Perché non posso non dirmi comunista
- Autore: Mario Alighiero Manacorda
- Genere: Politica ed economia
- Categoria: Saggistica
- Anno di pubblicazione: 2014
Il sistema filosofico di Marx ha cambiato la storia del mondo. Con i suoi princìpi sull’uguaglianza, sull’emancipazione umana e professionale, sulla nobiltà del lavoro, della rivendicazione della lavoratore e della classe proletaria e sulla fusione tra individuo e comunità egli pose le basi della democrazia moderna in senso collettivo, in cui il bene non era a servizio del singolo ma dell’intera comunità (comunismo).
“Perché non posso dirmi comunista, un’utopia che non può morire” (Editori Riuniti, 2014, pp. 112) di Mario Alighiero Manacorda vuole essere un’apologia del suo pensiero che si traduce in un’analisi politica ed economica della società borghese del tempo, e una lucida risposta a tutto ciò che è stato stravolto nel corso degli anni.
Il libro si compone di tre parti:
- Una prima riflessione personale sull’uomo, sulla natura e sulla morale.
- Una riflessione sul pensiero di Marx e Gramsci.
- Una spiegazione di come e perché nel corso di un secolo e mezzo una parte crescente dell’umanità si è dichiarata socialista o per meglio dire comunista.
L’obiettivo dell’autore non è spiegare dunque perché si definisce comunista quanto perché non può non dirsi tale, tracciando nel testo le ragioni di una conseguenza piuttosto che una scelta.
Il libro ha avuto una lunga genesi, con una seconda ristampa più attuale e modificata. Manacorda parte dal presupposto che bisogna saper affrontare le cose serie anche scherzando, è la sua filosofia di vita, ripresa dal modo in cui un cavaliere si presentò in battaglia nel 1865, ed è una sfumatura che permane per tutto il libro.
La morte del suo concetto di politica avvenne con la caduta di Berlino nel 1869, ciò segnò la morte dell’ideologia neomarxista che aveva occupato tutta la seconda metà del XX secolo.
Alla fine della guerra bisognava schierarsi, darsi un’etichetta e gran parte della società scelse quella comunista. L’uomo ha sempre bisogno, sostiene l’autore, di mettere delle etichette ai propri pensieri, appare imprigionato dalla società. Difficile spiegare il perché.
Teorizza dunque una propria concezione dell’uomo, razionale, promotore di eventi, un uomo unilaterale le cui origini partono dal “Convivio” di Platone.
L’immagine che venne fuori dal testo del grande filosofo era di un uomo perfettamente completo, motivo per il quale Zeus anni prima lo aveva diviso in due, indebolendolo.
L’uomo diviene dunque duplice, la cosiddetta duplicità sessuale di Platone e la duplicità di agire in Marx che fantastica un uomo
“capace di operare attivamente e pensare profondamente”.
Ma è una visione utopisica. Gli uomini pur progredendo hanno sempre scelto il peggio, questo è per l’autore un dogma, il canone storiografico fondamentale, l’unico in grado di spiegare il comportamento umano e le sue scelte. Gli uomini preferiscono le tenebre alla luce.
Non si può pensare a una divina benevolenza. Essere comunista implica l’essere ateo, alieno, secondo l’autore, ma non necessariamente secondo il comunismo in genere.
Anche noi, prosegue nel testo, faremo bene a pensare all’universo senza attribuirlo a una mente o a una volontà superiore.
Essere ateo o laico è forse una questione culturale, questa è la nostra cultura, indipendentemente dall’educazione ricevuta. Il comunista è un essere abbastanza superiore, l’autore lo ripone sul piedistallo della gerarchia umana, è colui che vuole essere se stesso in mezzo agli altri.
La sua visione si estende dunque alla natura e a Dio. Ma risulta difficile dare una spiegazione logica anche a questo. Anche il grande scienziato Zichichi spiega che è difficile dimostrare la non esistenza di Dio. L’autore si ferma di fronte questa riflessione così difficile, non sà dare una risposta precisa o meglio ha più familiarità con i testi poetici che con tali spinose questioni religiose.
I cieli hanno sempre dimostrato la presenza di un Dio benevolo, la terra tutta la sua infamia. Rafforza così tutto il suo ateismo e alle Sacre Scritture dove viene narrata la potenza buona di Dio preferisce i testi di Virgilio e la sua visione storica epicurea di mente e corpo mescolati tra loro, dove la mente guida il corpo e la coscienza vive nel corpo e si esprime attraverso esso. Quando il corpo muore con esso muore anche la coscienza.
Ed ecco che ritorna il comunista umanizzato, uno che cerca una ragione umana per la vita degli uomini in questa natura.
Qual è dunque il ruolo della cultura? L’ignoranza culturale, storica (passata e presente), appare uno svantaggio rispetto alla conoscenza dell’uomo colto. In realtà l’uomo colto ha, rispetto al primo, maggiore possibilità di scelta ma non la bontà (o la pretesa) di aver fatto la scelta giusta, è la vita a essere maestra di storia e storiografia e in ogni cosa, tanto gli uomini dotti quanto quelli ignari, si dividono nelle scelte e nessuno potrà mai stabilire chi ha ragione.
Si abbandona così, l’autore, non a un pessimismo umanistico ma a conseguenza, constatazione logica del quale non può farci nulla.
La natura è stupenda e crudele, contraddittoria nel suo insieme, con l’uomo che si divide tra le forze del bene e quelle del male.
Ma se non possiamo far scomparire questa dualità, possiamo adoperarci perché il male si attenui e il bene si diffonda, ecco che risorge dunque l’indole utopistica e positiva dell’autore (e di Marx). Questo è un fine impossibile da raggiungere ma non da perseguire. Potremmo dire che è lo stesso pensiero di Leopardi, per tutti il grande pessimista, per i critici più attenti il grande analitico della realtà, colui che preferiva il sabato alla domenica per la gioia che produce l’attesa della festa.
L’autore si autodefinisce un eretico, non disposto a credere, ma si adopera per il raggiungimento di esso. Essere tra i peggiori e gli infelici, sostiene, è condizione migliore, perché si vive per il godimento del bene, per il raggiungimento del bene.
San Francesco diceva che la perfetta letizia sta nella sofferenza e nei tormenti.
Un mondo di infelici che aspirano alla felicità deve essere il progetto dell’uomo, è questa la perfetta letizia umana e di un comunista che si definisce tale.
Il periodo che va dalla II guerra mondiale alla caduta del muro di Berlino è stato caratterizzato in Italia e nel mondo dal ritorno del marxismo, accantonato poi nuovamente da Giolitti e dal fascismo all’inizio del secolo.
Questo ritorno si è espresso oltre che nell’attiva presenza del socialismo da parte delle masse popolari anche nell’egemonia comunista in tutti i campi culturali, dalle scienze umanistiche e sociali alle scienze matematiche, fisiche e naturali.
Si trattava però di una rilettura umanistica del marxismo, cioè del pensiero di Marx e di tutte la tradizione socialista. Per umanista l’autore intende una ricchezza non solo culturale ma anche morale.
Ed è per questo che Marx, grande umanista, è l’autore al quale si è più ispirato e sente di contraddire numerosi stravolgimenti del suo pensiero economico e sociale.
Marx non è colui che si occupa solo di economia, di capitale e lavoro, che riduce l’uomo a un bisogno, a una merce, a un mero capitale. Non è colui che spoglia l’uomo di anima e spiritualità e lo induce all’alienazione, alla mancanza di creatività personale, finalizzandolo solo al lavoro, ripetuto, grigio, monotono.
Marx non soffoca la libertà personale in nome della collettività, non oppone il comunismo al liberalismo e alla democrazia.
Non è solo colui che ha inventato la lotta di classe e che ha sminuito la religione.
Non ha spinto per la rivoluzione in cui ogni fine e mezzo è lecito purché si attui. Non teneva conto solo della ricchezza materiale, con una visione pessimista della storia e dell’uomo
Come può, si chiede l’autore, essere considerato vicino a tali estreme idee?
Egli sostiene che Marx è stato completamente travisato, nelle pagine del “Capitale” il suo pensiero è semplicemente una lucida constatazione di ciò che era, una critica all’economia borghese di quel tempo.
C’è in Gramsci come in Marx la rivendicazione della persona umana, unico modo per la formazione personale.
Essa si esplica solo nella lotta comune con gli altri uomini per umanizzare la natura e se stessi, lontano dai materialisti che sono poco “spiritualisti”, che disprezzano cioè a parole la materia ma poi le riconoscono un ruolo fondamentale per assicurarsi un posto nella società.
Per Gramsci l’individuo coincide con società, l’individuo che dà risalto e vita alla socialità. Sostiene dunque Grasmici l’unificazione culturale del genere umano, in quanto la diffusione della cultura è importante quanto la sua creazione.
In quest’ambito assumono valore gli strumenti culturali della società, tra questi la scuola.
In quest’ottica la scuola ha il fine di formare il nuovo intellettuale, costruttore, organizzatore per poi inserirlo nella società.
Diversissimi tra loro, Marx e Gramsci hanno in comune
“l’indissolubile nesso tra la produzione materiale e la produzione culturale o spirituale”.
Nella sua osservazione sul sistema capitalistico Marx spiega che ogni ricchezza umana invece di essere ad uso di tutti diventa una merce, con valore di scambio piuttosto che di uso.
L’uomo è ridotto dunque a merce, ciò non è un pensiero di Marx ma la sua visione della realtà.
Egli non parla di abbondanza di merci ma della mercificazione del tutto, dai beni materiali a quelli spirituali.
Questi rappresentano per lui la vera ricchezza umana, la cui produzione e il cui consumo sono i temi portanti del “Capitale”. Ma il sottotitolo del monumentale capolavoro, non può che essere “Critica all’economia politica borghese” la quale riduce ogni cosa a merce di scambio, attenta solo ai beni materiali e alla materializzazione dei rapporti sociali.
Riprende la tesi difensiva dell’autore, questa volta ancora più accesa. Marx non è altro che un materialista che tende allo spiritualismo e nel “Capitale” indaga le cause dell’impoverimento spirituale dell’uomo che l’economia aveva ridotto a puro “oggetto economico”.
Egli non è assolutamente avverso alla storia ma denuncia l’abuso della tecnologia che sì, contribuisce allo sviluppo dell’essere umano, ma anche a un maggiore sfruttamento dello stesso.
La tecnologia riduce ad automi, impoverisce di fantasia e spiritualità, tutti temi odierni e attualissimi che denunciamo ancora oggi, con un Marx che diviene profeta di storia.
In simili condizioni di lavoro sia l’operaio/lavoratore che il capitalista sono alienati, cioè tagliati fuori dal lavoro. Marx non soffoca dunque l’individuo e la sua creatività.
Per lui individuale sta per “privato”, cioè appartenente a pochi individui , il quale si affianca a collettivo,ovvero appartenente a tutti, termine che gli è più consono.
Oggi gli operai della fabbrica moderna si battono per la gestione collettiva di essa e non per l’appropriazione individuale. In essi individualità e collettività coincidono.
Ed è in quest’ottica che Marx oppone il comunismo al liberalismo inteso come appropriazione privata dei mezzi di produzione collettivi.
La creatura oppressa si rifugia dunque nel suo anestetico, nella religione nella quale trova sollievo, essa è oppio dei popoli, spesso li guida con i suoi dettami, privandoli di potere di scelta, ed è difficile dire, ancora oggi, se Marx gli dà a tale conseguenza un’accezione positiva o negativa e se effettivamente è positivo o negativo predicare un pensiero religioso in maniera estrema.
C’è poi la lotta di classe, intrapresa secondo Marx dal proletario che sente di essere la parte sofferente della gerarchia classista e vuole eliminare/migliorare la propria condizione liberando insieme tutte le altri classi, compreso il capitalista. Una società senza classi, eliminando dunque le altre dai loro privilegi. Questa è l’utopia del proletario, di Marx e dell’autore
Per farlo è necessario ribaltare questo stato di cose con una rivoluzione di grande portata, che dovrà essere ricordata come un evento storico e significativo non una semplice assalto.
Marx non insegue dunque la violenza, non è un promotore del terrorismo (come alcuni erroneamente sostengono), egli è continuamente polemico nei confronti di azioni terroristiche e attentati, è contro la violenza dello Stato liberale. È in quest’ottica più pacifica che Marx pone la dittatura del proletariato, attuata sempre per esaltare la condizione sociale e umana del proletario piuttosto che la conquista di potere, anche se si esplica attraverso essa.
Nella sua visione storica Marx ha dunque un nuovo concetto di utopia.
Un’utopia che preclude ogni sviluppo della storia.
Nella sua analisi del sistema capitalistico pone delle contraddizioni insostenibili, tra queste
“il tempo reso disponibile dalle macchine di produzione potrebbe divenire tempo libero per lo sviluppo spirituale di tutti, viene invece trasformato in tempo di pluslavoro in vista del profitto di pochi”.
Ancora una volta il capitale usa l’uomo non per arricchirlo spiritualmente ma per asservirlo ancora di più.
Questa non sviluppa la storia dell’uomo,non è utopia, non è progresso umano, sostiene con feroce fermezza l’autore.
Marx è un’ottimista che auspica sempre per una società futura non classista in cui non ci sarà più sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Rimane questo un concetto etico attualissimo del nostro Stato, dei nostri diritti e della condizione di molti dipendenti e lavoratori moderni.
Marx vede l’uomo appagato solo nel lavoro, lo innalza a essere superiore, a soggetto di godimenti superiori, portatore di ricchezza spirituale e materiale, in grado di dominare le forze della natura.
“Una grande passione umana, un forte senso della vita erano la base della ricerca di Marx”
questa la sintesi del pensiero marxiano e dell’accostamento politico e ideologico dell’autore a questi.
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