Roma è la “patria dell’anima” di Giosuè Carducci. Il poeta, di origine maremmana, scoprì nella capitale la propria città prediletta, come testimoniano le lettere a Lidia (pseudonimo dell’amata Carolina Cristofori Piva, Ndr).
Carducci giunse per la prima volta a Roma nel 1874 e vi soggiornò per una breve visita che lasciò in lui un’impressione profonda e duratura.
In quei giorni svagati da turista per le vie dell’Urbe il poeta ebbe l’opportunità di visitare i monumenti più celebri, tra i quali il Pantheon, il Colosseo e le terme di Caracalla, cui tra l’altro dedicò una famosa ode Dinanzi alle terme di Caracalla composta durante il suo terzo soggiorno nel 1877.
In occasione del 21 aprile, in cui si celebra il 2776° Natale di Roma, scopriamo l’amore di Carducci per la capitale e leggiamo uno dei componimenti più celebri dedicati dal poeta alla grandezza di Roma, contenuto nella raccolta Le odi Barbare.
Carducci e la città di Roma
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Ad affascinare Carducci era il mito delle rovine, quelle pietre monumentali ancora intrise della classicità latina che nei suoi versi aulici risorgeva e diveniva grande. Ciò che lo attraeva irrimediabilmente della città di Roma era la sua bellezza superba e, al contempo, malinconica: il contrasto insolubile tra passato e presente, la struggente consapevolezza di una grandezza sfarzosa ora divenuta rovina, la vicinanza senza pari con un presagio d’eternità che vibrava nell’aria e il precipizio dell’oblio che, a ogni passo, ricordava ai mortali la caducità dell’esistenza.
Carducci tornò a Roma nel marzo del 1877 e, a partire dal 1880, iniziò a recarvisi con una cadenza regolare in un pendolarismo continuo tra la capitale e la città Bologna dove aveva posto la propria residenza. Per il poeta, considerato dai contemporanei “il vate d’Italia alla sua stagion più bella” il concetto di patria aderiva perfettamente all’immagine di Roma, da lui salutata nella poesia Nell’annuale della fondazione di Roma come “dea, patria, diva e santa genitrice”. In nome di Roma Carducci si considerava “cittadino d’Italia”, in nome di Roma si considerava poeta.
Salve, dea Roma! Chinato a i ruderi
del Fòro, io seguo con dolci lacrime
e adoro i tuoi sparsi vestigi,
patria, diva, santa genitrice.
C’era, nella città di Roma, un fulgore abbagliante; una luce perfetta che lo destabilizzava e, allo stesso tempo, lo commuoveva. Il contatto con i ruderi e le rovine del tempo che fu gli ispirava una riflessione malinconica sul destino del genere umano, come scrisse in una celebre (e bellissima) lettera a Lidia:
Ho pensato che anche la grandezza di Roma è ruine, e che fra dieci milioni di anni la terra cascherà a pezzi o diventerà una nebulosa. Che sarà del nostro amore e della vita nostra così piena così fiorente così forte, fra dieci milioni di anni; se la grandezza di Roma era pur ieri e oggi è nulla? Dunque amiamo per il presente, per l’ora, per l’istante. Amiamo con gentilezza umana, e, giacché siamo fenomeni, irradiamoci e irradiamo.
La grandezza di Roma sovrastava Giosuè Carducci, lo soggiogava e lo intimoriva facendolo sentire un frammento infinitesimale, un viandante passeggero, nulla più di un “fenomeno” casuale dinnanzi alle logiche solide - e tuttavia imperscrutabili - dell’universo che narravano un’eternità che lui non poteva comprendere né tantomeno concepire. Panta rei, tutto scorre, questo gli suggerivano le rovine nella loro bellezza manchevole, imperfetta, fallibile. Ma non era un sentimento spiacevole: la Roma cantata da Carducci è splendente, è sovrana e regina.
Nelle lettere a Lidia il poeta descrisse anche la sua erranza per la città “divinamente bella”, il piacere dato dal sole caldo sulla pelle, l’ebbrezza di “vuotar bicchieri di vino rosso” in cima ai colli splendenti sotto ‘il grande riso del sole’ dove risuonano le risate di giovani “scherzanti e motteggianti”. Come i più intensi sentimenti amorosi la Città eterna ispira a Carducci una grande gioia, un’estasi, ma anche un dolore sottile, malinconico, che talvolta offusca lo sguardo e i pensieri.
Roma si riverbera nella luce perfetta del suo cielo azzurro senza limiti, del suo sole chiaro e ridente che si riversa sin dentro l’anima. Questa visione ineffabile e duratura, quasi paradisiaca, Giosuè Carducci la trasfonde in una splendida ode, intitolata per l’appunto Roma.
Scopriamone testo, parafrasi e analisi.
“Roma” di Giosuè Carducci: testo
Roma, ne l’aer tuo lancio l’anima altera volante:
accogli, o Roma, e avvolgi l’anima mia di luce.Non curïoso a te de le cose piccole io vengo:
chi le farfalle cerca sotto l’arco di Tito?Che importa a me se l’irto spettral vinattier di Stradella
mesce in Montecitorio celie allobroghe e ambagi?e se il lungi operoso tessitor di Biella s’impiglia,
ragno attirante in vano, dentro le reti sue?Cingimi, o Roma, d’azzurro, di sole m’illumina, o Roma:
raggia divino il sole pe’ larghi azzurri tuoi.Ei benedice al fosco Vaticano, al bel Quirinale,
al vecchio Capitolio santo fra le ruine;e tu da i sette colli protendi, o Roma, le braccia
a l’amor che diffuso splende per l’aure chete.Oh talamo grande, solitudini de la Campagna!
e tu Soratte grigio, testimone in eterno!Monti d’Alba, cantate sorridenti l’epitalamio;
Tuscolo verde, canta; canta, irrigua Tivoli;mentr’io da ’l Gianicolo ammiro l’imagin de l’urbe,
nave immensa lanciata vèr’ l’impero del mondo.O nave che attingi con la poppa l’alto infinito,
varca a’ misterïosi liti l’anima mia.Ne’ crepuscoli a sera di gemmeo candore fulgenti
tranquillamente lunghi su la Flaminia via,l’ora suprema calando con tacita ala mi sfiori
la fronte, e ignoto io passi ne la serena pace;passi a i concilii de l’ombre, rivegga li spiriti magni
de i padri conversanti lungh’esso il fiume sacro.
“Roma” di Giosuè Carducci: parafrasi
Roma nella tua aria pura innalzo la mia anima superba con le sue ali spiegate, accoglila, o Roma, e avvolgila nella tua luce.
Non giungo a te curioso delle piccole cose del mondo: chi mai cercherebbe delle farfalle sotto l’arco di Tito?
Che m’importa se lo spettrale vinaio di Stradella (l’allusione, ovviamente dispregiativa è all’allora presidente del consiglio Agostino De Pretis, Ndr) mescola a Montecitorio scherzi, celie piemontesi e discorsi fuorvianti?
E che m’importa se l’operoso tessitore di Biella (città nota per il lavoro tessile, Ndr) si impiglia, come un ragno attirato in un angolo, nelle trappole da lui create?
Cingimi d’azzurro, o Roma, fai risplendere il tuo sole divino attraverso i tuoi larghi spazi.
Il tuo sole benedice il Vaticano oscuro (riferimento ai complotti papali, Ndr), il bel Quirinale, l’antico Campidoglio che è eletto santo tra tutte le rovine.
E dai tuoi sette colli Roma protendi le tue braccia all’amore infinito che risplende attraverso le tue quiete atmosfere.
Il tuo territorio è come una grande camera nuziale, in periferia si espandono le amene solitudini della tua campagna e il grigio Monte Soratte ne è testimone per l’eternità.
Oh, Monti d’Alba Longa, cantate gioiosi il canto nuziale, canta il grande parco verde del Tuscolo, canta anche la città di Tivoli irrigata dalle dolci acque.
Intanto io, dalla cima del Gianicolo, ammiro l’immenso panorama della città che si protende come la prua di una nave immensa in rotta verso l’impero del mondo intero.
Nave che conduci verso il Paradiso trasporta anche la mia anima nei tuoi misteriosi lidi.
Nei lunghi tramonti il sole rosso della sera infuoca la via Flaminia con i suoi raggi fulgenti che irradiano pace e purezza.
Che anche la mia morte giunga così, sfiorandomi silenziosamente la fronte, e io possa trapassare inconsapevolmente verso la pace della vita eterna, superando i raduni infernali delle ombre e giungendo così al cospetto dei Grandi Spiriti dei Padri (gli antenati, Ndr). Li troverò radunati a conversare lungo le sponde del nostro fiume sacro (il Tevere, Ndr).
“Roma” di Giosuè Carducci: analisi e commento
La visione che Carducci ha di Roma in quest’ode è quasi mistica: come un novello Dante il poeta sembra attraversa la Città Eterna alla ricerca del Paradiso e, infine, lo ritrova proprio sulle rive del Tevere dove immagina radunati in un colloquio gli antenati.
La grandezza dell’Urbe viene accostata a qualcosa di ultraterreno, che va oltre l’umano. Carducci dice infatti di non essere in cerca di risposte ai piccoli e vani dubbi dell’esistenza umana, da lui paragonati all’inconsistenza delle farfalle (creature belle e aeree che vivono un solo giorno), al cospetto della eterna maestosità delle rovine secolari. Similitudini e metafore si riconcorrono e intrecciano nel testo carducciano che ha una valenza ermetica, appena mascherata sotto l’aspetto di un’ode descrittiva ed encomiastica.
L’autore sembra parlare della magnificenza della capitale ed elogiarne monumenti e paesaggi; in realtà, tra le righe, ci sta parlando di tutt’altro: della transitorietà della vita umana, dei fasti del Passato, dell’Eternità dell’aldilà di cui i mortali avvertono in vita solamente il vago presagio.
Roma, con la sua luce ineffabile e l’immensità del suo cielo azzurro, in questi versi appare come l’anticamera del Paradiso.
Sin dalla solenne apertura dell’Ode Carducci si rivolge alla città in una sorta di preghiera, come se stesse supplicando una divinità prostrandosi ai suoi piedi.
Alla Città Eterna il poeta affida la sua anima, il suo spirito perché lo innalzi al di sopra della vanità effimera delle cose umane.
Affidandosi al Regno dello spirito Giosuè Carducci denigra l’inconsistenza dei problemi che affliggono gli uomini del suo tempo, come le chiacchiere vacue e gli inganni del Presidente del Consiglio, Agostino De Pretis, che l’autore riduce a cosa di poco conto. Con versi avvelenati Carducci si schiera contro i politici della sua epoca, che hanno tradito i grandi ideali risorgimentali e ora lui ritiene responsabili del degrado e della rovina della capitale.
Non gli importa nulla delle trappole e delle losche faccende umane, poiché si trova al cospetto di qualcosa di più grande. La memoria dei tempi che furono - che nella capitale permane intatta - sembra così purificare la barbarie del presente in un’opposizione netta, ma salvifica.
Roma è, appunto, la “patria dell’anima” ciò che innalza Carducci al cospetto di un’Eternità improvvisamente tangibile e concreta.
Tutto, infine, viene spiegato attraverso la metafora della nave: la bellezza dell’Urbe ha il compito di trasportare, proprio come un’imbarcazione, lo spirito del poeta al cospetto degli antenati, delle anime somme che ora dimorano nei cieli e sono in grado di trasmettergli una visione vera e profonda della vita. Ritorna il tema, caro a Carducci, dell’eredità della cultura, della moralità e della civiltà trasmesse dalla Classicità.
Roma si carica quindi di uno splendore ideale, quasi utopico. La fede laica di Carducci investe le rovine romane di un significato spirituale: nel loro eterno splendore sono custoditi gli insegnamenti degli antichi di Padri. Soltanto attraverso la conoscenza del passato potremo immaginare un futuro possibile. La peregrinazione del poeta per Roma si conclude con una visione ineffabile: immagina la sua stessa morte, ma non come un presagio di sventura, tutt’altro, vi intuisce una migrazione dolce - e non violenta - verso un sapere più grande. Quella conoscenza suprema della vita è depositata, secondo Carducci, sulle sponde di un sacro fiume pagano, il Tevere.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “Roma” di Giosuè Carducci: un’ode alla Città Eterna
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