Nell’anniversario della sua scomparsa ricordiamo Giosuè Carducci con una delle sue poesie più belle, l’ode Davanti San Guido, scritta nel dicembre 1874, in cui il poeta ripercorre i luoghi che gli furono cari durante l’infanzia.
Il 16 febbraio 1907 il poeta toscano moriva nella sua casa di Bologna, sconfitto dalla cirrosi epatica. Aveva 72 anni.
Nel 1906, appena un anno prima della sua dipartita, Carducci era stato il primo autore italiano a ricevere il premio Nobel per la Letteratura. Il prestigioso riconoscimento letterario gli era stato conferito in omaggio alla purezza dello stile, all’energia creativa e alla forza lirica che sprigionava dalla sua poetica.
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Davanti San Guido è contenuta in una delle raccolte più celebri dell’autore, Rime Nuove (1861-1887), che è unanimemente ritenuta la massima espressione dell’opera carducciana.
La poesia è la narrazione di un viaggio mentale, raccontato attraverso le visioni evanescenti scorte attraverso il finestrino di un treno che unisce l’evocazione di paesaggi ormai scomparsi a una confessione intima e appassionata.
Scopriamo testo, parafrasi e analisi della poesia.
Davanti San Guido di Giosuè Carducci: testo
I cipressi che a Bólgheri alti e schietti
Van da San Guido in duplice filar,
Quasi in corsa giganti giovinetti
Mi balzarono incontro e mi guardâr.Mi riconobbero, e – Ben torni omai –
Bisbigliaron vèr’ me co ’l capo chino –
Perché non scendi? Perché non ristai?
Fresca è la sera e a te noto il cammino.Oh sièditi a le nostre ombre odorate
Ove soffia dal mare il maestrale:
Ira non ti serbiam de le sassate
Tue d’una volta: oh, non facean già male!Nidi portiamo ancor di rusignoli:
Deh perché fuggi rapido cosí?
Le passere la sera intreccian voli
A noi d’intorno ancora. Oh resta qui! –– Bei cipressetti, cipressetti miei,
Fedeli amici d’un tempo migliore,
Oh di che cuor con voi mi resterei –
Guardando io rispondeva – oh di che cuore!Ma, cipressetti miei, lasciatem’ ire:
Or non è piú quel tempo e quell’età.
Se voi sapeste!… via, non fo per dire,
Ma oggi sono una celebrità.E so legger di greco e di latino,
E scrivo e scrivo, e ho molte altre virtú:
Non son piú, cipressetti, un birichino,
E sassi in specie non ne tiro piú.E massime a le piante. – Un mormorio
Pe’ dubitanti vertici ondeggiò,
E il dí cadente con un ghigno pio
Tra i verdi cupi roseo brillò.Intesi allora che i cipressi e il sole
Una gentil pietade avean di me,
E presto il mormorio si fe’ parole:
– Ben lo sappiamo: un pover uom tu se’.Ben lo sappiamo, e il vento ce lo disse
Che rapisce de gli uomini i sospir,
Come dentro al tuo petto eterne risse
Ardon che tu né sai né puoi lenir.A le querce ed a noi qui puoi contare
L’umana tua tristezza e il vostro duol.
Vedi come pacato e azzurro è il mare,
Come ridente a lui discende il sol!E come questo occaso è pien di voli,
Com’è allegro de’ passeri il garrire!
A notte canteranno i rusignoli:
Rimanti, e i rei fantasmi oh non seguire;I rei fantasmi che da’ fondi neri
De i cuor vostri battuti dal pensier
Guizzan come da i vostri cimiteri
Putride fiamme innanzi al passegger.Rimanti; e noi, dimani, a mezzo il giorno,
Che de le grandi querce a l’ombra stan
Ammusando i cavalli e intorno intorno
Tutto è silenzio ne l’ardente pian,Ti canteremo noi cipressi i cori
Che vanno eterni fra la terra e il cielo:
Da quegli olmi le ninfe usciran fuori
Te ventilando co ’l lor bianco velo;E Pan l’eterno che su l’erme alture
A quell’ora e ne i pian solingo va
Il dissidio, o mortal, de le tue cure
Ne la diva armonia sommergerà. –Ed io – Lontano, oltre Apennin, m’aspetta
La Titti – rispondea – ; lasciatem’ ire.
È la Titti come una passeretta,
Ma non ha penne per il suo vestire.E mangia altro che bacche di cipresso;
Né io sono per anche un manzoniano
Che tiri quattro paghe per il lesso.
Addio cipressi! addio, dolce mio piano! –– Che vuoi che diciam dunque al cimitero
Dove la nonna tua sepolta sta? –
E fuggíano, e pareano un corteo nero
Che brontolando in fretta in fretta va.Di cima al poggio allor, dal cimitero,
Giú de’ cipressi per la verde via,
Alta, solenne, vestita di nero
Parvemi riveder nonna Lucia;La signora Lucia, da la cui bocca,
Tra l’ondeggiar de i candidi capelli,
La favella toscana, ch’è sí sciocca
Nel manzonismo de gli stenterelli,Canora discendea, co ’l mesto accento
De la Versilia che nel cuor mi sta,
Come da un sirventese del trecento,
Pieno di forza e di soavità.O nonna, o nonna! deh com’era bella
Quand’ero bimbo! ditemela ancor,
Ditela a quest’uom savio la novella
Di lei che cerca il suo perduto amor!– Sette paia di scarpe ho consumate
Di tutto ferro per te ritrovare:
Sette verghe di ferro ho logorate
Per appoggiarmi nel fatale andare:Sette fiasche di lacrime ho colmate,
Sette lunghi anni, di lacrime amare:
Tu dormi a le mie grida disperate,
E il gallo canta, e non ti vuoi svegliare. –Deh come bella, o nonna, e come vera
È la novella ancor! Proprio cosí.
E quello che cercai mattina e sera
Tanti e tanti anni in vano, è forse qui,Sotto questi cipressi, ove non spero
Ove non penso di posarmi piú:
Forse, nonna, è nel vostro cimitero
Tra quegli altri cipressi ermo là su.Ansimando fuggía la vaporiera
Mentr’io cosí piangeva entro il mio cuore;
E di polledri una leggiadra schiera
Annitrendo correa lieta al rumore.Ma un asin bigio, rosicchiando un cardo
Rosso e turchino, non si scomodò:
Tutto quel chiasso ei non degnò d’un guardo
E a brucar serio e lento seguitò.
Davanti San Guido di Giosuè Carducci: parafrasi
Gli alti cipressi che, in doppio filare, costeggiano la strada verso l’oratorio di San Guido nella Maremma come dei giovani giganti sembrano correre incontro al poeta e guardarlo negli occhi.
I cari cipressi paiono riconoscerlo e, con le chiome piegate all’ingiù, bisbigliano dicendo che finalmente è tornato e gli domandano perché non scende dal treno per fermarsi un poco con loro, visto che la sera nella campagna è piacevole e lui conosce la strada.
Gli dicono di sedersi sotto la loro ombra profumata, da cui si sente il vento di maestrale che arriva direttamente dal mare. I cipressi confessano al poeta di non portare alcun rancore per i sassi che lui tirava loro da bambino, perché non erano colpi dolorosi.
Dicono che tra i loro rami gli usignoli fanno ancora il nido e si chiedono perché lui stia correndo via così velocemente. Di nuovo gli chiedono di restare mentre i passerotti vivaci volteggiano sereni tra le fronde.
Il poeta risponde affettuosamente ai cipressi, dicendo che loro sono tuttora i fedeli amici della sua età più bella (l’infanzia, Ndr), e che vorrebbe sinceramente poter restare in loro compagnia. Ma devono sapere che ormai non è più quel tempo, lui non è più un bambino e loro non sanno che ora è diventato un uomo celebre, un famoso intellettuale. Conosce il greco e il latino, scrive moltissimo, dice di non essere più quel bambino vivace e impertinente che tirava sassi alle piante.
Fra le cime dei cipressi sembra esserci un mormorio di incredulità, mentre rosseggia il tramonto si intravede come un sorriso caritatevole tra il verde scuro delle chiome.
Il poeta allora capisce che i cipressi e il sole hanno pietà di lui. Quel mormorio si trasforma presto in parole con cui i cipressi dicono al poeta che sanno benissimo che lui è un uomo infelice.
Lo sanno perché glielo ha riferito il vento, che è in grado di cogliere i sospiri degli uomini e sanno che nel profondo del poeta si agitano continui conflitti e tormenti che lui non sa come calmare.
Dicono al poeta di raccontare alle querce e ai cipressi la sua tristezza e il suo dolore. Gli consigliano di guardare il mare che è calmo e azzurro, di guardare come gli sorride il sole splendente che tramonta sull’acqua.
Gli dicono che il cielo è punteggiato dagli uccelli in volo e che il verso dei passeri è tanto allegro. Di notte si sentiranno cantare gli usignoli, quindi i cipressi chiedono ancora al poeta di fermarsi un attimo e di non inseguire quei cattivi pensieri che tanto lo fanno soffrire.
I crudeli fantasmi che escono dal profondo del vostro cuore - dicono i cipressi - sono tormentati pensieri che balzano come fiamme putride, uscite fuori dai vostri cimiteri. Fermati passeggero e noi domani, quando a mezzogiorno i cavalli si riposano all’ombra delle grandi querce e c’è silenzio in tutta la pianura assolata, canteremo per te quei cori che eternamente cantano tra terra e cielo; le ninfe usciranno fuori dagli alberi di olmo, facendoti aria con i loro veli bianchi.
L’immortale Dio Pan che sulle colline solitarie a quell’ora se ne va a passeggiare, calmerà i dissapori delle tue preoccupazioni, o uomo mortale, facendo affondare i tuoi tormenti nell’armonia divina della natura.
Il poeta risponde che oltre l’Appennino lo aspetta la Tittì (la sua bambina più piccola, Ndr) e quindi devono lasciarlo andare. Dice che la Tittì è come un uccellino, però non ha piume per potersi vestire.
Tittì mangia ben altre cose che le bacche di cipresso (come fanno i passerotti), dice anche di non essere un seguace di Manzoni che riesce a ottenere alti stipendi per vivere bene. Il poeta dice allora addio ai cipressi e alla pianura che gli è tanto cara.
I cipressi chiedono dunque al poeta cosa devono dire al cimitero, dove riposa la sua cara nonna. E sembrano fuggire come un corteo in lutto che brontola e se ne va via veloce.
In quel momento dalla cima del colle, lì dove c’è il cimitero, lungo la via costeggiata dai cipressi, al poeta sembra di rivedere nonna Lucia, una figura alta, solenne e vestita di nero.
La signora Lucia, coi capelli bianchi e mossi, che parlava il vero toscano, tanto bello e diverso dall’uso che ne fanno i seguaci di Manzoni.
La vede scendere dal cimitero parlando con un tono musicale, con quell’accento un po’ triste tipico della Versilia; il tono della nonna, forte e soave insieme, ricorda al poeta i canti popolari del Trecento.
Il poeta ricorda la nonna Lucia, dicendo quanto era bella la favola che gli raccontava da bambino, di raccontarla di nuovo all’uomo adulto la favola della fanciulla che cerca il suo amore perduto.
La favola dice che la giovane ha consumato sette paia di scarpe di ferro per poterlo ritrovare e sette bastoni di ferro ha rovinato per potersi appoggiare nel suo incerto cammino.
Ha riempito sette fiaschi di lacrime, ha pianto lacrime amare per sette lunghi anni, tuttavia il suo amato continua a dormire e anche quando è mattina non vuoi svegliarsi.
Si rivolge di nuovo alla nonna Lucia dicendo che quella favola è proprio bella e vera, e forse la felicità che il poeta ha cercato per tanti anni, forse si trova proprio nei luoghi della sua infanzia.
La pace si trova sotto a quei cipressi dove ormai non spera di sedersi mai più, oppure è lì nel cimitero dove riposa la nonna, tra quei cipressi sulla collina.
Il treno corre via sbuffando vapore, mentre il poeta osserva malinconico un branco di puledri correre dietro alla locomotiva in transito.
Vede anche un asino grigio che, mentre rosicchia un cardo rosso e azzurro, non si sposta d’un passo e non bada al rumore. L’asino non solleva neppure gli occhi al passaggio del treno e continua a brucare lentamente, con un indifferenza granitica, l’erba del prato.
Davanti San Guido di Giosuè Carducci: analisi e commento
Dal punto di vista metrico Davanti San Guido è un componimento in 29 quartine di endecasillabi con schema ABAB, a rima alternata.
La lunga ode, come attesta la datazione, fu iniziata da Carducci nel dicembre 1874 ma conclusa solo molto tempo dopo, nel 1886.
Agosto 1874. Giosuè Carducci si trova a bordo di un treno in corsa verso Nord che durante il viaggio attraversa i paesaggi della Maremma Toscana, territorio natale del poeta. I panorami familiari appena intravisti dal finestrino rievocano in Carducci le memorie delle sua lontana infanzia.
Il poeta intreccia un dialogo con i cipressi - entità naturali inanimate che vengono paragonate a giovinetti giganti - che dall’oratorio sacro di San Guido vanno fino a Bolgheri.
I cari cipressi sembrano riconoscere l’autore - un tempo bambino tra quelle strade - e pregarlo di fermarsi, di sostare un poco presso di loro. Carducci si abbandona quindi al ricordo commovente, malinconico e a tratti ironico, della propria infanzia perduta.
Sin dal principio Carducci confessa ai cipressi di non essere più il bambino vivace di allora che tirava sassi alle piante e correva a perdifiato. Ora è un uomo colto e raffinato, un intellettuale affermato che conosce il greco e il latino, ma si percepisce un fondo d’amarezza nelle sue parole. Solo i cipressi, che svettano come giovinetti nel sole accecante, sembrano comprendere il suo tormento e capire che in fondo è un “pover uomo”.
La campagna sul far della sera assume una forma idilliaca, il sole sembra sorridere tra le foglie mentre i passerotti volteggiano lieti tra le fronde. Il paesaggio naturale sembra predisporre la mente del poeta al ricordo suscitando nel suo animo una nostalgia struggente.
Attraverso le immagini appena intraviste dal finestrino di un treno Carducci si perde in un viaggio mentale nel quale le immagini evocate si intrecciano tra giovinezza e maturità. Tra le persone amate ormai scomparse il poeta ricorda la cara nonna Lucia e il racconto che lei era solita raccontare: la fiaba di una fanciulla che cerca il suo perduto amore (una fiaba popolare toscana all’epoca molto in voga quella di Re Porco, Ndr). E con quel ricordo Carducci sembra evocare la fragilità dei sogni e l’impossibilità dell’uomo di trovare la felicità tanto agognata. Alla spensieratezza fanciullesca dell’infanzia si contrappone quindi la disillusione dell’età adulta.
Il poeta quindi comprende che il tempo della sua infanzia è ormai lontano, perduto, irrecuperabile, come la bellezza di nonna Lucia. Nel suo cuore ruggisce un grido struggente d’addio:
Addio cipressi! Addio, dolce mia pianura!
Il viaggio si conclude simbolicamente al cimitero, dove conduce la duplice fila dei cipressi. Nel cimitero dove è sepolta la nonna Carducci sembra intravedere una visione di pace, una tregua dagli affanni della vita adulta, un ristoro di saggezza.
Ma il treno in corsa - come la vita - procede inarrestabile il suo viaggio, come a ricordare che no, non è tempo di morire.
Davanti San Guido si conclude con un’immagine bucolica che sembra essere un’ode alla natura della Maremma Toscana: puledri selvaggi si inseguono correndo dietro al treno - come un ricordo ruggente della giovinezza ormai perduta - mentre un asino grigio, solitario bruca l’erba silenzioso ignorando il chiasso dei cavalli e della locomotiva in transito.
La contrapposizione tra l’asino e i puledri sembra esemplificare un’ultima metafora della distanza tra la giovinezza e la maturità. Carducci sembra riconoscersi ora nel movimento placido e lento dell’asino grigio, che pare un simbolo della maturità destinata a sfociare nella vecchiaia. I passi quieti dell’asino che si limita a rosicchiare il cardo ricordano gli uomini che ormai non si aspettano più nulla dalla vita, nessuna felicità.
Il finale è tipicamente carducciano, nella corsa del treno che avanza il poeta riflette l’incedere della vita che impone all’uomo di superare l’angoscia e la nostalgia per fare dono al mondo della propria presenza operosa.
Davanti San Guido di Giosuè Carducci: figure retoriche
- La figura retorica principale dell’ode carducciana Davanti San Guido è data dalla personificazione dei cipressi descritti sin dal principio come “giganti giovinetti”. È proprio il dialogo con i cipressi infatti il tema centrale su cui si snoda l’intera poesia, gli alberi accompagneranno l’autore lungo tutto il viaggio attraverso i ricordi.
- Dominante è anche la figura retorica della prosopoea: i cipressi, entità naturali inanimate, prendono parola e si rivolgono direttamente alla persona del poeta. Come si può osservare al verso 5: “Ben torni ormai”/ “Perché non scendi? Perché non stai?”
- Frequenti enjambement scandiscono il ritmo del testo, creando le pause opportune ed evocando i silenzi che intermezzano il ricordo.
- Nel verso Bei cipressetti, cipressetti miei troviamo una doppia figura retorica: l’apostrofe (bei cipressetti) e il chiasmo dato dalla reciproca inversione del costrutto.
- Nel trentunesimo verso Ghigno pio è un ossimoro: poiché viene accostato un termine di fatto dispregiativo il ghigno, sorriso beffardo e malefico, a un aggettivo dolce e bonario. Il “sorriso bonario” sembra quindi rappresentare lo stato d’animo del poeta, percorso da una nostalgia dolceamara.
- Ritorna spesso l’anafora: E so legger di greco e di latino/E scrivo e scrivo/ e ho molte altre virtù ripetezione della congiunzione e.
- Il testo è ricco di similitudini: Guizzan come/ Putride fiamme; v. 67, È la Tittì come una passeretta;, Canora discendea/ Come da un sirventese del trecento.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “Davanti San Guido”: la struggente poesia di Giosuè Carducci sull’infanzia perduta
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