La scrittrice Silvia Dai Pra’ è nata a Pontremoli (Massa) nel 1977 ed è cresciuta a Massa, per poi giungere a Roma, dove vive. Laureata in Lettere, ha conseguito un dottorato di ricerca sulla scrittrice Elsa Morante. Insegna in una scuola serale e si occupa di Istruzione e dei problemi dei docenti in varie riviste e giornali.
Nel 2007 ha pubblicato per i tipi di Gremese La bambina felice, nel 2011 Quelli che però è lo stesso (Laterza) e nel 2019 Senza salutare nessuno. Un ritorno in Istria (Laterza), che parla di foibe e della multietnicità dell’Istria.
- Grazie per la disponibilità. Lei ha fatto un dottorato su Elsa Morante, sul suo libro La Storia e durante o dopo ha letto le opere di Simone Weil. Eppure il suo libro Senza salutare nessuno è un prezioso libro smilzo (di centocinquanta pagine), che parla sì di foibe, ma sembra anche la storia di una famiglia, scritta in modo ironico più simile al Lessico famigliare della Ginzburg che alla visione tragica della Storia della Morante. È così, almeno in parte o sono stato colpito da un colpo di calore?
Ho fatto un dottorato su La Storia della Morante e questo ha portato con sé una serie di lasciti, ad esempio anni di riflessioni sulla questione della violenza e lo studio attento delle opere di Simone Weil. Di sicuro lo spirito – quell’irruenza morantiana che la portò a mettere in copertina, contro ogni distinguo e sofisma, che la Storia altro non era che “uno scandalo che dura da diecimila anni” – è un qualcosa che mi accompagnerà per sempre. Per quanto riguarda lo stile, credo che la Morante sia una delle autrici – se non “L’”autrice – da cui partono tutte le scrittrici italiane delle nuove generazioni, qualcuno da cui non puoi prescindere, una Madre fondatrice da cui alla fin fine si rubacchia sempre qualcosa, anche se magari nessuno lo nota. Poi però si va per la propria strada. Al di là del talento, che è decisamente inferiore nel mio caso, posso dire che lei lavorava per accumulo, io per sottrazione. Lei credeva nella parola in più, io in quella in meno. Le mie 150 pagine in genere sono ciò che resta di 850 pagine iniziali, che sono state sottoposte a un continuo lavoro di ripulitura, come se la prima stesura fosse soltanto un enorme blocco di marmo da cui devo fare uscire una forma. Se dovessi fare il nome di un’autrice che mi è stata utile scrivendo questo libro direi Annie Ernaux, che è una scrittrice che ha fatto dell’autobiografia un’arte e uno stile.
- Non mi compatisca se le dico che, fino alla mia laurea, per me l’Istria era il posto dal mare adamantino dove andavano i miei amici in vacanza. Un luogo dove non sono mai stato. Quando ho letto di infoibamenti (si dice così?), mi sono accorto che le persone cui chiedevo qualcosa di questa tragedia erano in imbarazzo, minimizzavano l’accaduto, il comunismo non poteva essere cattivo. Come si spiega questa rimozione di massa?
Credo che questa rimozione abbia le sue radici nella nostra storia nazionale: finché è esistito, in Italia il Partito Comunista è stato il partito di opposizione per antonomasia, ha governato le regioni dalla qualità di vita più alta, è stato protagonista di una serie di battaglie civili. Insomma, noi quando pensiamo a comunismo pensiamo a Berlinguer, a Peppino Impastato o magari a Che Guevara, nei paesi ex comunisti invece pensano a sistemi di stampo stalinista. Nella Ex Iugoslavia magari non ne parlano, soprattutto gli anziani, perché sembrano ancora spaventati, oppure spostano il discorso – in parte legittimamente, figuriamoci, perché è vero che in Italia, quando parliamo di foibe, tendiamo a dimenticare i crimini italiani in zona –, però non ho trovato nessuno che mi venisse a dire che il comunismo era solo rose e fiori, perché lo sanno che è stato anche Goli Otok. In Italia lo si guarda o nel modo bambinesco alla Berlusconi (i comunisti che mangiano i bambini) o in modo religioso, continuando a volerlo vedere come il paradiso perduto. Credo che molte persone abbiano un modo di percepire la realtà di stampo assolutamente non laico, cercano santini e altarini anche al di fuori della vita religiosa, probabilmente perché guardare una realtà piena di chiaroscuri crea angoscia, è difficile da sostenere. Anche perché guardare la storia così come è stata dà angoscia, è vero: gli esseri umani diciamo che non fanno una grande figura.
Senza salutare nessuno. Un ritorno in Istria
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- Degli italiani che finirono nel paese di Tito (altro che comunismo dolce!), tanti tornarono in patria, ma guardati a vista, come dei fascisti che non potevano vivere nella terra delle occasioni. Le è venuto il sospetto, credo di sì, avendo letto il libro, che chi accusava di fascismo gli italiani tornati in Italia non era poi così democratico, non fosse altro per la durata del fascismo in Italia, una ventina d’anni. Non fu lo sdegno di fascisti "ripuliti" che videro arrivare in Italia in modo quasi psicoanalitico quelli che erano stati loro anni prima?
Gli italiani dall’Istria e dalla Dalmazia non tornarono in patria, perché erano sempre stati lì: la percentuale di persone mandati a vivere in Istria e Dalmazia dal fascismo, i cosiddetti “regnicoli”, era bassa, la maggior parte facevano parte di famiglie locali. Con l’esodo del dopoguerra l’accoglienza nei loro confronti fu pessima, anche perché oltreconfine si stava costruendo il socialismo, che per molti era il paradiso, quindi chi fuggiva doveva essere “per forza” colpevole di qualcosa – mentre, in realtà, oltreconfine il nazionalismo fascista si era ribaltato nel nazionalismo slavo, come racconta Nelida Milani, italiana rimasta a Pola, e nel comunismo in molti non avevano trovato esattamente il paradiso (uno dei più importanti poeti istriani, Ligio Zanini, tra l’altro comunista, finì per anni a Goli Otok, e raccontò la sua esperienza in Martin Muma). Per il resto, poi, gli esuli giuliano-dalmati erano un gruppo perfetto da usare come capro espiatorio: senza più casa, percepiti come mezzi stranieri, ammassati nei campi profughi. In Italia vent’anni di fascismo furono cancellati dall’oggi al domani, non ci fu mai una seria riflessione su ciò che aveva portato il paese in quel disastro, sulle responsabilità e la fascinazione collettiva: morto Mussolini, morto il fascismo. Ma qualcuno fascista lo doveva essere stato, quindi, come sempre, si puntò il dito contro gli ultimi arrivati.
- Il suo romanzo memoir, come ho già detto, mi sembra sì attraversato da un’ironia dolorosa (il dolore degli scempi perpetrati dagli uomini, tragici ma anche ridicoli), ma anche dall’epigrafe ungarettiana: "Cessate di uccidere i morti". Nel nostro paese non si riesce proprio a vedere l’orrore se non nel nazismo e nei nazisti. Mi tocca chiederle una cosa che andava forse detta alla prima domanda: che cosa sono le foibe? E perché possono essere dimenticabili rispetto all’orrore nazista?
Le foibe sono cavità carsiche in cui vennero uccisi una serie di persone, perlopiù appartenenti alla classe dirigente di origine italiana, in due ondate: una, quella istriana, nell’autunno del 1943; una, quella giuliana, nella primavera del 1945. Non furono l’unico eccidio del genere compiuto dall’armata di liberazione jugoslava, che si liberò di oppositori e collaborazionisti sloveni e croati, domobranci e ustascia, spesso con famiglie al seguito, in modo, per usare un eufemismo, molto poco democratico – non si è ancora riusciti a ricostruire le cifre esatte del massacro di Bleiburg, ad esempio. Bisogna dire anche, però, che la stessa Armata di Liberazione Jugoslava usciva da un periodo di massacri: italiani e tedeschi ci andarono giù parecchio pesante nei territori dell’Ex Iugoslavia e i metodi degli ustascia penso siano noti. Insomma, credo che per parlare di foibe si debba avere un quadro veramente completo della Seconda Guerra Mondiale, e che le foibe siano un episodio atroce di una guerra atroce. Quello che hanno fatto i nazisti è altro, non lo trovo paragonabile, anzi, non mi piace che ormai Foibe ed Olocausto vengano spesso affiancate in un mescolone storico che di storico non ha molto.
Immagine: Schema di una foiba tratto da una pubblicazione del CLN (1946). Immagine di pubblico dominio
- Come ha descritto a sua figlia, se l’ha fatto, il nonno e la bisnonna Iole?
Mio padre mia figlia lo conosce, lo ama molto. Di mia nonna Iole sa che era un’appassionata di cotolette e patate fritte e che era istriana. Siamo state spesso insieme in Istria, dove abbiamo una serie di amici e lontani parenti, e si è sempre divertita anche perché in Istria ci tengono moltissimo all’ospitalità, quindi ovunque andiamo viene ingozzata di fette di strudel e fritole. Forse la cosa più buffa è la reazione di mia figlia al fatto che con gli anziani può parlare italiano, mentre coi bambini no: non so cosa abbia capito della situazione, penso che veda l’Istria come un luogo un po’ italiano e un po’ straniero, un luogo misterioso dove tutti assomigliano a suo nonno e i bambini le si rivolgono in una lingua incomprensibile dove, ogni tanto, spunta qualche parola italiana.
- Lei, cara Silvia Dai Pra’, torna in Istria alla ricerca della foiba di Vines, ma ha problemi a trovarla. Al contempo, tutto questo dolore che forse non sarà utile mai conferma che l’Istria è bellissima, gli abitanti anche, il mare neanche a parlarne? E che i miei amici facevano bene ad andarci?
L’Istria è un luogo dal fascino tutto suo, un fazzoletto di terra che nel Novecento ne ha subite di tutti i colori, un luogo che è stato multietnico prima che lo stesso concetto di multietnicità venisse inventato. Di abitanti non ne sono rimasti molti, ma d’estate si riempie di persone che hanno origini istriane, e così si sente ovunque parlare l’istroveneto. Le persone che vivono lì hanno un rapporto molto particolare col mare – è un elemento imprescindibile non solo del panorama, ma proprio della quotidianità, e mi sembra che lo vivano in modo essenziale. Tradotto: puoi pure andare in spiagge affollate, ma troverai sempre gente che è venuta per fare il bagno, non per farti ascoltare la sua musica, piazzare sedie, tavolini e tupperware pieni di lasagne sotto il tuo naso, o giocarti a racchettoni sulla testa. Insomma, lì, al mare ci vai per guardare il mare o per stare nel mare.
- Il suo libro da pochi giorni ha fatto un anno in libreria. Tenendo conto che mediamente i libri sopravvivono tre mesi, il suo libro è stato letto anche durante il lockdown, dove i malati di singletudine ci tenevano a farci sapere via social che lenivano l’angoscia del virus leggendo un libro al giorno. Beati loro. Io ho letto il suo libro e lo consigliavo spesso. Come si sentiva in quel periodo? Controllava le vendite del libro online? Pensava di aver scritto un libro necessario o i suoi pensieri erano altri?
Durante il lockdown ho scritto pochissimo e letto ancora meno. La chiusura delle scuole mi ha trasformata in una mamma a tempo pieno, e così, come molte, passavo il tempo a inventarmi attività da fare con mia figlia per evitare che passasse la giornata davanti alla tv: pasta di sale, lavoretti, disegni, pane fatto in casa... Non le dico la gioia quando siamo potute tornare a mangiare in trattoria e l’ho potuta portare a giocare fuori con gli altri bambini. L’unica novità che mi è piaciuta del lockdown sono state le presentazioni online: finalmente posso dire “io c’ero” – perché alla fine, a Roma, non mi muovo mai dal mio quartiere, manco puntualmente a una serie di inviti e mi dispiace. Così invece potevo partecipare a una presentazione mentre mia figlia guardava i cartoni. Ho fatto pure io qualche presentazione online, e mi sono divertita. Non ho controllato vendite, né ho pensato tanto a Senza salutare nessuno – in genere, un libro esce sul mercato al termine di anni di lavoro, e io credo che gli avessi già dedicato abbastanza tempo. Cercavo di concentrarmi sul nuovo – limitandomi a pensarlo, però, visto che volevo sempre scrivere la sera, ma poi mi addormentavo sfinita alle nove.
Non so se ho scritto un libro necessario: di sicuro lo è stato per me, per gli altri non so. Di certo è stato un libro faticoso da portare in giro. L’argomento – le foibe, il confine orientale – è un tema ormai da anni sotto sequestro da parte della destra e dell’estrema destra, che, pur sapendone spesso poco, sembra voler decidere cosa si può dire sull’argomento e come se ne deve parlare. C’è poi un atteggiamento anche da parte di frange della sinistra che pensano che, siccome l’argomento viene considerato “di destra”, sia meglio non parlarne. Insomma, è stato faticoso e ho finito spesso per chiedermi: ma chi me l’ha fatto fare? D’altra parte ho ricevuto un sacco di messaggi di stima, anche da persone di origini istriane, che sono stati felici di leggere questa storia trattata, mi dicono, senza retorica. Questa retorica, del resto, ha allontanato pure me, che ci ho messo decenni ad approcciarmi alla storia della famiglia di mio padre proprio perché spaventata dall’argomento: in fondo quel “Cessate di uccidere i morti” messo all’inizio vuol dire anche questo. Per scrivere questo libro ho dovuto fare silenzio, non solo dentro di me, ma soprattutto attorno a me.
- Se la sente di consigliare libri che parlano di foibe, di italiani scappati dalla ex Iugoslavia, di storie quotidiane degli istriani? Libri di storia o di narrativa?
La storia del confine orientale è una storia densa dal punto di vista letterario, ci sono tantissimi libri che vale la pena leggere. Se dovessi limitarmi a qualche testo, direi: Marisa Madieri, Verde acqua (Einaudi), per la sua capacità di raccontare la multietnica Fiume e poi la vita da profuga con uno stile da cui è riuscita a cancellare tutto il rancore; Bora di Anna Maria Mori e Nelida Milani (Frassinelli), capace di creare un ponte tra gli italiani d’Istria esuli e i rimasti nei territori della Ex Iugoslavia; e poi Materada di Fulvio Tomizza (Bompiani), che è un po’ la prima pietra della letteratura dell’esodo. Essendo una storia di confine, e quindi soggetta a diverse interpretazioni a seconda del lato da cui la si guarda, credo sia giusto leggere anche chi racconta il Novecento visto dal punto di vista di coloro che il fascismo chiamava “allogeni”: ad esempio i libri di Pahor, ma anche Tomizza racconta le sofferenze degli sloveni in tempo fascista. Qui non mi dilungo, ma sulla Rivista "Il Mulino" ho scritto un articolo più lungo dedicato alla letteratura di confine.
- Come ho già scritto, il memoir Senza salutare nessuno. Un ritorno a Istria è uscito in libreria più di un anno fa. Nel frattempo ha scritto qualcosa d’altro che riguarda ancora le foibe o ha scritto di altro? Nel caso ci fosse un nuovo libro, quando dovrebbe uscire? Grazie di tutto.
No, per il momento non ho intenzione di scrivere altro sul tema – anche perché, guardi, non vedo l’ora di poter fare delle presentazioni in cui si parli solo di letteratura, senza dover temere che qualcuno con Mussolini tatuato sul bicipite si alzi a gridare “e allora le foibe?” o qualche yugostalgico mi dia della fascista perché il mio bisnonno è stato infoibato. Tutto ciò che un tempo giudicavo noioso adesso per me sarebbe bellissimo – sogno domande sull’uso dell’indiretto libero alla fine della presentazione, insomma. Sto lavorando da un po’ di tempo a un romanzo nuovo, un libro parecchio lungo che copre circa 25 anni, dalla fine degli anni Novanta ad oggi. Non è autobiografico, quindi è un tipo di testo diverso rispetto agli ultimi due che ho scritto. Per ora non dico altro appunto perché ancora non so quando uscirà. Quando riapriranno le scuole, e la smetterò di fare pasta di sale e biscotti a forma di unicorno, magari tornerò a fare anche la scrittrice!
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Intervista alla scrittrice Silvia Dai Pra’: l’Istria e le foibe
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