Nel luglio del 1890, mentre soggiornava al Grand Hotel di Ceresole Reale nei pressi del Gran Paradiso per festeggiare il suo cinquantesimo compleanno, Giosuè Carducci compose un’ode patriottica in cui risuonava il grido: “Italia, Italia!”. Si intitola Piemonte e si conclude con un appello a Dio in nome della “libertà italiana”. Un traguardo raggiunto, oggi lo possiamo dire.
Il vero protagonista dell’ode carducciana è in realtà Carlo Alberto di Savoia, che in questi versi ci viene presentato come un personaggio shakesperiano, tormentato e dolente, che intuisce il proprio amaro destino di morte, ma infine vede in Garibaldi e nella sua lotta per l’unità italiana una promessa di futuro.
Nel solenne finale la salma del Re viene scortata alla presenza del Signore dai grandi eroi del Risorgimento - tra cui figura anche Santorre di Santarosa - ed è accompagnata da una supplica: che Dio restituisca l’Italia agli italiani.
Rendi la patria, Dio; rendi l’Italia
a gl’italiani.
Dobbiamo leggere la poesia di Carducci in quest’ottica, tenendo ben presente la posizione del poeta considerato il “vate” dell’Italia riunificata. Dopo aver venerato in gioventù la tradizione democratica francese e la rivoluzione giacobina, Carducci nel 1870 ebbe una conversione politica: d’improvviso riconobbe che le idee risorgimentali richiedevano l’appoggio dell’azione monarchica. Vedeva nella monarchia la via migliore per raggiungere l’Unità della penisola; ma non per questo dobbiamo parlare di “conversione monarchica”. In lui lo spirito del poeta conviveva intrecciato con l’agitatore politico in un binomio difficile da scindere. Celebre è anche l’ode dedicata a Giuseppe Mazzini, patriota ed eroe identificato da Carducci come il “politico che pensò e volle e fece una nazione”.
Giosuè Carducci: poeta repubblicano e monarchico?
In questa poesia Carducci celebra il Piemonte come la regione che ha favorito l’unificazione italiana e ci offre un importante quadro storico del Risorgimento, dei suoi eroi, delle sue conquiste e sconfitte. Fa riflettere la posizione carducciana - giudicata forse sorpassata - che vedeva nella monarchia un importante alleato per la libertà della penisola, mentre oggi festeggiamo il 2 giugno. Carducci in ogni caso credeva che la Repubblica dovesse nascere da un “voto popolare” e non dovesse essere imposta, come era avvenuto in Francia negli anni del “fanatismo giacobino”.
Nella prefazione di Giambi ed epodi il poeta scriveva che intendeva accompagnare il popolo italiano verso la forma di governo “più adatta alle sue condizioni”. Si dichiarava ancora repubblicano, ma specificava:
Ora come ora, io non vorrei in Italia la repubblica per solo amore della
repubblica.
In questo suo pensiero possiamo cogliere una visione lungimirante e certamente, nonostante le successive evoluzioni del pensiero carducciano, repubblicana.
Carducci voleva il bene del popolo, non la rivoluzione fine a sé stessa, e questa è la concezione più democratica di tutte. Il poeta non concepiva repubblica e monarchia come due regimi opposti e nemici; la forma di governo era per lui un “falso problema” in un’Italia che ambiva, sopra ogni altra cosa, all’Unità. In quel determinato periodo storico vide dunque nella monarchia sabauda la più perfetta interpretazione degli ideali democratici cui ambiva e la corretta difesa dei concetti, da lui ritenuti sacri, di “libertà” e “giustizia”.
Leggere l’ode Piemonte di Giosuè Carducci in occasione della Festa della Repubblica Italiana ci ricorda come il tema della patria abbia infiammato gli animi dei poeti dall’inizio dei tempi e che la tradizione repubblicana è stata l’approdo finale di una lunga serie di conquiste, vittorie e fallimenti, il fine ultimo della lotta di un intero popolo che inneggiava alla libertà.
Scopriamo testo, parafrasi e analisi dell’ode.
“Piemonte” di Giosuè Carducci: testo e parafrasi
Su le dentate scintillanti vette
salta il camoscio, tuona la valanga
da’ ghiacci immani rotolando per le
selve croscianti:
ma da i silenzi de l’effuso azzurro
esce nel sole l’aquila, e distende
in tarde ruote digradanti il nero
volo solenne.
Sulle vette appuntite e scintillanti al sole salta il camoscio e si riversa la valanga dei ghiacci rotolando sui boschi. Ma dal silenzio dello splendido cielo azzurro esce l’aquila distendendo le sue grandi ali nere nel volo.
Salve, Piemonte! A te con melodia
mesta da lungi risonante, come
gli epici canti del tuo popol bravo,
scendono i fiumi.
Scendono pieni, rapidi, gagliardi,
come i tuoi cento battaglioni, e a valle
cercan le deste a ragionar di gloria
ville e cittadi.
Salve, Piemonte! Da te salgono i canti popolari di guerra malinconici come la melodia sonante dei tuoi fiumi a ricordare le gesta epiche del tuo popolo coraggioso.
Scendono i fiumi in piena come i tuoi battaglioni che cercano i tuoi borghi e le tue città per parlare del rinnovato sentimento di libertà.
la vecchia Aosta di cesaree mura
ammantellata, che nel varco alpino
èleva sopra i barbari manieri
l’arco d’Augusto:
Ivrea la bella che le rosse torri
specchia sognando a la cerulea Dora
nel largo seno, fosca intorno è l’ombra
di re Arduino:
Biella tra ’I monte e il verdeggiar de’ piani
lieta guardante l’ubere convalle,
ch’armi ed aratri e a l’opera fumanti
camini ostenta:
Cuneo possente e pazïente, e al vago
declivio il dolce Mondoví ridente,
e l’esultante di castella e vigne
suol d’Aleramo;
e da Superga nel festante coro
de le grandi Alpi la regal Torino
incoronata di vittoria, ed Asti
repubblicana.
C’è l’antica Aosta, circondata dal praetorio delle mura di Cesare Augusto, che nel grande spazio alpino alza sopra i castelli medievali il solenne Arco d’Augusto fatto costruire in segno di vittoria.
C’è la bella Ivrea dalle rosse torri del castello fatto costruire da Amedeo di Savoia, che si specchia sognante nelle acque grigioazzurre della Dora Baltea, mentre attorno permane l’ombra scura del marchese Arduino (che cercò di fondare un regno nell’Italia settentrionale).
Poi c’è Biella che si volge verso la fertile vallata circostante solcata dagli aratri e dagli attrezzi dei contadini, dove fumano le ciminiere al lavoro.
C’è la possente e paziente Cuneo, che affrontò numerosi assedi, e ora si volge verso il pendio di Mondovì e i vigneti di Aleramo.
Infine Superga dove fu eretta la basilica in segno di vittoria, che le grandi Alpi circondano come un coro festoso, la nobile città di Torino (capitale del Regno) e la repubblicana Asti.
Fiera di strage gotica e de l’ira
di Federico, dal sonante fiume
ella, o Piemonte, ti donava il carme
novo d’Alfieri.
Venne quel grande, come il grande augello
ond’ebbe nome, e a l’umile paese
sopra volando, fulvo, irrequïeto,
—Italia, Italia—
egli gridava a’ dissueti orecchi,
a i pigri cuori, a gli animi giacenti.
—Italia, Italia—rispondeano l’urne
d’Arquà e Ravenna :
e sotto il volo scricchiolaron l’ossa
sé ricercanti lungo il cimitero
de la fatal penisola a vestirsi
d’ira e di ferro.
Dopo la strage dei Goti e l’ira di Federico Barbarossa proprio da Asti, dove risuona il fiume cantante, ti veniva donata, o Piemonte, la bella poesia di Vittorio Alfieri.
Quel grande poeta dai capelli rossi venne come un grande uccello volando sopra l’umile paese. “Italia, Italia!” gridava agli orecchi che non ascoltavano, ai cuori pigri, agli animi oziosi da Arquà a Ravenna.
E sotto il suo volo scricchiolavano le ossa del cimitero e l’intera penisola veniva richiamata alle armi.
— Italia, Italia!—E il popolo de’ morti
surse cantando a chiedere la guerra;
e un re a la morte nel pallor del viso
sacro e nel cuore
trasse la spada. Oh anno de’ portenti,
oh primavera de la patria, oh giorni,
ultimi giorni del fiorente maggio,
oh trionfante
suon de la prima italica vittoria
che mi percosse il cuor fanciullo! Ond’io,
vate d’Italia a la stagion più bella,
in grige chiome
oggi ti canto, o re de’ miei verd’anni,
re per tant’anni bestemmiato e pianto,
che via passasti con la spada in pugno
ed il cilicio
al cristian petto, italo Amleto. Sotto
il ferro e il fuoco del Piemonte, sotto
di Cuneo ’I nerbo e l’impeto d’Aosta
sparve il nemico.
“Italia! Italia!” A quel grido il popolo, che sembrava morto, insorse cantando a chiedere la guerra. E un re Carlo Alberto di Savoia, che ormai aveva un presagio di morte nel viso pallido, decise di estrarre la spada. Giorni trionfanti del fiorente maggio inneggiavano alla libertà nel suono gioioso della prima vittoria dell’Italia.
Quella vittoria che esaltò il mio cuore di fanciullo e che ora, come vate, canto nonostante i miei capelli ormai grigi. Io ti canto, o Re, della mia età fanciulla. Re che per tanti anni sei stato bestemmiato e pianto, che passasti impugnando la spada e con il cilicio cristiano sul petto, come un Amleto italico.
Con le armi, mettendo a ferro e fuoco il Piemonte, riuscisti a sconfiggere il nemico.
Languido il tuon de l’ultimo cannone
dietro la fuga austrïaca moría:
il re a cavallo discendeva contra
il sol cadente:
a gli accorrenti cavalieri in mezzo,
di fumo e polve e di vittoria allegri,
trasse, ed, un foglio dispiegato, disse
resa Peschiera.
Oh qual da i petti, memori de gli avi,
alte ondeggiando le sabaude insegne,
surse fremente un solo grido: Viva
il re d’Italia!
Arse di gloria, rossa nel tramonto.
I’ampia distesa del lombardo piano;
palpitò il lago di Virgilio, come
velo di sposa
che s’apre al bacio del promesso amore:
pallido, dritto su l’arcione, immoto,
gli occhi fissava il re: vedeva l’ombra
del Trocadero.
E lo aspettava la brumal Novara
e a’ tristi errori mèta ultima Oporto.
Oh sola e cheta in mezzo de’ castagni
villa del Douro,
che in faccia il grande Atlantico sonante
a i lati ha il fiume fresco di camelie,
e albergò ne la indifferente calma
tanto dolore!
Mentre moriva il rombo dell’ultimo cannone dietro la fuga dell’esercito austriaco, il re a cavallo discendeva lungo il pendio al tramonto. Raggiunse i cavalieri che giungevano nella polvere e nel fumo della battaglia terminata, allegri per la vittoria, lesse un foglio che diceva: “Resa la città di Peschiera”.
E dai petti sorse un solo grido: “Viva il Re d’Italia!”
La distesa della pianura lombarda brillava rossa di gloria al tramonto, le acque del lago brillavano come il velo di una sposa che si consegna con un bacio al suo promesso sposo.
Pallido il re, dritto sul suo cavallo, fissava nel futuro l’ombra del Trocadero (dove il re si recò a combattere i liberali spagnoli). Lo aspettavano tanti errori dell’esercito piemontese, a partire dalla Battaglia di Novara (l’ultima guerra di indipendenza che si concluse con la vittoria dell’esercito austriaco).
Lo aspettava la villa del Duoro, silenziosa in mezzo ai castagni dinnanzi allo sciabordio delle onde dell’oceano Atlantico, con a lato un fiume profumato di camelie, dimora dei suoi ultimi giorni dove visse nell’indifferente calma del suo dolore.
Sfaceasi; e nel crepuscolo de i sensi
tra le due vite al re davanti corse
una miranda visïon: di Nizza
il marinaro
biondo che dal Gianicolo spronava
contro l’oltraggio gallico: d’intorno
splendeagli, fiamma di piropo al sole,
I’italo sangue.
Su gli occhi spenti scese al re una stilla,
lenta errò l’ombra d’un sorriso. Allora
venne da l’alto un vol di spirti, e cinse
del re la morte.
Innanzi a tutti, o nobile Piemonte,
quei che a Sfacteria dorme e in Alessandria
diè a l’aure primo il tricolor, Santorre
di Santarosa.
Mentre la vita ormai lo abbandonava il re vide una visione straordinaria: il marinaio biondo di Nizza che dal Gianicolo spronava gli italiani contro l’offesa dei francesi, infiammato del sangue italico rosso come il piropo (il “piropo” è un minerale rosso brillante estratto nei nei pressi di Saluzzo, Ndr). (Il marinaio biondo di Nizza è Giuseppe Garibaldi).
Negli occhi spenti del re scese una lacrima e si levò l’ombra di un sorriso.
Allora dall’alto dei cielo lo afferrò un corteo di spiriti e lo porto con sé nella morte.
Dinnanzi a tutti loro, o nobile Piemonte, si trovava Santorre di Santarosa, il rivoluzionario che diede ad Alessandria il primo tricolore.
E tutti insieme a Dio scortaron l’alma
di Carl’Alberto. —Eccoti il re, Signore,
che ne disperse, il re che ne percosse.
Ora, o Signore,
anch’egli è morto, come noi morimmo,
Dio, per l’Italia. Rendine la patria.
A i morti, a i vivi, pe ’I fumante sangue
da tutt’i campi,
per il dolore che le regge agguaglia
a le capanne, per la gloria, Dio,
che fu ne gli anni, pe ’I martirio, Dio,
che è ne l’ora,
a quella polve eroïca fremente,
a questa luce angelica esultante,
rendi la patria, Dio; rendi l’Italia
a gl’italiani.
E tutti insieme scortarono l’anima di Carlo Alberto al cospetto di Dio “Eccoti il re, Signore, ecco il re che disperse il regno e a lungo combatté. Ora anche lui è morto come noi, per l’Italia.”
O Dio restituisci la patria a chi è morto per la sua libertà come a coloro che sono sopravvissuti, come ricompensa per il sangue fumante versato sui campi di battaglia, in nome del dolore che rende simili (agguaglia) le regge e le umili abitazioni, in nome delle glorie nazionali del passato, delle terribili sofferenze presenti (che è ne l’ora; è allusione alle repressioni che seguirono al fallimento della Prima Guerra d’Indipendenza); restituiscila alla nobile polvere dei caduti, che ancora freme di amor di patria, alla luce rifulgente di questa schiera di angeli che è venuta ad accompagnare il trapasso del Re.
“Piemonte” di Giosuè Carducci: analisi e commento
Carducci compone Piemonte ricalcando gli schemi dell’ode civile e patriottica, sull’onda della lirica petrarchesca Italia mia. Il linguaggio è solenne e aulico, denso di latinismi ed esclamative retoriche.
Per celebrare il Piemonte il poeta parte dalla sua peculiarità: le belle montagne, che probabilmente in quei giorni osservava dalla finestra. Il paesaggio naturale viene ritratto nelle sue immagini più selvagge: valanghe, selve e aquile in volo.
In seguito elogia la regione descrivendone i luoghi come seguendo un ideale carta geografica: Aosta, Ivrea, Biella da Nord a Sud.
La rievocazione si conclude con due città determinanti per lo svolgimento del testo: la regale Torino, capitale del Regno, e la repubblicana Asti. Proprio da Asti repubblicana si svolge il racconto ricordando Vittorio Alfieri, che per primo insinuò negli animi degli italiani un grido “Italia! Italia!” risollevandoli alla guerra per l’unità.
Viene poi ricordata la lotta per l’indipendenza ed emerge il personaggio protagonista dell’ode: Carlo Alberto di Savoia. Il re è tra i primi a impugnare la spada contro il dominio straniero per dar nuova vita al popolo italiano.
Il re viene descritto come l’Amleto di Shakespeare, inquieto, tormentato, vinto da mille dubbi che infine scorge i segni del pallore spettrale della morte. La lirica era a lui dedicata, Carducci si focalizzava sul dramma di un re:
A Carlo Alberto di Savoia] […] oggi ti canto, o re de’ miei verd’anni, | re per tant’anni bestemmiato e pianto, | che via passasti con la spada in pugno | ed il cilicio | al cristian petto, italo Amleto
Viene ricordata la sua battaglia per l’indipendenza, la prima vittoria e la sua gloria, poi il suo declino e le sue sconfitte - tra cui figura la battaglia di Novara, vinta dagli austriaci. Mentre il Re si avvia al declino sorge un nuovo eroe dell’unità nazionale: Giuseppe Garibaldi. Carducci afferma che il marinaio biondo di Nizza riuscì a strappare un sorriso e una lacrima al re morente, che vi vede un degno erede della sua lotta e una speranza fiduciosa nell’avvenire.
Nel finale la salma di Carlo Alberto viene scortata in un corteo solenne dai grandi eroi del Risorgimento che sono morti per l’Unità italiana.
La conclusione è una preghiera rivolta a Dio che va ben oltre gli opposti schieramenti di monarchia e repubblica e appare come un fiero elogio alla democrazia: perché l’Italia sia finalmente restituita agli italiani.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “Piemonte”: l’ode all’Italia di Giosuè Carducci da leggere il 2 giugno
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