In vista della giornata dedicata al ricordo dei morti (2 novembre) il poeta indiano Rabindranath Tagore ci illumina con una toccante poesia che lascia cadere sull’evento estremo una luce inedita e assegna alla morte un significato nuovo e sorprendente.
L’esperienza della morte diventa, infatti, in questo componimento di Tagore, l’occasione per un incontro con il divino che – come spiega il titolo completo – ha portato un richiamo nella casa del poeta, attraverso il suo messaggero.
Risuona alla mente la sua frase "La morte non è una luce che si spegne. È mettere fuori la lampada perché è arrivata l’alba". La fine della vita terrena per il poeta è momento di passaggio e ricongiunzione con una realtà più grande e onnicomprensiva che Rabindranath Tagore (Calcutta, 7 maggio 1861 – Calcutta, 7 agosto 1941), facendo tesoro degli insegnamenti delle Upanishad, ritrovava nei cieli sconfinati, nelle multiformi creature della natura ma anche nel fondo della coscienza.
La morte ha recato alla mia casa il Tuo richiamo di Rabindranath Tagore compare per la prima volta come poesia LXXXVI del volume Gitanjali (Offerte di canti) nel 1912 ed è stata poi inserita nella più ampia Raccolta di poesie e testi teatrali (1951).
La morte di Rabindranath Tagore: testo inglese della poesia
Death, thy servant, is at my door.
He has crossed the unknown sea
and brought thy call to my home.
The night is dark and my heart is fearful
yet I will take up the lamp, open my gates
and bow to him my welcome.
It is thy messenger who stands at my door.
I will worship him with folded hands, and with tears.
I will worship him placing at his feet
the treasure of my heart.
He will go back with his errand done,
leaving a dark shadow on my morning;
and in my desolate home
only my forlorn self will remain
as my last offering to thee.
La morte di Rabindranath Tagore: la traduzione italiana del testo poetico
La morte, Tua serva, è alla mia porta.
Ha attraversato il mare sconosciuto
e ha portato alla mia casa il Tuo richiamo.
La notte è buia e il mio cuore è pieno di paura
eppure solleverò la lampada, aprirò le porte
e m’inchinerò a lei, accogliendola.
È il tuo messaggero che sta alla mia porta,
l’adorerò con mani giunte, e lacrime.
L’adorerò ponendo ai suoi piedi
il tesoro del mio cuore.
Se ne tornerà a casa, con la sua missione compiuta,
lasciando un’ombra scura sul mio mattino;
e nella mia casa desolata
resterà solo il mio corpo abbandonato
come mia ultima offerta a Te.
I temi della raccolta Gitanjali, con la quale Tagore vinse il Premio Nobel
Come molti altri testi poetici di Rabindranath Tagore anche La morte fu scritta originariamente in bengali, la lingua più melodiosa di tutto il subcontinente indiano, che tanto bene si presta al canto. Il poeta, infatti, scriveva i suoi testi perché venissero intonati quasi come litanie e non perché si recitassero. Egli stesso, poi, li traduceva in inglese per pubblicarli e per garantirne una più ampia diffusione.
Acclamato, quando ricevette il Nobel, nel 1913, per la sua profonda sensibilità, per la bellezza e la freschezza dei suoi versi che, grazie alle sue stesse traduzioni in inglese, divennero parte della letteratura occidentale, Rabindranath Tagore conquistò il prestigioso premio con Gitanjali, un volume di poesie che riscosse anche l’apprezzamento di William Butler Yeats, che ne firmò l’Introduzione. Le 157 poesie (103 nell’edizione in lingua inglese) che compongono la raccolta, tra le quali compare anche La morte, furono composte da Tagore tra il 1910 e il 1913, dopo la perdita della moglie, di una figlia e di un figlio.
Per comprendere gli intenti di questo testo occorre guardare alla vita e all’educazione di Rabindranath Tagore: egli è animato da una profonda religiosità che apprese dal nonno e dal padre: il primo era un principe che aveva fondato un movimento teistico, ispirato da idee sia cristiane che islamiche, del quale il secondo fu uno dei capi.
Tagore, poi, rielaborò in modo originale gli insegnamenti familiari: molto affascinato dalla natura, che contemplava con sguardo mistico, giunse con la sua riflessione a una visione panteistica dove un unico principio, un Assoluto onnipresente, si esprime tanto negli elementi naturali che nella conoscenza individuale. Tagore concilia questa sua visione cosmica con i testi filosofici delle Upanishad e con l’educazione ricevuta e giunge così alla ricerca di un Dio che abita ogni aspetto della realtà, nelle creature naturali come nei sospiri degli umili, al canto di una vita che viene accettata in ogni suo aspetto.
Non ci sono caste o classe sociali nell’universo di Tagore, ogni creatura, ogni fenomeno ha un suo splendore, una sua bellezza che egli vuole esprimere con la parola. Il poeta rimane estasiato dagli spettacoli della natura, benigni o preoccupanti che siano: canta l’attesa impaziente del monsone e il cupo amore delle nubi che fa gemere la foresta tutta; elogia il Sole, come immagine visibile della potenza dell’universo. Lo stesso avviene nel mondo umano di Tagore dove l’incontro tra un rude afgano e una bambina bengalese si trasforma in una commovente danza dei ricordi e della nostalgia, o dove gli umili e i derelitti, diventano custodi e segni del divino.
Comprendiamo bene, allora, perché la raccolta Gitanjali abbia tra i suoi temi portanti una devozione che trova ispirazione in antiche formule rituali indiane e si volge alla natura, alle sue creature, alla vita stessa. Altri componimenti cantano l’amore, altri ancora il dissidio che l’uomo può vivere quando deve scegliere tra contemplazione spirituale e desiderio dei beni terreni.
Analisi e significato de La morte di Rabindranath Tagore
In questo struggente componimento Tagore, innamorato di Dio, al quale ha già offerto la sua anima, si mostra pronto ad offrire la sua vita alla morte. Di questo evento il poeta ha una visione originale e anticonformista: essa non è la negazione della vita, ma il varco attraverso il quale la vita si rinnova continuamente.
Per questo Tagore accoglie benevolmente la morte, la personifica, ne fa un servo del divino, un messaggero che è giunto alla sua porta dopo aver attraversato un mare infinito, sconosciuto per recare un richiamo che, nella sua inevitabilità, il poeta accoglie con mani giunte, con gratitudine.
Non si tratta di una scelta semplice, il cuore di Tagore, che qui mostra tutta la sua umanità, è ricolmo di paura ma il poeta compie la scelta coraggiosa dell’ospitalità, dell’accoglienza che gli fa aprire i battenti della propria casa. Egli si inchina, anche, riverisce umilmente colei che prima aveva definito “servo”, per sottolineare l’inevitabilità della circostanza, ma non si oppone, anzi si prostra in un gesto di adorazione che lo porta a offrire la sua stessa vita, il tesoro più prezioso del suo cuore.
Si tratta di un atto di accettazione profonda di una necessità che potremmo definire naturale, di un ciclo che si ripete e al quale il poeta partecipa consapevolmente.
Quando la morte avrà compiuto il suo ufficio gli effetti saranno durevoli, anzi indelebili: avrà gettato un’ombra scura sul mattino dell’esistenza del poeta, come di ogni altra creatura, è l’ombra della desolazione di una casa ormai vuota, dove rimane un corpo esanime e abbandonato, simbolo dell’offerta estrema che ogni mortale tributa al divino, alle forze cosmiche che governano la natura.
Ne La morte Rabindranath Tagore evoca, dunque, le emozioni profonde che la fine dell’esistenza suscita nell’uomo e offre una riflessione, ricca di afflato religioso, sull’accettazione dell’inevitabile conclusione del cammino terreno.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “La morte” di Tagore: analisi e significato della poesia sulla fine accolta
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