Il viaggio è esperienza d’attesa, d’incontri e separazioni, di crescita, cui si giunge per prove e tragitti tortuosi. Come fu per Ulisse, il mare, tra vita e morte, in letteratura è luogo privilegiato del percorso esistenziale.
Nello scritto Lighea di Giuseppe Tomasi di Lampedusa (tratto da Racconti, Feltrinelli, 1969), il mare, dolce e amaro, si fa ventre materno quando l’inconsueto incontro con l’Ondina, dalle voluttuosa sembianze ferali e divine, si conclude in un’avventura amorosa che dà e toglie la vita.
Il mito di Lighea secondo Tomasi di Lampedusa
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Il sorriso, l’odore e la voce della sirena finiscono col conquistare il prof. La Ciura nel tratto dello Jonio che bagna la greca Megara Hiblaea. Il richiamo della sirena, “figlia di Calliope”, è suadente è ammaliante:
Tu sei bello e giovane; dovresti seguirmi adesso nel mare e scamperesti ai dolori, alla vecchiaia; verresti nella mia dimora, sotto gli altissimi monti di acque immote e oscure, dove tutto è silenziosa quiete tanto connaturata che chi la possiede non la avverte neppure. Io ti ho amato, e ricordalo, quando sarai stanco, quando non ne potrai proprio più, non avrai che sporgerti sul mare e chiamarmi: io sarò sempre là, perché sono sempre ovunque, e la tua sete di sonno sarà saziata.
È il sogno e l’oblio di Thànatos che appaiono nei luoghi della mitologia. Don Fabrizio che nel Gattopardo aveva conosciuto l’astronomia spinto dal bisogno d’inseguire l’irraggiungibile, ora nei panni del grecista La Ciura sperimenta una fine abbellita dalla presenza di una figura onirica, ingannevole e fittizia.
La bella e snella signora, apparsa al principe nel momento dell’agonia, viene ritrovata nella sirena “senza accidenti” per il bisogno, forse, che di un’eutanasia che gli faciliti l’inaccettata separazione dalla vita. Adesso il lugubre scenario della “rannicchiata” Donnafugata si stempera nel sortilegio del mare di Sicilia: “il più colorito e il più romantico”, dove l’immaginazione fa percorrere la rotta additata da Lighea verso “placide” zone atemporali.
Lo scenario marino di D’Arrigo in “Horcinus Orca”
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Nella luminosa oniricità giunge l’ombra dello scenario marino di Stefano D’Arrigo che fa sentire l’angoscia di una morte cruda e feroce, tutta compendiata nell’immagine d’un mostro apocalittico.
Siamo nel grande romanzo Horcinus Orca (Mondadori, Milano, 1975), dove i fatti si svolgono dal primo all’otto ottobre 1943. Vediamone la fabula e gli intrecci ridotti all’essenziale, essendo molteplici le digressioni che vi si trovano, tali da rendere difficoltosa la lettura (Per l’approfondimento il bel libro di Marco Trainito “Il codice d’Arrigo”, 2010). A terrorizzare la comunità dei pescatori:
Era l’Orca, quella che dà la Morte, in una parola…; ferone, invece, come viene intesa nei mari intorno alla Sicilia, per il fatto curioso, misteriosissimo di avere in comune con la fera la coda...
Come se non bastasse, il mare reca i segni delittuosi della guerra e quello che si ricava è un senso di desolazione e di sofferenza. Le vicende si snodano attorno a ‘Ndria Cambria, il ventiduenne “nocchiero semplice della fu regia marina”, che, nel viaggio di ritorno a casa, A Cariddi suo paese natale (situato nell’estrema punta settentrionale della Sicilia), dopo un mese dall’armistizio Badoglio si trova lungo la costa calabra fra il Tirreno e lo Jonio sui mari dello “scilli” e “cariddi”. Nel variegato e complesso paesaggio si muovono diversi personaggi, tra cui le “femminote”, le “contrabbandiere di sale”, il cui racconto corale fa del mare il simbolo della sopravvivenza improntata ad una sensualità primitiva: possedute alle spalle dagli anonimi macchinisti del ferribò (ferry-boat) nelle sale-macchine.
Si sfata intanto il mito dell’immortalità dell’Orca marina, dilaniata dai delfini, che, scodandola, la uccidono:
Eccola là, la famosa orca che dava la morte: goccia di pioggia tornata all’acquasale, polvere tornata alla polvere dell’immortalità marina.
Il suo destino è quello di sfamare la comunità dei “giusti”: i pescatori ridotti alla miseria. Arrivato a casa, dopo essersi accoppiato sulla spiaggia, per disobbligo, con la misteriosa femminota Ciccina Circé, una sorta di maga incantatrice, che l’aveva portato sulla barca a Cariddi, avviene l’incontro col padre, il quale come cantastorie gli racconta gli accadimenti del paese che l’hanno costretto che per risentimento l’hanno costretto a chiudersi in casa da giorni.
Lungo la strada per Messina, dove deve assolvere a un incarico affidatogli dal futuro suocero, l’incontro col Maltese si conclude in un affare che gli avrebbe fatto guadagnare mille lire da impiegare per diversi scopi, tra cui l’aiuto da prestare alla comunità. Tanti gli accadimenti fino a quando la lancia in cui si trova si avvicina si avvicina assai alla prua di un portaerei.
Con la sua uccisione si conclude tragicamente anche il viaggio di ‘Ndria Cambria che muore casualmente colpito in mezzo agli occhi da un proiettile sparato dalla sentinella del portaerei. Si tratta di una narrazione demitizzante che restituisce un’odissea senza salvezza “in un mare di lagrime”, “disfatto a ogni colpo di remo”.
D’Arrigo non è tutto qui, a suggestionare è la sua originalissima e personale tessitura linguistica:
Il disagio e la desolazione della guerra e della povertà, come anche l’ombra incombente della tragedia e della morte si mutano nell’armonia, nel fascino e nella ricchezza della realtà che qui più conta, quella linguistica, appunto (G. Occhipinti, “La parola di Stefano D’Arrigo", “Cronorama”, n. 16-17/Gen.-Apr. 1979).
Il fascino del Mediterraneo in letteratura
Con Occhipinti, legato alle suggestioni d’un luogo più a sud di Tunisi dove i tramonti di Punta Braccetto e Camarina rievocano il fascino del mistero orfico mediterraneo, ritorna l’incantesimo del mare. Nel romanzo Un rapporto postumo (Cappelli, 1985), egli scompone le ambiguità del dramma dell’io, mentre un procedimento memoriale lo fa accedere ad un passato recente e lontano all’indietro di duemila anni, entro un territorio bagnato dal “liquido regno di Teti e Nettuno”.
Avviene un progressivo straniamento volto alla ricerca di una identità alla ricerca del padre sullo sfondo della “sabbia africana delle dune”, appena intravisto da lui ragazzo.
Nelle proiezioni dell’inconscio, il mare è luogo di piacere e di godimento, dell’incontro sensuale come in una religiosità dionisiaca o un modo di esorcizzare la morte alla quale conduce “l’inarrestabile corsa di Crono”.
Nella cartografia immaginaria spicca uno spazio abitato dal Gran vegliardo dal cui racconto acquista concretezza Rosekambra: una stupenda fanciulla che, col giovane pastore Eloro, fugge a bordo di una vecchia triremi.
Del loro viaggio è chiarito lo scopo:
I due giovani intendono conoscere e rifare l’itinerario di quel tale uomo-Cristo che nei racconti di Saulo poteva tutto: camminare sull’acqua, smuovere i monti, resuscitare i morti, insegnare che tutti, schiavi e padroni, poveri e ricchi, sono uguali al cospetto del Signore del cielo, del mare e della terra.
Senonché, dinanzi alla speranza spezzata dei due amanti, inghiottiti dal mare in un naufragio, nonostante l’itinerario di “redenzione” sulle orme del Nazareno, fa la sua comparsa il disincanto. Avvincenti gli altri profili di donna raffigurati (Bettjmaria, Marika, Claudia) nel compimento d’un viaggio che è ritorno alla casa natale mentre il mare è lo spettatore dell’inappagato anelito alla vita. Lighea, l’Orca marina, Rosekambra sembrano concepite per testimoniare un fallimento.
Forse sta qui il “non-senso” della vita, della storia e del mare dei siciliani:
“Che ha portato alle loro spiagge i cavalieri berberi e normanni.”
(L. Sciascia, “Sicilia e sicilitudine” in “La corda pazza”, Einaudi 1970).
A prevalere è il desiderio di immergersi nel silenzio malioso delle sirene per l’illusione di un’eternità possibile nella menzogna della favola, nel nulla dinanzi agli enigmi del nirvana.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Il mito marino nella narrativa siciliana: da “Lighea” a “Horcinus Orca”
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