
Ma io ti ho sempre salvato
- Autore: Luciano Violante
- Genere: Filosofia e Sociologia
- Categoria: Saggistica
- Casa editrice: Bollati Boringhieri
- Anno di pubblicazione: 2024
Ho letto con piacere “Ma io ti ho sempre salvato”. La maschera della morte e il nomos della vita (Bollati Boringhieri, 2024) con l’intento preciso di confrontarmi con l’autorevole Luciano Violante, partendo da una convinzione: colui che legge vivifica il messaggio contenuto nel testo interpretandolo e adeguandolo, in un gioco offensivo-difensivo, ossia una vera e propria lotta intellettuale. Si vuol dire che, nel momento in cui si intraprende una lettura attenta di un libro, come qui si è cercato di fare, non si può non intervenire su di esso proiettandovi anche emozioni ed esigenze personali. L’autore è colui che lancia il sasso, la sfida; sta al lettore raccoglierla, anche a costo di incorrere in una sorta di ‘tradimento creativo’ che non vuole essere solipsismo affabulatore, fuga per la tangente, dovuta a non comprensione del messaggio, ma ricodificazione del testo.
Entriamo subito in medias res dicendo che “sora morte” è ancora un tabù nel nostro contesto sociale. Se ne parla a fatica: all’autore, quando mostrava l’intenzione di scrivere un libro su “sora morte”, molti hanno obiettato “ma perché?”. Sale lo sgomento!
D’altra parte la rimozione della morte sembra essere una caratteristica della coscienza occidentale. E se andiamo un po’ in profondità ci accorgeremo che, forse, questo comportamento è tale perché ancora non si valorizza a sufficienza la vita! Vita e morte sono strettamente intrecciate, ma non lo si vuole accettare.
La vita, nelle sue molteplici sfaccettature, ci interpella, richiede molta più attenzione rispetto a quanto sembra emergere in questa ora storica. Il dovere di vivere, possibilmente maturando una buona dose di consapevolezza, ci induce inevitabilmente ad avere un rapporto – almeno accettabile – con la morte, e questo significa che dobbiamo re-imparare a mettere al centro la vita dal momento che essa, oggi, sembra essere in pericolo. La via maestra consiste nell’interrogarsi sul senso che essa possiede.
Luciano Violante sostiene che, senza alcuna pretesa teologica o filosofica,
la chiave della vita sta nel rapporto tra il bene e il male.
La riflessione è aperta. Lotta contro il male – interno ed esterno – per dirigersi verso la conquista del bene. Il male – che attanaglia da sempre la ragione umana – è immagliato nella natura stessa della nostra esistenza.
Le spiegazioni sono molteplici. Quella religiosa, quella filosofica, quella mitica e, potremmo aggiungere, quella psicoanalitica dal momento che, a mio parere, si integra bene con quella mitica.
La lettura dell’opera junghiana insegna quanto sia vitale attraversare la valle dell’ombra (A. Carotenuto, L’eclissi dello sguardo, Bompiani, Milano 1997). Il grande analista ha cercato di dimostrare che l’essere umano appartiene contemporaneamente a due mondi, quello della luce e quello della tenebra: comprendere che il bene e il male sono immagliati nell’Io apre al senso. Il confronto con l’ombra, per quanto doloroso, schiude la vita nova ed è per questo che esso è indispensabile per conoscersi meglio, per disegnare un nuovo orizzonte possibile, più vero perché ripulito dalle incrostazioni corrosive dell’Io. Risalire al bene, passando anche attraverso l’esperienza del calvario, vuol dire intraprendere la strada che porta alla redenzione, a una rinnovata, e quindi più autentica, iniziazione della realtà psichica.
Avvicinarsi all’ombra – per Jung – vuol dire anche familiarizzare con il limite: trascendere l’hybris prometeica (P. Sequeri, Contro gli idoli postmoderni, Lindau, Torino 2011) dell’Io per approdare alla consapevolezza della sua fragilità, del suo essere transitorio, mortale appunto.
Violante sembra aver aperto il sipario del nostro teatro interiore, ciò che gli ha permesso di approcciarsi alla vita con un io più vero, frutto di una meditazione interiore. Incontra la morte. La affronta. Non è attenzione alla vita questa?
Un tema forte di questa avvincente lettura è l’approfondimento indirizzato verso un tema oggi costantemente ripetuto ma quasi sempre banalizzato e cioè quello della perdita di attrattiva che ha subito la politica sia dal punto di vista teorico sia della sua pratica quotidiana.
La visione neoliberista oggi dominante finisce per “privatizzare” lo Stato, poiché i suoi funzionari abdicano (in maniera evidente o meno) alle loro prerogative dirigenziali per assoggettarsi alle decisioni delle vestali del capitale. Quest’ultimo detta le leggi che andranno a beneficio della solita pars, espropriando, ancora una volta, il ruolo che il δῆμος dovrebbe esercitare; riemergono nuove oligarchie, le cui ricchezze si ergono a scapito dei più che, guarda caso, vedono scemare opportunità e diritti. Luciano Gallino ha acutamente definito tale processo come “lotta di classe dall’alto” (L. Gallino, La lotta di classe dopo la lotta di classe, Laterza, Roma-Bari, 2012), disposta, questa volta, dalle élites dominanti che intendono recuperare ciò che hanno smarrito nei trent’anni successivi al secondo conflitto mondiale.
Questa contrazione della politica produce un deficit di speranza e quindi di futuro; eppure, scrive Violante – fraternizzando con gli abissi della soggettività – “è proprio della nostra natura guardare avanti”. Al riguardo la mia attenzione si sposta sugli adolescenti e sui giovani – perché essi dovrebbero esprimere il massimo di apertura alla vita –, sulla crisi profonda che essi proprio oggi, e in ragione di quanto appena sostenuto, stanno attraversando. Sia chiaro non parlo di crisi passeggere tipiche dell’età evolutiva, bensì di una vera e propria crisi culturale di quelli che sono i fondamentali della nostra società, e siccome la psiche è sana quando è aperta al futuro (M. Benasayag e G. Schmit, L’epoca delle passioni tristi, trad. it. di E. Missana, Feltrinelli, Milano 2004), alla terra promessa, dal momento che proprio quest’ultimo scompare dai palcoscenici terreni, l’energia vitale degli adolescenti e dei giovani finisce per implodere in una inerziale stagnazione nel presente. Nella civiltà occidentale è evidente la transizione da una fiducia senza limiti nei confronti del futuro a una diffidenza altrettanto estrema riguardo ad esso.
Non a caso Benedetto XVI nel 2007 pubblicò la Spe salvi, Lettera enciclica sulla speranza cristiana. Il Sommo Pontefice aveva colto con chiarezza una delle grandi angosce strutturali dell’uomo di oggi: la percezione di essere abbandonato in un universo ostile, insensato, dove ogni valore viene sacrificato sull’altare del nulla.
Restituire forza e significato al futuro – e su questo insiste Luciano Violante – vuol dire mettere al centro la vita.
La politica ‘con la P maiuscola’, al riguardo, può giocare un ruolo di primo piano. Però attenzione: la crisi delle evidenze etiche e delle ideologie, che erano state un punto di riferimento essenziale nella fase della ricostruzione postbellica, ha fatto traballare il “progetto politico”; se la loro forza viene meno, a poco a poco si erode il fondamento stesso del servizio politico e dei partiti (d’altra parte vi sono valori, principi e finalità che sono anteriori alla politica).
Se siamo convinti della sacralità della vita, come fatto irripetibile e irriproducibile, bisogna combattere per la vita con politiche di vita. Le politiche di valorizzazione della vita in governi ben orientati diventano biopolitiche.
Si presti attenzione a non attribuire a questo termine il significato che, ad esempio, gli aveva dato Michel Foucault.
Nel libro di Violante la biopolitica è quella politica che si interessa del welfare, del lavoro, della formazione, del salario, degli asili, della famiglia, della vecchiaia ecc. Queste ultime
non possono vivere disgiunte le une dalle altre perché hanno tutte insieme come riferimento persone viventi in carne ed ossa e che potrebbero migliorare o peggiorare la propria condizione umana qualora mancassero i necessari interventi pubblici.
Di qui la proposta, a mio parere deflagrante, di istituire una sorta di dipartimento di biopolitica o di politiche per la vita che raccordi tutte le iniziative che intendano riumanizzare l’uomo.
Riprendiamo il tema della speranza, dal momento che esso colora di significato l’esistenza del singolo. Nel libro giustamente leggiamo:
Non è facile nutrire speranza nel tempo che stiamo vivendo. L’orizzonte dell’umanità sembra ostruito. Le guerre, le preoccupazioni per lo stato del pianeta, le grandi diseguaglianze, la diffusione del rancore sociale, la debolezza delle democrazie nel mondo fanno sì che si pensa più a riparare il mondo che a trasformarlo. Tuttavia proprio in questi momenti è più forte la necessità della speranza, dell’agire per superare i limiti della condizione presente.
Speranza alla quale non possiamo che associare il concetto di utopia; anzi ripescare, ripulire, rispolverare il concetto di utopia. Fa bene Luciano Violante a inserire in questo suo scritto una sorta di chiarificazione semantica del concetto di utopia, che viene intesa non certo come pura fantasticheria, bensì come realistica prospettiva dell’azione umana protesa al futuro, il che corrisponde poi, almeno in parte, allo spirito utopico che ritroviamo presente in Thomas More. L’utopia di More è ben lungi dal farsi trasportare da ingiustificati entusiasmi: al contrario è sorretta da un’irriducibile speranza che permette all’individuo di lottare per l’avvento di una società più giusta partendo proprio dal mettere in discussione l’hic et nunc. L’utopia pensata come orizzonte possibile – lo sottolineo – di processi storici non più accettabili. La politica può rinnovarsi soltanto innervandosi di quello spirito utopico di tipo realistico che le consente di porre la vita al centro.
Il ruolo degli intellettuali è uno dei tanti temi trattati che mi ha colpito in modo particolare. Essere intellettuali comporta una responsabilità:
perché [l’intellettuale] può formare convincimenti, e quindi può ispirare azioni, comportamenti.
E poi ancora:
Gli intellettuali hanno il dovere e il diritto di agire come coscienza collettiva della nazione superando le divisioni determinate dalle appartenenze scientifiche o politiche interessandosi, quando ricorrono le circostanze, dei principi fondamentali.
Troppo spesso, tuttavia, nella contrada storica della quale facciamo parte, assistiamo alla supremazia del pensiero unico politicamente corretto e, si può aggiungere, eticamente corrotto che produce, alimentato da un clero intellettuale prono o comunque supino a visioni del mondo, grammatiche proprie della global class egemonica.
Il pensiero dissidente è, in ultima analisi, un pensiero libero a favore della vita, che rifiuta il primato della morte e che riporta l’uomo ai valori che scolpiscono la sua vera dignità.
Molto altro ci sarebbe da dire. Mi sono soffermato su quegli aspetti che hanno colpito maggiormente la mia attenzione, ma il testo è molto più denso di quanto ho potuto esporre sino ad ora. Chiedo al lettore, quindi, di portare a termine questa avvincente avventura intellettuale. Mi avvio alla conclusione.
Nella parte finale del volume Luciano Violante ricorda le sue morti: la nonna paterna, lo zio Nino, l’amata Giulia, scomparsa di recente; ogni relazione profonda implica un situare parti di sé nell’altro che, quando la persona cara se ne va, si perdono assieme a essa lasciando risonanze emozionali intense e dolorose. Questi accadimenti sconvolgono l’ordine abituale, aprono una breccia, cioè, alla perfetta intellegibilità degli eventi.
“Ma io ti ho sempre salvato!” dice la mamma a Luciano durante i giorni della gelida agonia che precedono il trapasso. Luciano ci spiega che ciò voleva dire che lei lo aveva salvato almeno due volte: dal campo di concentramento di Dire Daua e offrendo il suo corpo, in cambio della incolumità del proprio figlio. Leggendo con attenzione quanto ha scritto l’autore, ma soprattutto utilizzando l’intuizione come forma di conoscenza (seppur provvisoria e sfumata), sembra che vi sia anche una terza volta: la mamma, guidata dalle ragioni del cuore, ha inteso salvare Luciano con il silenzio. Un silenzio eloquente ma protettivo, che sostituisce la parola quando essa si fa indicibile perché avvolta da una tristezza dilagante. Il silenzio, racchiuso in una complessa rete di significati, ha comunicato a Luciano – in esso si avverte lo spirito accudente delle madri – che lui doveva stare lontano da quella dilaniante angoscia che gli echi del passato non smettevano di farsi sentire nelle membra della mamma.
Il silenzio insomma (o forse molti silenzi) ci permette di vedere ombre di mistero, di sfida, di salvezza come in un passo molto eloquente di Romano Guardini (Virtù, Morcelliana, Brescia 1972):
La parola è una delle forme fondamentali della vita umana; l’altra forma è il silenzio ed è un mistero altrettanto grande.
Chiudo questo percorso esistenziale, all’insegna della vita, con le parole dell’Autore esortando me stesso e tutti i lettori a
tornare ai fondamentali per riprendere le redini del nostro tempo.

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