Autore del sonetto “Io m’aggio posto in core” che analizziamo oggi è Giacomo da Lentini (o Jacopo da Lentini) (Lentini, 1210 circa – Lentini, 1260 circa). È Dante a menzionare Giacomo da Lentini nel canto XXIV del Purgatorio nel celebre passo dedicato a Bonagiunta Orbicciani. Lo chiama il Notaro, come si firmava il diretto interessato: “Jacobus de Lentino, domini Imperatoris notarius”, cioè funzionario dell’imperatore Federico II di Svevia, in attività tra il 1233 e il 1240. Altre notizie biografiche non ne abbiamo.
Giacomo da Lentini è il poeta più significativo della Scuola siciliana in cui Dante nel “De vulgari eloquentia” riconosce l’inizio della nostra tradizione letteraria.
La sua professione rappresenta una svolta nello status sociale del letterato. Né cavaliere proveniente dalla piccola nobiltà o grande signore come Guglielmo IX d’Aquitania e nemmeno un dipendente del feudatario o un giullare, il poeta è un funzionario che si dedica alla poesia per diletto. È questo a determinare il divorzio tra testo e musica dei siciliani rispetto ai provenzali? Probabile, perché la lirica siciliana, di cui Giacomo da Lentini è l’esponente più prestigioso, è destinata alla lettura. Il suo inserimento in una realtà cortigiana e l’origine borghese determinano alcune differenze tematiche tra cui una rivisitazione del vassallaggio amoroso che, come sostiene la critica sociologica, è specchio della società feudale.
I testi di Giacomo da Lentini giunti fino a noi sono 38 tra canzoni, canzonette e sonetti di cui fu probabilmente l’inventore (a questi dobbiamo aggiungere per completezza una canzone e due sonetti di dubbia attribuzione). È probabile che il sonetto derivi da una stanza della canzone e Giacomo da Lentini lo usò per primo. È sua la canzone di cinque stanze capfinidas “Madonna, dir vi voglio” che apre una delle più antiche antologie della lirica italiana. Parliamo del canzoniere conservato nel Manoscritto Vaticano Latino 3793 risalente alla fine del Duecento, conservato nella Biblioteca apostolica vaticana.
Analizziamo il testo del sonetto sonetto “Io m’aggio posto in core”.
“Io m’aggio posto in core”: testo del sonetto
Io m’aggio posto in core a Dio servire,
com’io potesse gire in paradiso,
al santo loco ch’aggio audito dire,
u’ si mantien sollazzo, gioco e riso.Sanza mia donna non vi voria gire,
quella c’ha blonda testa e claro viso,
ché sanza lei non poteria gaudere,
estando da la mia donna diviso.Ma non lo dico a tale intendimento,
perch’io peccato ci volesse fare;
se non veder lo suo bel portamentoe lo bel viso e ’l morbido sguardare:
ché lo mi teria in gran consolamento,
veggendo la mia donna in ghiora stare.
“Io m’aggio posto in core a Dio servire”: parafrasi del sonetto
Ho deciso di essere fedele a Dio per poter andare in Paradiso, luogo santo di gioia, piacere, allegria come ho sentito dire.
Non vorrei andarci senza la padrona del mio cuore, dai capelli biondi e il viso luminoso, perché senza di lei, stando diviso da lei non potrei provare gioia.
Non faccio questa affermazione con l’intenzione di commettere peccato, bensì solo per ammirare la sua condotta virtuosa
e il bel viso e lo sguardo dolce: perché riterrei una grande felicità vedere la mia amata in una condizione di beatitudine celeste.
Metrica e analisi
“Io m’aggio posto in core a Dio servire” è un sonetto con rime alternate secondo lo schema ABAB, ABAB; CDC, DCD. Ogni quartina forma un periodo, mentre le due terzine formano un unico blocco. Ciò mostra la tendenza a organizzare l’insieme in tre unità di senso. Questo modello organizzativo tra metrica e sintassi avrà fortuna. Per esempio “Alla sera” di Foscolo del 1803 presenta la stessa architettura.
- v. 13: due le ipotesi interpretative. La felicità del poeta consiste nel vedere la sua donna in una condizione di beatitudine. Oppure è lui a contemplarla in una condizione di beatitudine? Poco importa, se non che Giacomo da Lentini fa scattare l’onda lunga del processo di sublimazione e divinizzazione della figura femminile poi in Guinizzelli, Stilnovisti, Dante della Commedia.
- v. 14 “ghiora”: forma popolare toscana di gloria, introdotta dal copista.
Per poter contemplare la donna amata, il poeta aspira al paradiso. Pertanto il sonetto è costruito su una metafora religiosa trascritta in termini strettamente feudali. In primo luogo il rapporto di devozione con Dio assume i connotati del rapporto vassallatico fondato sul ‘servire’, tanto che il poeta mira al ‘beneficio’ della beatitudine paradisiaca. In secondo luogo la beatitudine è intesa come ammissione in una corte feudale di eterna gioia, piacere, allegria, tutti termini squisitamente cortesi. E la donna ne è il centro.
Ciò determina ambiguità tra sacro e profano perché la sfera erotica sembra assorbire quella religiosa, che comunque di spirituale o teologico non ha nulla. Vediamo perché. Se la donna viene sublimata fino a diventare una divinità, il culto per lei entra in conflitto con quello per Dio. Da qui la necessità a giustificarsi nei primi due versi della prima terzina, dove il poeta precisa che non vuole avere la donna con sé in paradiso con intenzioni maliziose. Ciò detto, la seconda terzina ribadisce l’atteggiamento di fondo per cui la contemplazione della donna nell’aldilà si sostituisce a quella di Dio. Esigenze cautelative presentano il tutto come un desiderio, un’ipotesi in uno sfondo impreciso quanto la figura femminile.
Anche nel “Cavaliere della carretta” di Chrétien de Troyes, la sottomissione di Lancillotto a Ginevra assume i tratti della devozione religiosa. Nel passo della notte d’amore tra i due leggiamo che Lancillotto
“Va al letto della regina, e l’adora e a lei s’inchina perché non c’è reliquia cui creda di più”
e al congedo si inginocchia come “davanti a un altare”. Eppure non c’è alcun conflitto tra religione e amore, adultero e sensuale per di più. Come mai? Solo in seguito la religione dell’amore imbocca la via del misticismo battuta dagli Stilnovisti e Dante.
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