli, la cui ultima emersione per la pulizia dell’invaso è avvenuta nel 1994. Non ho dunque potuto visitarlo. Ecco perché ho deciso di usare un nome fittizio. Nell’immaginarmi le strade, la chiesa, il cimitero, l’abitazione di Francesco avevo in mente Minucciano. Ma è tutta la Garfagnana che sta dietro alla maschera di Bosconero.
- Ci presenti il protagonista del romanzo e il suo amico “per scelta”. Inoltre, può darci una sua definizione personale di amicizia?
Ha colto nel segno. È proprio così: Tommaso e Francesco sono amici per scelta. L’amicizia, per me, è esattamente questo: il primo atto assertivo, volitivo nella vita relazionale di ogni individuo. Stringere amicizia è un po’ come iniziare a costruire la propria famiglia. Usciti dal nido, in cui i legami sono di sangue, ci si confronta con l’altro. E ciò porta all’individuazione più profonda di sé. Il confronto con la diversità è un fatto consustanziale dell’esistenza, necessario, abituale. Troppo spesso ce lo dimentichiamo. Non è possibile definire Francesco senza Tommaso.
Il mio amico che ho derubato dei suoi due nomi mi convinse al furto quando mi fece notare l’antitesi che li tiene insieme: Francesco è il santo della fede candida e ingenua, che è quasi fiducia; Tommaso, al contrario, è lo scettico, che ha bisogno di vedere per credere.
Come nella saga de L’amica geniale della Ferrante, si può dire che i due protagonisti del mio romanzo siano, in sostanza, la stessa persona.
- Le vicende sono ambientate durante la Seconda Guerra Mondiale, un periodo cui è impossibile non pensare. Da cosa è scaturita la scelta di questo tempo storico?
Da un bisogno narrativo: alla paura del bosco, popolato di creature immaginarie, avevo bisogno di contrapporre una paura reale e adulta. E quale terrore è più nero della morte? Ma nella nostra società del benessere, nel nostro tempo smemorato, la morte arriva in forme subdole e mascherate (perdere il lavoro, la casa, il matrimonio, ammalarsi…), a meno di non scivolare nel genere giallo o nel noir o nel thriller, immaginando una morte violenta o un “mostro” appartenente al bestiario contemporaneo: un serial killer, un criminale. Io invece volevo paure e spaventi assoluti, ideali, “puri”. Così ho pensato alla guerra: la situazione in cui la morte violenta è possibile sempre, quotidiana, impunita. La guerra è un assurdo peggiore della morte.
- La narrazione è costellata anche di antiche credenze. Chi sono «gli streghi» di cui tanto si parla?
Se lo sono chiesto molti studiosi, senza giungere a una soluzione certa. Se ci accontentiamo di quanto racconta il mito è presto detto: sono creature del bosco, che si muovono di notte, in processione, al lume del loro indice acceso. Se commetti l’errore di uscire di casa dopo il tramonto, rischi di perderti e d’incontrarli. Ti chiederanno: «Per chi è la notte?». Se non sai la risposta, diventi uno di loro. Ma non te ne accorgerai subito: gli streghi saranno cortesi e ti proporranno di riaccompagnarti a casa. Ti presteranno una candela. Farai la strada in silenzio. Una volta arrivato a destinazione, voltandoti per ringraziarli, non li troverai più. Spegnerai la candela, la riporrai nel cassetto. Ti coricherai per dormire. La mattina seguente il cero si sarà trasformato in un osso di morto e tu sarai condannato a seguire gli streghi in eterno. Verso dove? E perché è una condanna? Come mai gli streghi sono malvagi? Cosa fanno di male?
Non esiste un solo crimine commesso da loro che sia noto alle cronache del folklore. Gli studiosi hanno perciò ipotizzato che la condanna apposta sugli streghi sia in realtà la censura cristiana di un mito pagano. In origine, gli streghi – alla stregua dei «benandanti» friulani – non erano malvagi. Il dettaglio del dito/cero che, di mattina, torna a essere un osso di morto (così caratteristico da appartenere senza dubbio al mito originario) suggerisce forse la reale identità di queste creature. Sono fantasmi. Morti. I nostri morti. Ecco perché conoscono la strada verso casa. Ma non è bene, per le credenze popolari toscane, vederli tornare. «I morti, bisogna lasciarli andare», insegna la saggezza antica. Questo spiega il motivo per cui, seppur non malvagi, gli streghi fanno comunque paura e devono essere allontanati.
- Il romanzo è adatto a un ampio pubblico, ad adulti e a ragazzi. Oggi il mondo è assai diverso. Cosa vede di simile nei giovani di ieri e in quelli di oggi?
Le paure. Hanno assunto nuovi nomi e nuove narrazioni, ma sono sempre le stesse. E le speranze. Sono il rovescio delle paure, quasi sempre storie, invenzioni, proiezioni dell’immaginario. È questo il motivo per cui deludono sempre un poco, ma non cessano di rinnovarsi e spostare in avanti il traguardo per toglierlo dalla nostra portata. E ancora le relazioni: la famiglia (un rifugio e una prigione), l’amicizia (solidarietà e competizione), la scuola (la cui vera essenza è, appunto, la relazione: coi compagni, con gli insegnanti…), il confronto generazionale, che nel tempo ha assunto modi e linguaggi diversi, ma è sempre improntato all’eredità e al conflitto. Cambiano le mode, le forme della comunicazione, ma il modo in cui l’essere umano funziona (in pratica le sue relazioni) sono le stesse da sempre. Non è un caso che in italiano esista una sola parola per definire le storie e la storia, con il solo scarto del numero grammaticale.
- Ne avrà sicuramente più occasioni, ma come potrebbe presentare ai lettori, soprattutto giovani, il contenuto più profondo del suo romanzo?
Gli autori sono sempre i peggiori interpreti della propria opera, perché il loro punto di vista (solo un parere fra i tanti) viene tenuto in eccessiva considerazione. Nel rispondere a questa domanda, vorrei dunque rinunciare a qualsiasi “autorità”.
In questo romanzo avrei voluto (non so se ci sono riuscito) riflettere sul concetto di «scelta». Crescere significa scegliere. E scegliere è assumere una posizione. È un atto politico. Non sempre è possibile prendere la risoluzione più saggia o prudente o informata. Non bisogna sottovalutare i condizionamenti dell’ambiente, della cultura, del tempo. Per un bambino cresciuto sotto il regime fascista, le simpatie, le speranze, persino le aspettative erano pesantemente indotte. Dopo l’8 settembre 1943, poi, fu difficilissimo persino capire chi fossero i nemici e chi gli alleati. Francesco si trova, in questo frangente, a varcare la soglia che separa l’infanzia dall’adolescenza, i dodici anni. Un altro confine, insieme fisico e metaforico, dovrà essere violato: il limite dei campi, del paese noto, oltre il quale si addensano i segreti del bosco.
- Insieme ai ringraziamenti per la sua disponibilità, un’ultima domanda: progetti per un futuro letterario?
Ho già terminato di scrivere un altro romanzo. Ma l’attività per me più impegnativa e lenta è sempre stata quella della revisione. Di solito, dopo la prima stesura, c’è una radicale riscrittura, con tagli anche molto pesanti, altri tagli, ancora tagli, la sostituzione d’interi blocchi, lo sfrondamento, la limatura. Quindi c’è ancora una seconda revisione, auspicabilmente più leggera (ma non è detto…). Infine altre riletture che fanno parte dell’editing vero e proprio. Ogni fase è accompagnata da stati d’animo estremi e contrapposti: il sacro fuoco della stesura, durante la quale mi faccio prendere la mano dalla mia Luna in Leone al punto di credere – come diceva d’Annunzio – di stare «capolavorando»: il mondo sarà illuminato da un nuovo Genio, il mio.
Alla prima rilettura, la doccia fredda: è tutto sbagliato, tutto da rifare. Un troiaio – detto alla toscana. È questa la fase più delicata, in cui brucia violenta la tentazione di mandare tutto a monte. Se riesco a resistere – denti stretti, le maniche rimboccate –, sento pian piano sbollire le furie e inizio a mettere a fuoco con più obiettività (spero) il lavoro fatto.
Ecco, al momento mi trovo nella fase del rigetto: la riscrittura. In questo caso, poi, il disagio è acuito dal confronto con Per chi è la notte . Il secondo romanzo è sempre il più difficile, dopo un successo come dopo un fiasco. Cambiare? Proseguire sulla stessa strada? La «voce»: ho trovato la mia voce? Cosa voglio dire? Cosa interessa ai lettori?
Poi però mi conforto ripetendomi come un mantra un insegnamento di Bret Anthony Johnston: «Le storie non parlano di qualcosa; le storie sono delle cose».
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Intervista ad Aldo Simeone, autore di "Per chi è la notte"
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