Pietra di pazienza
- Autore: Atiq Rahimi
- Categoria: Narrativa Straniera
- Casa editrice: Einaudi
- Anno di pubblicazione: 2009
“Sang-e-sabur”, pietra di pazienza, è “la pietra che ti metti davanti… davanti alla quale ti lamenti di tutte le tue disgrazie, di tutte le tue sofferenze” e che “assorbe tutte le tue parole… finché un bel giorno va in frantumi… e sei infine liberato.”
Questo, nelle parole della protagonista del libro, è il senso della pietra di pazienza della mitologia persiana. Non un semplice punto di riferimento per sfogarsi dei propri malumori e delle proprie insoddisfazioni, ma un oggetto ricettivo, che assorbe tutto ciò che gli viene buttato addosso, fino ad arrivare alla saturazione, a un punto di non ritorno.
E chi più di una donna, in qualsiasi luogo e in qualsiasi tempo, può avere bisogno di una pietra di pazienza? Anche la società più evoluta e progredita continua imperterrita a considerare la donna un passo indietro all’uomo a mascherare da efficienza il suo oberarsi di lavoro, da virtù la sua sottomissione, da abnegazione la sua schiavitù. Ne soffrono anche le donne apparentemente liberate nel nostro moderno Occidente; e qui si parla di una donna afghana, abituata per sua cultura e per terrore delle conseguenze a tacere, a nascondersi sotto un velo e a camminare con gli occhi bassi.
Si parla di una donna che viene colpita da una disgrazia, che in un modo crudele e paradossale è anche una scossa salutare per lei, una sorta di liberazione che la pone davanti a sé stessa e la spinge a frugare nel proprio intimo e a tirarne fuori i pensieri che aveva sempre nascosto, e i segreti che custodiva con geloso dolore dentro di sé. Una confessione lunga e rischiosa, perché fatta al proprio marito, l’ultima persona che avrebbe dovuto ascoltarla. Ma il marito della protagonista è privo di conoscenza, a causa di una ferita alla nuca riportata durante un combattimento. E’ inerte, gli occhi aperti, il respiro quale unico segno di vita. La donna lo accudisce, lo nutre con acqua e zucchero tramite un tubicino, lo lava e gli parla, in una stanza spoglia di una casa ormai quasi in rovina, mentre fuori momenti di pesante silenzio si alternano a spari, distruzioni, urla di morte.
Perché la donna parla senza alcun pudore a un marito che potrebbe ascoltare tutto quello che lei dice, assorbendolo proprio come la pietra di pazienza, e che come la pietra di pazienza un giorno potrebbe esplodere, risvegliandosi nel modo peggiore? Forse un’impellente esigenza di sfogo, la possibilità di parlare finalmente, di dire “io”, di confessare quello che è inconfessabile, pensando in fondo che un risveglio non ci sarà mai. O forse la donna in realtà spera che il suo uomo la senta, per scaricare la propria coscienza resa pesante dalle bugie e dalle omissioni, o ipotizzando che il suo ascoltarla non potendo reagire possa spingerlo a riflettere su quello che lei dice e a maturare una diversa opinione. Ne nasce un monologo al presente indicativo, immediato, istintivo, fatto di rabbia, dolcezza e disperazione. Frustrata da un marito che le è stato imposto senza neppure conoscerlo, che ha cercato di amare ricevendo in cambio violenza e indifferenza, la donna, nel suo “j’accuse”, afferma sé stessa e il proprio corpo represso, indicato come peccaminoso ma in realtà vibrante di passione mai soddisfatta dalla frettolosità del marito, condanna la guerra che distrugge le famiglie e semina disperazione, si appella a una religione che ormai è quasi solo forma, cantilena nella sua mente. Fino ad arrivare sull’orlo della follia, e dell’esplosione della sua pietra di pazienza.
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