Nel trentaquattresimo capitolo dei Promessi sposi troviamo la straziante descrizione della madre di Cecilia, una delle scene più toccanti della storia della letteratura. Le parole di Manzoni sono così evocative da dar luogo a un incontro, destinato a lasciare una traccia indelebile nella memoria del lettore: ecco che ce la troviamo davanti questa donna che avanza dignitosa, benché sia stata travolta dal dolore più grande che si possa immaginare, la perdita di un figlio.
La madre di Cecilia non ha nome, eppure è molto più che un personaggio, è una creatura di carta impregnata di un’umanità tanto viva e pietosa da apparire reale. Credo che ciascun lettore possa ricordare esattamente il momento in cui lesse la scena per la prima volta e fu travolto da un senso di compassione profondo, inesplicabile, che può accostarsi solamente a questa figura generata dalla penna manzoniana.
Il senso profondo della maternità, che nei prossimi giorni ci apprestiamo a celebrare con la tradizionale Festa della mamma, è tutto racchiuso nel dolore muto, raccolto, senza lacrime di questa donna che accompagna sua figlia, la piccola Cecilia, oltre la soglia estrema della vita mortale.
Il legame viscerale tra una madre e il suo bambino è raccontato da Manzoni con parole cariche di patimento dalle quali trapela un amore infinito, capace di andare ben oltre la morte. La madre di Cecilia non riesce a separarsi dalla sua bambina - la sua stessa identità di personaggio è infatti legata al suo nome, Cecilia - il distacco finale avviene come una strappo doloroso condensato in quella parola dal significato straziante e definitivo: “Addio!”
Se vi domandate: Cos’è una madre? la risposta la troverete nella dignità composta di questa donna, nei suoi gesti affettuosi che sembrano attraversare il tempo, lo spazio, le epoche, raccontandoci quel nocciolo profondo di amore che pulsa nel cuore vivente di tutte le creature mortali. La madre di Cecilia acconcia la sua bambina con cura, come se la stesse preparando a una festa, consapevole di consegnarla al Paradiso. C’è una forma di coraggio in lei, una fiamma d’ardore non sopita, mentre si rivolge al monatto con un tono imperioso: è consapevole che nessuno può consolare il suo dolore - lo stesso patito da Maria ai piedi della croce - e questo le conferisce un’aura quasi divina.
Su di lei Alessandro Manzoni stende il velo della Divina Provvidenza, lasciando trapelare un bagliore di eternità. La madre di Cecilia ha fede e dunque ritroverà la sua figlioletta in Paradiso, perché, a differenza del terribile Don Rodrigo, lei non teme la morte.
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La garanzia provvidenziale della salvezza futura tuttavia non consola il lettore che rimane ghiacciato dal finale. Lo scrittore conclude il capitolo con una similitudine riprendendo il topos classico del fiore reciso, emblema della morte, spietata mietitrice che colpisce senza fare alcuna distinzione tra giovani o vecchi, tra puri di cuore e anime corrotte dal peccato.
Scopriamo testo, analisi e commento del brano più commovente dei Promessi Sposi.
La madre di Cecilia nei “Promessi Sposi”
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Scendeva dalla soglia d’uno di quegli usci, e veniva verso il convoglio, una donna, il cui aspetto annunziava una giovinezza avanzata, ma non trascorsa; e vi traspariva una bellezza velata e offuscata, ma non guasta, da una gran passione, e da un languor mortale: quella bellezza molle a un tempo e maestosa, che brilla nel sangue lombardo.
La sua andatura era affaticata, ma non cascante; gli occhi non davan lacrime, ma portavan segno d’averne sparse tante; c’era in quel dolore un non so che di pacato e di profondo, che attestava un’anima tutta consapevole e presente a sentirlo.Ma non era il solo suo aspetto che, tra tante miserie, la indicasse così particolarmente alla pietà, e ravvivasse per lei quel sentimento ormai stracco e ammortito ne’ cuori. Portava essa in collo una bambina di forse nov’anni, morta; ma tutta ben accomodata, co’ capelli divisi sulla fronte, con un vestito bianchissimo, come se quelle mani l’avessero adornata per una festa promessa da tanto tempo, e data per premio. Né la teneva a giacere, ma sorretta, a sedere sur un braccio, col petto appoggiato al petto, come se fosse stata viva; se non che una manina bianca a guisa di cera spenzolava da una parte, con una certa inanimata gravezza, e il capo posava sull’omero della madre, con un abbandono più forte del sonno: della madre, ché, se anche la somiglianza de’ volti non n’avesse fatto fede, l’avrebbe detto chiaramente quello de’ due ch’esprimeva ancora un sentimento.
Un turpe monatto andò per levarle la bambina dalle braccia, con una specie però d’insolito rispetto, con un’esitazione involontaria. Ma quella, tirandosi indietro, senza però mostrare sdegno né disprezzo, – No! – disse: – non me la toccate per ora; devo metterla io su quel carro: prendete -.
Così dicendo, aprì una mano, fece vedere una borsa, e la lasciò cadere in quella che il monatto le tese. Poi continuò: – Promettetemi di non levarle un filo d’intorno, né di lasciar che altri ardisca di farlo, e di metterla sotto terra così.Il monatto si mise una mano al petto; e poi, tutto premuroso, e quasi ossequioso, più per il nuovo sentimento da cui era come soggiogato, che per l’inaspettata ricompensa, s’affaccendò a far un po’ di posto sul carro per la morticina.
La madre, dato a questa un bacio in fronte, la mise lì come sur un letto, ce l’accomodò, le stese sopra un panno bianco, e disse l’ultime parole: – Addio, Cecilia! riposa in pace! Stasera verremo anche noi, per restar sempre insieme. Prega intanto per noi; ch’io pregherò per te e per gli altri -.
Poi voltatasi di nuovo al monatto, – Voi, – disse, – passando di qui verso sera, salirete a prendere anche me, e non me sola.Così detto, rientrò in casa, e, un momento dopo, s’affacciò alla finestra, tenendo in collo un’altra bambina più piccola, viva, ma coi segni della morte in volto. Stette a contemplare quelle così indegne esequie della prima, finché il carro non si mosse, finché lo poté vedere; poi disparve. E che altro poté fare, se non posar sul letto l’unica che le rimaneva, e mettersele accanto per morire insieme?
Come il fiore già rigoglioso sullo stelo cade insieme col fiorellino ancora in boccia, al passar della falce che pareggia tutte l’erbe del prato.
La madre di Cecilia: analisi e commento
La scena si svolge nella Milano del 1630, sconvolta dall’imperversare dell’epidemia di peste. Renzo Tramaglino, giunto nel capoluogo lombardo per consegnare una lettera a Fra Cristoforo, si aggira sperduto per la città attraversata dai carri funebri e dal trillare lugubre dei campanelli dei monatti, quand’ecco che assiste a un episodio straziante.
Sta per svoltare all’angolo di una via quando si ferma, trafitto dal frastuono sordo dei monatti che entrano ed escono dalle case per trasportare i cadaveri dei morti di peste.
Manzoni sceglie di raccontarci la morte da una prospettiva singolare, che ci tocca nel profondo, focalizzandosi sulla precoce dipartita di una bambina di appena nove anni, di nome Cecilia. In mezzo a tutto quel trambusto infatti lo sguardo di Renzo si sofferma su una figura che se ne sta in disparte, in silenzio, e che i suoi occhi non possono fare a meno di contemplare.
Esce in quel momento dall’uscio di una delle case una donna che stringe tra le braccia una bambina. Manzoni non ci annuncia subito la presenza della piccola, si sofferma dapprima sulla descrizione della madre che appare segnata dal dolore, ogni cosa in lei urla tristezza persino senza la presenza di lacrime; il suo viso, del resto, dava già segno di “averne sparse tante.”
La descrizione della madre di Cecilia non procede per accumulo, ma per negazioni scandita da quei “non” ripetuti: non piange, non ha un’andatura cascante e nel suo dolore c’è un “non so che di pacato”.
Lo scrittore ne mette in risalto la bellezza accostandola, con un paragone inatteso, a quella della regione lombarda afflitta dalla pestilenza. Il “sangue lombardo” brilla dentro la donna come un elisir prezioso, sottolineandone la forza e la dignità nel dolore.
Da quella visione inattesa Renzo rimane come pietrificato, soprattutto quando nota la presenza della bambina morta che la donna porta al collo stringendola come se fosse ancora viva. Nessuno dice che è lei la madre della piccola creatura; ma lo si può comprendere dai gesti e dall’amore incondizionato che trapela in ogni azione, dalla sofferenza ritratta sul volto della donna divenuto ormai una maschera compatta di dolore, eppure vivo in ogni sua espressione:
Anche la somiglianza de’ volti non n’avesse fatto fede, l’avrebbe detto chiaramente quello de’ due ch’esprimeva ancora un sentimento.
Manzoni con ineffabile lirismo gioca sul contrasto straziante tra morte e vita, ma soprattutto ci consegna, attraverso il personaggio della madre di Cecilia, un grande esempio di dignità e coraggio. Questa donna umile, una semplice donna del popolo, affronta la morte con un decoro, un senso di civiltà sconosciuto persino all’aristocratico Don Rodrigo che invece si dispera all’apparire del primo bubbone della peste.
La madre di Cecilia non teme di morire perché ha già affrontato una sofferenza superiore alla sua stessa morte: la perdita della figlioletta. Cionostante questa donna non urla, non piange, non strepita, affronta l’inenarrabile con una compostezza che lascia impietrito persino il “turpe monatto” che neppure osa strapparle la figlia dalle braccia.
Con fede la donna accompagna la piccola Cecilia sul carro, le dà l’ultimo saluto con un bacio, ma nel farlo le promette che si rivedranno presto, perché esiste un aldilà.
C’è qualcosa di sacrale nei gesti della donna: sembra accompagnare la figlia oltre la soglia del mondo conosciuto e consacrarla, come un agnellino all’altare, a un universo superiore. Da notare anche la compassione di Manzoni che trapela nella scelta accurata dei termini e del lessico, descrive Cecilia non come “la morta” ma come “la morticina”, quasi volesse rivolgerle una carezza pietosa, stemperare la tragedia con l’uso di un vezzeggiativo.
Il finale, più straziante, ci mostra la donna affacciarsi alla finestra con un’altra bambina in braccio, più piccola ma viva, che porta già su di sé i segni della malattia e della morte imminente. Capiamo che Cecilia non sarà la sola a morire - e questa certezza ci riempie di una pena indicibile. La madre, però, ha accettato questo destino con una lucidità che contrappone la razionalità al caos, la civiltà alle barbarie, la forza della fede al baratro della paura e dell’angoscia.
Manzoni chiude il capitolo con una metafora di virgiliana memoria:
Come il fiore già rigoglioso sullo stelo cade insieme col fiorellino ancora in boccia, al passare della falce che pareggia tutte l’erbe del prato
Il trionfo della “Morte nera”, le peste, viene descritto come il movimento della falce che in un solo movimento taglia tutte le erbe del prato, anche i fiorellini in boccio che non potranno mai vedere schiudersi le loro corolle alla luce. In questo riferimento, che in parte esclude l’accenno consolatorio alla Provvidenza Divina, troviamo messa in parole tutta l’ingiustizia della morte che non guarda in faccia nessuno e colpisce come un’implacabile mietitrice anche i bambini, anche i buoni, anche i giusti.
Nella figura della madre di Cecilia, Alessandro Manzoni racchiude un esempio luminoso di dignità umana. In uno scenario desolante, apocalittico in cui la morte è ormai divenuta un rito stanco, svuotato del suo stesso valore (i monatti caricano e scaricano i cadaveri dai carri tra urla e risate), l’abile penna dello scrittore riesce a riaccendere, tramite la madre di Cecilia, un senso profondo di pietà: “quel sentimento ormai stanco nei cuori.”
Si tratta di un personaggio che non ha nome e appare per lo spazio breve di una sola scena; eppure il suo ricordo rimane, e sembra essere l’emblema di tutte le madri, del significato supremo di amore e di cura che trascende persino il limite dell’umano e del mortale divenendo qualcosa di più grande, di inenarrabile, di assolutamente misericordioso.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: La madre di Cecilia raccontata da Alessandro Manzoni
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