Alba de Céspedes è nota come scrittrice di opere in prosa, ma nasceva come poeta. Il suo primo scritto, composto all’età di sei anni, riguardava la condizione delle donne operaie. Quella poesiola stupì molto il padre di De Céspedes che riconobbe il talento della figlia per la scrittura e la invitò a continuare, ben sapendo che quella strada letteraria sarebbe stata difficile e tortuosa per una donna.
Lei quella poesia gliel’aveva mostrata con vergogna, la considerava un “gioco segreto, proibito”, e si aspettava da lui un rimprovero, invece Carlos Manuel de Céspedes guardò la figlia e le domandò, serio: “Sei tu che hai scritto questa poesia?”. Lei per un attimo pensò di mentire, ma poi, vinta dal suo amore per la verità, gli rispose di sì a capo chino e subito aggiunse, scusandosi: “Ma non lo farò più”.
La poesia in questione, oggi conservata nel Fondo Alba de Céspedes, si intitolava La notte e riporta in calce la data “febbraio 1918”. In quei pochi versi la piccola de Céspedes parlava di donne povere, con le gonne logore, che dopo una faticosa giornata di lavoro trovavano il tempo per cullare e far addormentare i propri bambini con una ninnananna.
Come poteva Alba, una bambina figlia della buona borghesia, avere la capacità di osservare così nitidamente e con tale empatia la condizione delle donne operaie? Quella maturità dello sguardo stupì il padre, che riconobbe all’istante il talento precoce della figlia e lesse le sue parole con commozione, invitandola a proseguire il suo “gioco segreto”. Nasceva dunque così, come poeta, Alba de Céspedes che in seguito avrebbe pubblicato il suo primo racconto su Il giornale d’Italia firmandosi solo con il cognome e la “A” puntata del nome, mascherando il suo essere donna per avere il diritto alla scrittura.
Tra le tante opere di narrativa, De Céspedes avrebbe scritto anche poesie, pubblicando nel 1936 la prima raccolta dal titolo Prigionie e, trentasei anni dopo, Le ragazze di maggio (1971), un’antologia ispirata ai moti giovanili del 1968 che l’autrice osservava dalla sua casa di Parigi.
Questa raccolta scritta originariamente in francese, il cui titolo è appunto Chansons des filles de mai, di recente è stata pubblicata dalla casa editrice Mondadori in una nuova edizione e ci restituisce tutta l’ampiezza dello sguardo di Alba de Céspedes, la sua larghezza di vedute, la sua lungimiranza, che è poi la stessa di quella bambina di sei anni che, dall’interno di una villa sfarzosa, osservava la vita delle donne operaie, che lavoravano ferendosi le mani, e non era indifferente al loro sacrificio, alla loro fatica.
Con quegli stessi occhi la scrittrice, nei mesi di maggio e giugno 1968, osservava la rivolta degli studenti della Sorbona e i loro scontri con la polizia. Quella visione suscitò in lei lo stesso impeto, la stessa commozione dovuta al senso di impotenza che aveva provato da bambina dinnanzi alle donne “dalle gonne logore”. Ed ecco che guarda, osserva e, non potendo partecipare in prima persona, scrive poesie.
Lo sguardo di De Céspedes, ancora una volta, si focalizza sulle protagoniste femminili della vicenda: le studentesse, sono loro le ragazze del maggio che daranno il titolo all’intera raccolta.
Come osserva la stessa autrice nella prefazione del libro, quelle ragazze erano l’emblema di un “cambiamento”:
Più loquaci, le ragazze divenivano ai miei occhi le protagoniste di quella rivolta che fu il primo segno spontaneo e inequivocabile della lotta che sta cambiando la nostra società.
“Le ragazze di maggio” di Alba de Céspedes: analisi della poetica
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La penna di Alba de Céspedes si rende, ancora una volta, portavoce di una rivoluzione. La scrittrice dalla sua casa di Saint-Germain-des-Prés osserva i moti del 1968, ascolta le grida e le proteste e dà loro voce traducendoli in scrittura. Era il suo talento, sin da bambina: attraverso la penna riusciva a squarciare il velo dell’indifferenza.
Con i versi, quasi telegrafici, vorticosi e sfuggenti come gli avvenimenti di quei giorni che già dileguavano nel futuro, Alba esprime la cronaca diretta di quegli eventi irripetibili, specchio di una rivoluzione profonda che iniziava a manifestarsi nella società. Solo il ritmo della poesia poteva trasfondere in parole la mutevolezza del presente, tenere il fiato in quella forsennata corsa verso un domani possibile.
Le “ragazze di maggio” di de Céspedes sono un coro di voci, tante “personagge” che hanno anche il volto delle protagoniste dei suoi libri. Donne libere, non sottomesse, pronte ad esprimere le proprie idee con forza, se necessario.
Nella lirica 30 maggio 1968 Alba de Céspedes dà voce a una rivoluzione da cui si sente esclusa e, al contempo, partecipe. Non è più giovane ormai; ma il futuro che quelle ragazze e quei ragazzi accolgono è lo stesso in cui crede anche lei, per questo riconosce ai gesti dei giovani un’importanza indelebile, in fondo spianavano la strada a quel “domani” che lei stessa aveva annunciato, profetizzato e anticipato in tutti i suoi libri.
Scrive in un triste presagio:
O nostri figli di maggio,
eroi di notti crivellate di stelle
e percosse.
Ferro e acciaio si oppongono
alle rose dell’immaginazione.
La rivoluzione sarà sedata, eppure qualcosa è accaduto. Alba de Céspedes lo sa bene, lei che dell’immaginazione ha fatto il lavoro di tutta una vita a discapito del regime, a discapito della censura. Le sue parole oggi attraversano il tempo e hanno mantenuto intatto il loro valore sovversivo: ci dicono che anche lei è stata una ragazza di maggio.
Scopriamo ora testo originale e traduzione della poesia 30 maggio 1968, rappresentativa del volume Le ragazze di maggio.
“30 maggio 1968”: la poesia di Alba de Céspedes
Testo originale in francese | Testo in italiano (Trad. di Alice Figini) |
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Ce soir, notre quartier, sur la rive gauche, porte le deuil de ses rêves. Derrière les fenêtres sans lumière - orbites noires dans la pâleur des façads - des yeux vides de regards fixent les rues désertes. Encore un soir, le dernier, nous serons entre nous: les fous d’amour et de révolte. Cette rive sera encore la nôtre; à nous seuls, prison, ghetto, léproserie. Ils resterons sur la leur. Ils n’oseront pas traverser la frontière de la Seine. Ils nous reconnaissent le droit à cete veilée funèbre, à cette liberté surveillée — de loin — par une armée qui veille elle aussi, qui épie notre silence méprisant, inquiétant. Quartier Latin, les étudiants veillent dans la cour de la Sorbonne. La place de l’Odéon serre entre ses bras ronds cette belle nuit de printemps. Les mots des graffiti qui pavoisent les fac, circulent comme des feux follets parmi les tables du cafés tabac du boulevard Saint-Germain. Dans nos rues, coupables de complicité, les pavés-munitions arrachés ont été replacés hâtivement, sévèrement. C’est sur les mains de la jeunesse, sur les pierres de son chemin qu’ils rouleront demain, de l’autre rive, vers le week-end rassurant. Dans leurs mansardes autour de la Sorbonne, dans des chambres de bonne tapissées de posters — le regard fier du Che —, des garçons et des filles, armés de poésie et de colère, font l’amour avec un plaisir désespéré, mouillé des larmes. Ces garçons aux cheveux longs, ces filles aux les jupes courtes sont les citoyens de nos rues de la rive gauche. L’odeur âpre de leurs corps d’écoliers, est l’air même de notre quartier. Partout, dans le Sixième, sont affichés des tracts en forme de poèmes. Demain matin, de bonne heure, on les recouvrira avec des publicités de machines à laver det de frigidaires. Les hirondelles du Luxembourg poussent des cris d’adieu. Des pranches amassées sur le boulevard s’exhale un dernier relent de gaz; mais rien n’en restera lorsqu’ils viendront de l’autre rive se faire photographier, sur les squelettes des voitures brûlées. O nos enfants de mai, héros de nuits criblées d’étoiles et de coups. On oppose le fer et l’acier aux roses de l’imagination. Aux carrefours, le long des boulevards, les yeux perçants sur les toits des voitures de police; les paniers à salade, les ambulances, les hommes habillés, casqués, masqués de noir, les boucliers noirs; toute la panoplie sinistre de la répression est prête contre une révolution qui n’aura pas lieu. Les câbles du téléphone traversent le ciel silencieux: Littré, Odéon, Médicis ne répondent pas ce soir. Derrière nos fenêtres closes, près des téléphones muets, des transistors éteints, nous veillons en silence nos espoirs matraqués. Mais les gestes de nos enfants de mai restent — ineffaçables — dans l’air le temps l’espace de ce quartier, sur la rive gauche. |
Stasera, il nostro quartiere, sulla riva sinistra, piange la perdita dei suoi sogni. Dietro le finestre senza luce - orbite nere nelle facciate chiare - occhi vuoti fissano le strade deserte. Un’altra sera, l’ultima, saremo tra noi: pazzi d’amore e di rivolta. Questa riva sarà ancora nostra; solo per noi, prigione, ghetto, colonia di lebbrosi. Rimarranno sulla loro. Non oseranno attraversare il confine della Senna. Riconoscono il nostro diritto a questa veglia funebre, a questa libertà sorvegliata - da lontano - da un esercito che veglia anche osservando il nostro silenzio sprezzante, il nostro silenzio preoccupato. Nel Quartiere Latino, gli studenti sorvegliano il cortile della Sorbona. La piazza dell’Odéon abbraccia rotonda questa bella notte di primavera. Le parole dei graffiti che adornano le facciate circolano come un "testamento" tra i tavolini dei caffè-tabacchi sul Boulevard Saint-Germain. Nelle nostre strade, colpevoli di complicità, i sampietrini divelti sono stati frettolosamente sostituiti, gravemente. Sulle mani dei giovani, sulle pietre del loro cammino che domani rotoleranno, dall’altra parte, verso il rassicurante fine settimana. Nelle loro soffitte intorno alla Sorbona, nelle stanze delle cameriere tappezzate di manifesti - lo sguardo fiero del Che, ragazzi e ragazze, armati di poesia e di rabbia, fanno l’amore con piacere disperato, bagnati di lacrime. Ragazzi con i capelli lunghi, le ragazze con le gonne corte sono i cittadini delle nostre strade della riva sinistra. L’odore acre dei loro corpi di scolari, è l’aria stessa del nostro quartiere. Ovunque nel Sixième sono affissi volantini sotto forma di poesie. Domani mattina al mattino presto saranno coperti di pubblicità di lavatrici e frigoriferi. Le rondini del Lussemburgo gridano il loro addio. Dalle rive del boulevard un’ultima zaffata di gas; ma non ne resterà nulla quando arriveranno dall’altra sponda per essere fotografati, sugli scheletri delle auto bruciate. O nostri figli di maggio, eroi di notti crivellate di stelle e percosse. Ferro e acciaio si oppongono alle rose dell’immaginazione. Ai crocicchi, lungo i viali occhi che trafiggono sui tetti delle auto della polizia cesti di insalata, ambulanze, uomini vestiti, con il casco, mascherati di nero, scudi neri; l’intera panoplia sinistra di repressione è pronta contro una rivoluzione che non avrà mai luogo. I cavi telefonici attraversano il cielo silenzioso: Littré, Odéon, Médicis non rispondono stasera. Dietro le nostre finestre chiuse, vicino a telefoni muti, e transistor spenti, guardiamo in silenzio le nostre speranze deluse. Ma i gesti dei nostri figli di maggio rimangono - indelebili - nell’aria nel tempo, nello spazio di questo quartiere, sulla riva sinistra. |
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “Le ragazze di maggio”: la poetica rivoluzionaria di Alba de Céspedes
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