Da noi, in continente, la figura un po’ macabra un po’ dolce e pietosa della vecchia vestita di nero che, come un nostrano psicopompo, conduce i sofferenti estremi verso una buona morte era del tutto sconosciuta prima che Michela Murgia portasse nel nostro bagaglio culturale, con il suo premiato “Accabadora”, anche questa affascinante e coinvolgente tradizione da cui ci separa una strisciolina di Tirreno appena. Infatti la scrittrice, già famosa con il suo “Il mondo deve sapere. Romanzo tragicomico di una telefonista precaria” che più che un libro è la trascrizione di pagine – simpatiche – di un blog-denuncia, con questa nuova opera pubblicata da Einaudi ha fatto davvero il salto di qualità e ha introdotto in ogni casa in cui si legga almeno un libro all’anno (in linea, pertanto, con la media nazionale) l’enigmatica figura di Tzia Bonaria vista attraverso gli innocenti occhi di Maria,
“errore dopo tre cose giuste”
ovvero quarta figlia femmina non desiderata, data da allevare a quella donna dall’età indefinita che per tanti anni lei considera una sarta.
E a noi tutti pareva che mai il mondo prima ne avesse parlato, non solo degli aspirapolvere, ma di colei che nella misteriosa isola sapeva finire il moribondo, quando un amico sardo mi ha informato che, ben due anni prima di Michela Murgia, nel 2007, un suo conterraneo scrittore, Giovanni Murineddu, aveva pubblicato con Albatros “L’agabbadora” (mutatis mutandis sulle trascrizioni dal dialetto) a cui aveva aggiunto l’azzeccato sottotitolo “La morte invocata”.
Incuriosita ho cercato su ogni store online l’opera, anche nelle biblioteche, senza successo. Niente, nemmeno usato. Era esaurito da tempo, anche la seconda ristampa. Infine me lo sono fatto prestare e mi sono immediatamente immersa nella storia dell’antesignana di Tzia Bonaria, ovvero Ghjuanna Pisanu che, nel libro di Giovanni Murineddu, è incaricata di portare il riposo eterno a Bastianu, uomo giusto e probo che sta soffrendo le pene dell’inferno a causa di una terribile malattia.
Leggendolo ho ritrovato da subito alcuni punti in comune con la storia di Michela Murgia. Anche qui una ragazzina che non conosce la vita e che viene accolta con amore dalla donna, il rituale del trapasso, eseguito con formule magiche e unguenti, il timor reverenziale delle persone ignoranti verso l’ombra nera temuta ma richiesta nelle case in certi momenti estremi. Anche Ghjuanna è una vedova, una persona mite che non riesce neanche a guardare quando scannano il maiale, una sorta di verginità di ritorno necessaria per essere una sacerdotessa pagana.
Il racconto di Giovanni Murineddu è ancora più filologicamente corretto in quanto Ghjuanna utilizza, per il suo “tocco finale”, non un cuscino con cui soffoca l’agonizzante bensì il martelletto che, dopo aver scelto il punto preciso, batte sulla tempia con un colpo secco e deciso.
Ma comprendo fin da subito perché quest’opera è stata destinata all’oblio d’oltremare mentre Michela Murgia ha vinto il Campiello. Lei costruisce una storia avvincente, in cui mette anche un po’ di morboso, comunque una narrazione che ha il suo centro e la sua circonferenza, con un linguaggio che scorre, a cominciare dall’incipit
“Fillus de anima”
che entra come una freccia nel cuore di chi si accinge a leggere. E l’accabadora è sempre presente, anche quando non c’è, anche quando Maria, questa disgraziata rifiutata dalla sua stessa madre, si allontana per non subirne più l’influenza. Il linguaggio è disseminato, sì, di parole sarde che fanno sentire ancora di più al lettore il fascino della distanza spazio-temporale, ma è comunque moderno, quella lingua con tante frasi che poi diventano citazioni alla Paulo Coelho.
Giovanni Murineddu è per contro un erudito che forse le Accabadore le conosce meglio di chiunque altro, però il suo raccontare è sgranato, non risponde a una unità di fondo, non arriva mai al dunque, si perde in vie laterali dietro a storie banali, con l’utilizzo di termini più adatti a un saggio che a un romanzo storico. Anche i dialoghi sono troppo forbiti, formali, non calzano ai personaggi presentati, gente semplice e un po’ ignorante. Un peccato, perché il Campiello avrebbe potuto vincerlo lui, con un po’ più di verve narrativa. Per quanto anche il libro di Michela Murgia mi abbia lasciata in più punti perplessa, soprattutto nella parte in cui narra il periodo di Maria al nord come bambinaia. Il viaggio in traghetto fino a Genova, poi, è liquidato in poche frasi, avrebbe potuto spenderci qualche riga in più. Quanti pensieri, quanti sentimenti escono quando si sta per ore a guardare il mare. E non ho mai capito il perché dell’episodio in cui la ragazzina mette sul capo il pane fatto a corona preparato per il matrimonio di sua sorella e si scopre il petto davanti allo specchio. Nell’economia della storia non ha nessun peso, quell’episodio, né serve a spiegare futuri sviluppi della personalità della ragazza. E così via.
In ogni caso, delle due accabadore vorrei che ci fosse uno scrittore sardo – bravo – che ne facesse una, che prendesse da entrambi i libri la crema producendo, senza però copiare, il suo piccolo capolavoro e lasciando di stucco tutti. Senza retorica, senza frasi a effetto. Allora quello sì, sarebbe un romanzo davvero degno di un premio.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: L’Accabadora... prima di Michela Murgia
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