Giosuè Carducci iniziò a scrivere la poesia Nevicata nel mese di gennaio del 1881. Gennaio è tempo di neve, se ne avverte il sentore nell’aria bianca che si fa pesante e profuma di zucchero. Anche la città di Bologna quell’anno era ammantata d’inverno e il poeta scrutava i fiocchi cadere nel cielo color cenere.
Nella scrittura il paesaggio si faceva specchio riflesso del sentire dell’anima. Quando inizia a scrivere Nevicata Carducci sa che la sua donna, la sua amante - la scrittrice Carolina Cristofori Piva, sta morendo. Le sue condizioni di salute si sono aggravate e per lei ormai non ci sono più speranze. Quell’inverno gelido - con il suo freddo ghiaccio che si infiltra nelle ossa, senza tregua - diventa quindi il presagio di una morte incombente.
Giosuè Carducci e Carolina Cristofori Piva si erano conosciuti per la prima volta il 9 aprile 1872, a Bologna. Carducci all’epoca aveva trentasei anni, era sposato e aveva due figli, mentre Carolina era una giovane aspirante poetessa di origine mantovana che risiedeva a Milano. Tempo prima lei gli aveva scritto una lettera in cui confessava tutto il suo amore per i suoi versi, diceva che “ne era stata rapita” a tal punto da baciare la copertina del libro; lui gli rispose, e iniziò così una fitta corrispondenza testimoniata da un carteggio epistolare di ben 578 lettere.
La loro relazione durò sei anni. Carolina divenne la musa ispiratrice del poeta; era lei la Lidia delle Odi barbare, definita “Ebe divina”, “angelo”, oppure “pantera”. Era stato un rapporto tumultuoso, non scevro da gelosie e incomprensioni, che negli ultimi anni si era incrinato.
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Ora Carolina stava morendo, e nulla aveva più senso. Giosuè Carducci scriveva Nevicata con l’animo oppresso dall’angoscia di non poter in alcun modo evitare un dramma imminente.
La lirica ha infatti il ritmo opprimente, serrato, di una marcia mortuaria. È scritta in distici elegiaci, lo stesso metro usato per le lamentazioni funebri e per la lirica amorosa. Amore e morte si confondono nei versi senza rima, diventano un solo suono, un’unica invocazione.
Nevicata sarebbe stata conclusa nel marzo del 1881, come riporta la data scritta in calce al componimento. Carolina Cristofori Piva si era spenta il 25 febbraio, sconfitta dalla tisi; le sue condizioni erano peggiorate drammaticamente dopo la morte del suo primogenito, Guido. Carducci, nonostante la fine della loro relazione, l’aveva accudita fino all’ultimo.
Ora lei riposava al cimitero della Certosa immersa in un sonno eterno; lui farneticava di raggiungerla, guardando quella neve bianca che si posava sulle cose riducendole al silenzio. Immaginava anche il suo cuore farsi quieto, finalmente domato, sprofondare nell’ombra dell’eterno riposo.
Scopriamone testo, parafrasi e analisi di Nevicata contenuta nella raccolta carducciana delle Odi barbare.
“Nevicata” di Giosuè Carducci: testo
Lenta fiocca la neve pe ’l cielo cinereo: gridi,
suoni di vita più non salgono da la città,non d’erbaiola il grido o corrente rumore di carro,
non d’amor la canzon ilare e di gioventù.Da la torre di piazza roche per l’aere le ore
gemon, come sospir d’un mondo lungi dal dì.Picchiano uccelli raminghi a’ vetri appannati: gli amici
spiriti reduci son, guardano e chiamano a me.In breve, o cari, in breve – tu càlmati, indomito cuore –
giù al silenzio verrò, ne l’ombra riposerò.- Marzo 1881.
“Nevicata” di Giosuè Carducci: parafrasi
La neve scende lenta dal cielo color cenere: non si levano più dalla città suoni vitali.
Non si ode il grido della venditrice di erbe, o il rumore del carro, non si sente il canto spensierato d’amore della gioventù.
Dalla torre della piazza risuonano i rintocchi delle campane che scandiscono le ore, ogni rintocco è come il sospiro che anticipa il presagio di un mondo a venire.
Uccelli vagabondi picchiano con i becchi sui vetri appannati: sono gli spiriti degli amici morti che ora ritornano e mi guardano e mi chiamano.
Presto, verrò presto, miei cari. Tu riposa, mio cuore indomabile, giungerò nel silenzio e riposerò nell’ombra del regno dei morti.
“Nevicata” di Giosuè Carducci: analisi e commento
La neve nella poesia di Giosuè Carducci è metafora di morte: rappresenta una conclusione pacificatrice, rasserenante, un riposo dai drammi dell’esistenza. L’aggettivo utilizzato per descrivere il cielo invernale non a caso è “cinereo”, che rimanda alla cenere delle urne e dunque all’idea del fine-vita. Anche l’anafora scandita del “non” nei primi versi sembra richiamare un’idea di negazione, dunque di fatalità.
Il poeta riflette nel paesaggio di nudo e spoglio di gennaio il dramma della scomparsa imminente dell’amata cui si annoda il presagio della sua stessa morte. Nello smarrimento del dolore il poeta intuisce il sollievo dato dal riposo del sonno eterno.
I rintocchi del campanile che risuonano nel silenzio sembrano segnare l’estremo limite tra due mondi, la linea di demarcazione tra la terra e il cielo. Le ore fuggono - tempus fugit - e così pure la vita.
La descrizione del paesaggio ovattato di gennaio, immerso nel gelo, sembra fare da protagonista nei primi versi ma presto cede il passo all’interiorità del poeta che nella neve rispecchia la propria tristezza.
Gli ultimi distici sono più riflessivi e ci accompagnano in una meditazione profonda. Nelle immagini degli uccelli che battono ai vetri con i becchi Carducci scorge, in una sorta di visione allucinata, gli spiriti degli amici morti che sono venuti a chiamarlo. Allora risponde loro “Presto, verrò presto” e si rappresenta la propria morte come una serena riconciliazione con i suoi cari defunti.
La consolazione del poeta è che anche il suo cuore troverà riposo, un giorno, forse ricongiungendosi nell’ombra delle urne a quello dell’amata.
Una visione, dopotutto, serena e rasserenante, come la neve che si posa sui rumori tumultuosi e frenetici della città e sembra, per un attimo, silenziare il mondo liberandolo dalle angosce come una colomba pacificatrice.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “Nevicata” di Giosuè Carducci: una poesia di amore e morte
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