La linea del silenzio. Storia della mia famiglia e di lotta armata
- Autore: Gianluca Peciola
- Genere: Romanzi e saggi storici
- Categoria: Narrativa Italiana
- Casa editrice: Solferino Libri
- Anno di pubblicazione: 2024
Come se le Brigate Rosse venissero da Marte. Come se fossero specie aliena, senza cuore, lutti, famiglie. Lacrime loro, oltre che armi. La retorica ammorba la politica e la lettura strumentale dei cosiddetti “Anni di piombo”. Quando si rimarca il dolore della lunga stagione di lotta anni Settanta, si fa esclusivo riferimento al dolore dei familiari delle vittime. Come se i mostri fossero solo i brigatisti, e i mostri di Stato dell’Italia occulta di quegli anni non c’entrassero. Come se la Repubblica italiana non fosse motore immobile e teatro senza quartiere di una guerra civile.
In altre parole: come se la scelta armata delle Brigate Rosse discendesse da folle partenogenesi, e la nazione non fosse quella delle stragi di Stato, degli apparti deviati, dei reazionari con la fissa del golpe alla sudamericana. Come se “terrorista” dovesse qualificare le BR, quando i terroristi veri erano altri, alcuni operanti all’interno di organizzazioni parallele: diffondevano terrore a casaccio, piazzando bombe nelle banche, nelle stazioni o sui treni.
La decontestualizzazione del fenomeno brigatista fa il paio con la mostrificazione degli appartenenti alla formazione armata: se non strumentale, la miopia storica di alcuni analisti suona come idiota, concentrata sui sintomi elude le vere ragioni del sovversivismo di quegli anni.
Arrivo al dunque: La linea del silenzio. Storia della mia famiglia e di lotta armata (Solferino, 2024) di Gianluca Peciola è un romanzo spesso. Umanista fino al punto da risultare lirico. E questo malgrado non receda di un passo dal resoconto romano degli scontri di piazza, dei vandalismi politici, dei morti ammazzati, del rapimento Moro, acme e de profundis insieme dell’azione brigatista. Un romanzo impregnato (vivaddio) dell’epos dolente, intimo e collettivo del lungo Sessantotto.
La linea del silenzio. Storia della mia famiglia e di lotta armata è la storia autobiografica dell’autore; una storia minima e massima, irrisolta, risoluta, risolta col tempo e nel tempo. Una storia come tante e come tante eccezionali degli anni della tigre (Adriana Faranda) e di rame (Erri De Luca), che la stereotipia insiste ancora ad appellare di piombo. Una storia percorsa da eco dei Settanta nel presente ottundente degli Ottanta, quando le regole sociali fascio-liberiste sono a un passo dall’essere dettate una volta e per sempre.
Pur avendo raggiunto l’età della ragione a guerra finita, Peciola, mantiene uno sguardo intonso sulla politica e sul mondo, comprovato da percorsi di militanza disarmata al pari della sorella, Anna Laura Braghetti, ombra lunga del romanzo, brigatista, e suo mentore civile e in fondo pedagogico. In parallelo alla vicenda armata – ma soprattutto umana, senza apologesi – di Laura, La linea del silenzio consulta l’album di famiglia di una famiglia romana (la famiglia dell’autore), coinvolta nella storia con la S maiuscola.
Una famiglia quasi topica del periodo, tradizionale e sui generis a suo modo, costretta via via a misurarsi con la trasformazione (privata e politico-sociale). Per dire: dagli sketch in bianco e nero di Vianello alle prime scemenze televisive delle reti berlusconiane. Dall’apologo sul rigore morale di Berlinguer al primo instaurarsi del tronfio socialismo craxiano. Dai consolidati segreti di famiglia ai segreti funzionali alla tutela della brigatista di famiglia.
Gianluca è molto più piccolo di Laura. Diciotto anni lo separano dalla sorella che ritrova paziente interlocutrice e complice dei suoi giochi. Quando finisce in carcere, a Gianluca viene detto che è a causa di un litigio stradale. Fatto sta che il bambino va a trovarla spesso con la madre nella prigione dove è rinchiusa, talmente spesso che la sua maturazione emotiva si misura coi rituali sopraffattivi del contesto carcerario – l’umiliazione delle perquisizioni, gli sguardi sbiechi e le allusioni dei secondini, il clima di sospetto e di controllo dei colloqui in parlatorio.
Laura non usufruisce di sconti di pena, sconta un ergastolo, e il tempo passa. Quando scopre che la sorella è tra i responsabili del rapimento Moro di cui è stata carceriera, Gianluca è ormai cresciuto, è diventato attivista politico fra le file di Autonomia Operaia.
Al netto di ulteriori esplicitazioni, La linea del silenzio declina fiammeggi e ricadute di disparate vite vere - dentro e fuori il consesso familiare-personale: attori, spettatori, protagonisti e comprimari della storia e della Storia -, concomitanti a una parabola di formazione politica e sentimentale che diventa parabola di una generazione chiamata a confrontarsi con la tentazione del conflitto armato.
Al netto dei complottismi e delle pigrizie analitiche, le pagine tra la 215 e la 220 si rivelano indicative per arrivare alle vere ragioni, e alle conseguenti strumentalizzazioni, della guerra civile combattuta fra i Settanta e gli Ottanta del Novecento nella sedicente Repubblica italiana delle stragi.
Il virgolettato riprende le parole di Anna Laura Braghetti al fratello, il resto inerisce al resto della narrazione:
“Gianluca, quello che non riescono ad accettare, quello che non possono ammettere, è che giovani tra i venti e i trent’anni abbiano tenuto in scacco lo Stato. Vogliono vedere la trama dei servizi segreti, l’infiltrato. Non si capacitano di quella che chiamano precisione militare, come se non appartenesse alla nostra organizzazione” (…)
Le istituzioni li avevano portati alla disfatta militare, la giustizia aveva inflitto e confermava ergastoli, ora una parte dello Stato voleva finire il lavoro: la storicizzazione delle loro azioni come mera questione penale. Dovevano consegnare alla storia ufficiale l’immagine della loro organizzazione come corpo estraneo alla sinistra e, in fondo, alla stessa politica.
I partiti principali della Prima repubblica avrebbero dovuto ammettere l’imperfezione delle istituzioni democratiche, l’esistenza di questioni sociali e visioni ideologiche, che non sono state in grado di governare e di capire (…) In particolare il Partito comunista non poteva ammettere l’esistenza di una filiazione illegittima, nell’album di famiglia della sinistra non dovevano apparire neanche sfocati, i volti di quanti nel nome del comunismo avevano intrapreso la lotta armata in un contesto democratico in cui il PCI era stato fondatore passando per la lotta di liberazione.
Il romanzo è pieno di grazia e di vigore, merito anche della scrittura, misurata e possente al tempo stesso, di cui è capace Gianluca Peciola.
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