Raccontare storie richiede la qualità di saper leggere nell’animo, di sentirne i palpiti e trasformarli in linguaggio allo scopo di contagiare e coinvolgere il lettore attraverso lo stupore e la meraviglia. Gesualdo Bufalino, narrando, restituisce alla “parola” la sua magia, che è bellezza inesausta rispetto alle lacerazioni ideologiche, e infonde una sorta di innamoramento nei riguardi del suoi moduli espressivi, custodi di menzogne e di verità, di giochi, di ironie e di poesia in cui agisce una iperletterarietà che si annoda con le più scottanti problematiche esistenziali.
Con L’uomo invaso e altre invenzioni (Milano, Bompiani, 1986) l’autore ci consegna ventidue racconti di varia estensione, ricchi di alta inventività con un linguaggio asciutto e stringato che, mantenendosi distante dalla sfera emozionale perché pensati nell’ambito dell’allegoria, coinvolge e rapisce.
Esperto indagatore della psiche, in un’atmosfera fiabesca o di “moralità leggendarie” affresca gli enigmi della condizione umana attraverso composite strategie attraversate dal senso del malinconico: esse vanno dal comico al fantastico, dallo storico e filosofico all’apologo.
Il ventaglio tematico è ad ampio raggio con ascendenze che fanno pensare a Maupassant, a Cechov e soprattutto a Pirandello.
Del drammaturgo e scrittore agrigentino, si sa, è l’umorismo a manifestarsi nel sentimento del contrario e pare che sia questa particolare modalità esistenziale ad assumere la tragicità del destino e a costituire il filo conduttore del libro.
Il quinto racconto, che si intitola Morte di Giufà, ha un incipit accattivante dal gusto autobiografico, orientato a informare il lettore della conoscenza, in primo luogo, di cui dispone della novella, trascritta da Giuseppe Pitré e trasmessa da narrante a narrante, La statua di gesso:
Storie di Giufà, ne so tante. Di quella volta che vendette una pezza di tela d’Olanda a una statua… E quando sua madre, andando alla predica, gli disse di cuocere due fave, e lui la prese in parola e due veramente ne mise sul fuoco; poi, per sentirle di sale, se le mangiò… E quando sua madre, mentre guardava il granaio dai ladri, li volse in fuga col parlare e rispondersi da solo, che pareva un esercito di carabinieri a cavallo…
La morte di Giufà di Gesualdo Bufalino: analisi
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Dopo questa sorta di preambolo, rivolgendosi ai lettori dice che racconterà della sua morte. E Bufalino muove dall’infanzia del personaggio: da quando, ragazzo, conosceva già il segreto di addormentare la fame.
Vive nella masseria Giufà e trova rifugio nel fienile: una vita pellegrina la sua.
Era ancora garzone quando passò Garibaldi… era ancora di prima barba quando vide il brigante Salibba sparato fra i sugheri, con un bastoncello di cerano nel pugno e un cane accanto, che gli leccava il sangue sul viso...
Ma la sua, commenta il nostro scrittore, non è stata una vita propriamente difficile, condotta a contatto con la natura e come viandante di borgo in borgo.
Bufalino col gusto dell’enfasi, che unisce incantesimo e stupore onirico, si sbizzarrisce a delinearla, elogiando il suo essere libero da vincoli per poi smentire la comune credenza di un “Giufà sciocco” e porre il risalto il suo candore, totalmente aderente alla realtà:
Dicono ch’è sciocco di mente, Giufà, ma non è vero oppure è vero a metà. E’ ch’egli crede con abbandono all’evidenza e all’innocenza delle sue parole: se designano una cosa, per lui sono quella, né più né meno. Senza i viziosi drappeggi di cui l’uomo le ha rivestite nei secoli. Sicché, quando gli comandano “due fave”, due veramente ne cuoce; quando gli raccomandano di tirarsi dietro l’uscio prima d’uscire, obbedisce volenteroso, e lo tira, lo tira, fino al punto di strapparlo dai cardini e trascinarselo via…
Le ragazze si raccontavano “per sfizio o riso” le sue favole mentre tessevano sulle soglie dei dammusi. La strada era allora il luogo d’incontro del buon vicinato.
Ed è a questo punto che la narrazione, nella sua luminosità, ha il gusto russoviano di un primitivo contatto con la natura fino ad aprirsi all’attesa della “Corsa Grande” di cui Giufà, avendo vissuto una vita agreste, non sa nulla.
Il narratore, di nuovo, lascia libera di espandersi la “Voce” che lo tratteggia nell’epoca nuova dello sviluppo industriale:
Giufà non sa leggere, della gara non sa niente. Il suo sentimento è rivolto tutto a una pingue gallina e a un uovo caldo nel buio...
Con un linguaggio volutamente nostalgico ed evocativo lo presenta da giovane quando si abbandonava ai rapporti amorosi, ed è questa la pagina maliziosa del racconto in cui la chiusura, pressoché pirandelliana, è affidata ad una visione magica:
C’era una luna su Girgenti, quella notte, c’era una luna...
L’età di Giufà nel racconto di Gesualdo Bufalino
C’è un elemento significativo nel racconto: malgrado l’età di Giufà possa ritenersi invariabile per la sua inalterata ed eterna giovinezza, Bufalino introduce una distinzione tra “quando era giovane” e “quando è vecchio”.
Il giovane Giufà ha vissuto una vivace festosità e la sua vita, in fin dei conti non è stata brutta: l’ha vissuta bighellonando di campagna in campagna, di paese in paese con tante voci d’uomo che l’io lirico e barocco di Bufalino esalta, destando meraviglia e il sentimento della voglia di vivere:
Che suono amoroso ha la voce umana, che concerto amoroso è la vita, eseguito da una banda di mille e mille strumenti, frulli d’ali, gorgoglio di torrenti, vento notturno fra le case… un concerto di crepiti, bramiti, aneliti, uggiolii, un concerto ch’è di uomini e bestie, di terra, aria e mare, ma che finalmente è la musica stessa, ineffabile, del vivere…
Da vecchio, non sapendo più che fare, Giufà si ripassa il consuntivo della sua vita. E ripensa a un “carro di ferro” che aveva visto alla fiera attraversare i tornanti a gran velocità. Il nuovo ambiente ora esercita nel suo animo un rapporto di estraneità: non gli appartiene e nostalgicamente evoca sequenze visive e uditive, ponendosi a stretto contatto con la terra materna:
Uno stesso fragore e luci uguali crede ora d’udire e vedere, Giufà, appoggiando a terra l’orecchio e spiando fra il fogliame, benché dell’orecchio e dell’occhio suo si fidi assai poco, da un tempo in qua… lui che sapeva ad ogni primavera, steso supino sul prato, avvertire il fruscio dell’erba che cresce, cogliere da lontano con un sasso il guizzo d’una lucertola. Ma i giorni vengono e passano, la barba s’è fatta bianca, come sei cambiato, Giufà…
Le “macchine mobili” lo spaventano; avverte il malessere di tutta la terra; accecato da due fari che l’abbagliano, capisce che deve starne lontano, ma corre incontro al suo destino mentre sente che la gallina rubata e nascosta in petto perde il suo calore: una volontà sovrumana, oscura ed astuta, che muove le vicende anche là dove sembrano verificarsi per pura casualità.
Intensa la partecipazione del narrante ai fatti, descritti con una strategia veloce di fotogrammi avvolti da un velo di tristezza, che precedono la sua morte:
Capisce che deve scappare e per un istante lo vuole, ma si sente da quegli occhi cercato, voluto. Allora corre incontro al nemico e non sa perché, corre incontro al diavolo a braccia aperte (Giufà, fermati, dove vai? Quell’ingegno di ferro non t’appartiene, l’hanno inventato gli altri contro di te, contro la tua felicità rusticana…), corre incontro al diavolo senza segnarsi, sente con ira e stupore le quattro zampe impennarglisi sopra e ricadergli sul petto, schiantargli le ossa, sbriciolargli insieme alle costole, nascosto fra pelle e camicia, il bottino d’una gallina…
Era il 6 maggio 1906, giorno della prima Targa Florio, ma Giufà che ne sapeva?
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Con il tramonto imminente della società contadina finisce il lungo ciclo di Giufà, simbolo dell’anima del villaggio, e finiscono le favole e i miti che si narravano attorno al braciere: il sapore della vita si capovolge nella morte; pesante il prezzo da pagare nel passaggio da un’epoca ad un’altra. In sostanza, è il progresso tecnologico a causare l’epilogo di Giufà: la sua scomparsa dalla scena, che si chiude con la solennità di un poema epico, non può che dolere, perché in fondo il personaggio aveva educato intere generazioni a guardare con l’umorismo in profondità la realtà. Muore Giufà in modo coerente con la sua visione del mondo: non riconoscendosi più nel nuovo che avanza.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: La morte di Giufà nel racconto di Gesualdo Bufalino: un’analisi
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