Immagine di copertina Credits: Paolo Monti, CC BY-SA 4.0, via Wikimedia Commons
Il 28 marzo 1991 si spegneva nella sua casa di Roma la scrittrice Livia De Stefani, grande penna del nostro Novecento letterario su cui nel tempo si è distesa una inoppugnabile coltre di oblio. Inghiottita in un buco nero, dimenticata come tante altre grandi narratrici del secolo scorso, Fausta Cialente o Laudomia Bonanni, scomparse dai manuali di letteratura ma ancora vive e palpitanti nelle pagine dei loro libri che ci forniscono un esempio altissimo di letteratura.
Livia De Stefani veniva dalla Sicilia arida delle vigne nere, era bella come un’attrice, colta, raffinata, una donna di discendenza aristocratica che sapeva come comportarsi nei salotti. Le foto d’epoca ci restituiscono il suo viso candido e levigato dai grandi occhi accesi, espressivi, simili a quelli della diva americana Joan Crawford.
Neppure la vecchiaia e la malattia avevano intaccato la sua bellezza né la sua voglia di vivere. Era spensierata e amava giocare con le nipoti nella casa di campagna poco lontana da Roma. Dietro quello sguardo angelico e pensoso si nascondeva, però, una personalità combattiva e tenace. Livia De Stefani fu una delle prime scrittrici italiane a denunciare il fenomeno della mafia: meriterebbe di essere ricordata al pari di Leonardo Sciascia. Ma era una donna; e non le spettò un simile onore, il suo destino fu tutt’altro. Scrisse sette romanzi e numerose poesie, molte delle quali sono rimaste ancora inedite. Altre pagine scritte sono catalogate, organizzate e ben riposte nei suoi ordinatissimi raccoglitori ora conservati dalle nipoti, forse nell’attesa che qualcuno vi posi lo sguardo. Perché una scrittrice torna a vivere ogni volta che le sue parole pulsano sotto gli occhi attenti di un lettore, non importa di quale epoca.
Livia De Stefani: la biografia
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Era nata a Palermo il 23 giugno 1913 da una nobile famiglia siciliana. La sua infanzia fu libera e selvatica, caratterizzata da un vivere randagio nel grande podere familiare. Ricevette un’ottima educazione e lei si rivelò una studentessa dotata che apprendeva velocemente, soprattutto le materie letterarie che sentiva più affini al suo essere. A otto anni compose la sua prima poesia. Ma la sua famiglia non apprezzava gli artisti: una donna artista poi, per loro non aveva ragion d’essere.
A diciassette anni Livia trovò la chiave della sua liberazione nel matrimonio. Con il marito Renato Signorini, nei primi anni Trenta, fuggì a Roma lontana da quella terra isolana e bellissima che tuttavia tendeva a incatenarla nelle proprie convinzioni, in un provincialismo che cominciava a starle stretto. A Roma trovò la propria dimensione, frequentò i circoli intellettuali - tra cui quello di Maria Bellonci - e poté sviluppare la propria naturale vocazione di scrittrice.
Il suo primo romanzo La vigna delle uve nere (1953), edito con la prefazione dello scrittore Carlo Levi, racconta proprio di una fuga ma di una fuga che non ammette perdono e quindi viene punita. Nel suo primo libro Livia denunciava una Sicilia dura e immobile, radicata sui suoi principi conservatori, dove i proprietari terrieri sono padroni non solo della terra ma della vita e della morte delle persone che vi abitano.
La vigna delle uve nere racconta la vicenda di Casimiro Badalamenti, il proprietario delle vigne, che insieme ai terreni coltiva anche loschi affari. Nella persona di Casimiro rivive una Sicilia ancestrale e quasi preistorica devota al codice d’onore che tende a recludere le donne in una soffocante clausura domestica e spegne le rivolte nel sangue. Casimiro rappresenta la figura dell’uomo padrone colto durante l’ascesa della sua carriera criminale: bestiale, intollerante, preferisce uccidere i suoi stessi figli pur di non esporsi al pubblico ludibrio.
Nel romanzo, De Stefani condensò il suo intero immaginario raffigurando la Sicilia che aveva vissuto e che aveva rischiato di schiacciare lei e il suo talento di scrittrice sotto il giogo di una società prettamente patriarcale.
I libri scomodi di Livia De Stefani
La vigna delle uve nere fu un grande successo di pubblico, venne tradotto in diverse lingue; ma in Italia il libro le procurò delle accuse per i temi trattati. Da siciliana fu accusata di denigrare la sua terra di origine e di ridurla a una concezione primitiva. Le sue parole così vere, così oneste, risultavano scomode: De Stefani denunciava un sistema ormai radicato che per anni era stato accettato in silenzio, soprattutto dalle donne. Lei tuttavia a quarant’anni aveva trovato la sua voce e non intendeva smettere di scrivere. Seguì la raccolta di racconti Gli affatturati (1955), il romanzo Passione di Rosa (1958) e i racconti di Viaggio di una sconosciuta (1963) riediti di recente dalla casa editrice romana Cliquot nel 2018.
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I personaggi narrati da De Stefani sono spesso scomodi, dannati, grotteschi: su ciascuno sembra pesare una sorta di maledizione, un presagio nefasto incombente. L’autrice doveva quell’immaginario alla terra “magica” e “mitica” dove era cresciuta, nella quale ancora rivivevano i miti pagani dall’antica Grecia: una Sicilia magica e demoniaca dove spesso la normalità sconfina nella follia.
I racconti di Viaggio di una sconosciuta ci offrono un importante compendio del pensiero di Livia De Stefani: sono storie ombrose che raccontano di aborti, maledizioni, violenze, fantasmi, amori clandestini e omosessualità. È forse l’opera più attuale e palpitante dell’autrice, caratterizzata anche da una profonda innovazione stilistica. Nel primo racconto, che dà il titolo all’intera raccolta, il punto di vista passa senza soluzione di continuità dalla prima alla terza persona, da una focalizzazione esterna a una interna, nel raccontarci di questa ragazza che vaga disorientata per le strade di Roma trascinando con sé una valigia troppo ingombrante. La valigia, in realtà, nasconde il suo segreto che ci viene rivelato soltanto nel finale. Sedotta e abbandonata la giovane ha abortito e nascosto suo figlio, cui avrebbe voluto mettere il nome di Agostino, nella valigia che porta con sé come il fardello della sua colpa.
È un racconto indimenticabile ed incisivo, capace di rimanere inciso nella memoria proprio per l’opprimente senso di angoscia che ispira. Di nuovo torna il tema della fuga, caro a De Stefani, ma in questo caso è solo apparente: la ragazza vaga sapendo di non poter davvero fuggire perché è stata schiacciata da una società che le ha impedito di essere libera. Il peso nella valigia - che non apre mai - è l’ostacolo che si porta dentro. La violenza raccontata da De Stefani in questo racconto è sottile e vischiosa, una sopraffazione costante da cui è impossibile liberarsi: non ci viene raccontata la violenza carnale sulla giovane, ma il peso del giudizio e dell’aspettativa sociale che talvolta può essere molto più greve.
Livia De Stefani e la denuncia della mafia
La straordinaria modernità di Livia De Stefani è quindi da ricercare in questo libro, che la renderebbe celebre nelle nuove generazioni e amatissima, forse al pari di Elsa Morante. Un mese prima della sua morte, nel 1991, Mondadori diede alle stampe il suo ultimo libro che recava un titolo fulminante: La mafia alle mie spalle che conteneva una denuncia ancora più incisiva di quella proposta ne La vigna delle uve nere. Era la prima volta che una scrittrice affrontava apertamente in un libro il potere mafioso. Livia De Stefani poteva vantare questo primato; ma forse era arrivata troppo presto, oppure risultò una narratrice scomoda perché era una donna. Il libro oggi è da tempo fuori catalogo. De Stefani, salvo alcune tardive riscoperte da parte di case editrici indipendenti, è stata inghiottita in un buco nero.
Chi decide il destino di una scrittrice? Forse è giunto il momento di riscattare Livia De Stefani da un lungo oblio stabilito dalle stesse logiche politiche e patriarcali che la scrittrice, attraverso la sua penna, aveva provato a combattere. Lei, come molte altre narratrici novecentesche, ingiustamente eliminata dal canone letterario, falciata con un colpo di penna dai cataloghi editoriali, marginalizzata: ma i libri sono lì, sono scritti, e finché gli occhi di un lettore si poseranno su quelle pagine la voce dissidente di Livia De Stefani vivrà ancora.
Lei, proprio lei, che era stata la prima scrittrice a denunciare la mafia e ogni abuso di potere, almeno rendiamole merito di questo primato.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Livia De Stefani: la scrittrice combattiva che denunciò la mafia e gli abusi di potere
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