Fine anno, tempo di bilanci e riflessioni. C’è chi è ossessionato dal significato della vita e ricerca infruttuosamente il senso senza trovarlo. C’è chi pensa di averlo trovato ed è felice per questo.
C’è chi pensa di avere trovato il senso e perciò cambia completamente vita; c’è chi, pensando di averlo trovato, continua a vivere come prima, lasciandosi sopraffare dagli eventi, continuando a procedere per inerzia: si lascia quindi trascinare dalla corrente. Non necessariamente pensare di aver trovato il senso della vita significa sapere cosa fare della propria vita.
La stragrande maggioranza di noi continua a vivere, lasciando in sospeso la questione, spesso dimenticandola o addirittura rimuovendola dalla mente.
Ci sono alcuni aspetti della condizione umana che ci terrorizzano: lo scorrere inesorabile del tempo, la nostra precarietà, la nostra incertezza esistenziale, la nostra finitezza. Alcuni ritengono che il senso della vita sia seguire fedelmente i principi e le regole della loro religione. Altri pensano che il senso dell’esistenza sia vivere in armonia con gli altri e con la natura. Altri pensano che bisogna perseguire la felicità; altri ritengono che l’importante sia mettere ordine nella propria vita; altri ancora si impegnano nell’autoperfezionamento; altri aspettano l’illuminazione interiore; altri pregano; altri ancora lavorano per lasciare un patrimonio ai figli; altri fanno del bene agli altri; altri ancora vogliono dare un apporto significativo in qualche ambito della conoscenza umana.
Ci sono alcuni che vivono un’esperienza pre-morte e dopo sono totalmente cambiati: si sentono nuovi o, quantomeno, rinnovati. Già da bambini ci facciamo quelli che Popper considerava gli interrogativi ultimi (dove eravamo prima di nascere?; Verso dove andiamo?; Esiste Dio?; Esiste la vita dopo la morte?).
Da adulti facciamo di tutto per non pensarci. Siamo in mille faccende affaccendati e siamo distratti. La maggioranza di noi non cerca il senso della vita, ma si adegua totalmente al senso che le danno familiari ed amici.
Di solito si vive in modo superficiale, perché il divertissement è l’unico modo per non pensare alla morte, secondo Pascal. Siamo molto conformisti anche in questo. Spesso non ci sforziamo, non andiamo oltre.
Non solo ma, come scriveva Oscar Wilde:
Chi scende sotto la superficie, lo fa a proprio rischio.
Andare in profondità significa approfondire per l’appunto e ciò significa fare sforzi, fare fatica, oltre a scoprire tare e magagne. Essere superficiali è molto più comodo. Così abbracciamo il conformismo. Di solito ereditiamo non solo i geni ma anche religione, convinzioni politiche, comportamenti sociali.
Alcuni, per puro spirito di contraddizione, si mettono contro i propri familiari e scelgono per ribellismo e antitesi.
Tutto ciò mi ricorda il verso di una vecchia canzone di Guccini:
Ma quali scelte hai fatto in piena libertà?
Il senso della vita tra filosofia e letteratura
Alcuni pensatori credono che il vero senso della vita sia nel ricercarlo incessantemente; il fine ultimo sarebbe la “ricerca”, quindi “cercare”, anche senza trovare. Per Heidegger siamo “gettati nel mondo”.
Per Albert Camus nell’esistenza umana esiste l’assurdo, che supera la nostra intelligenza. Ogni uomo è perciò costretto a fare la fatica di Sisifo.
Per Hermann Hesse la vita non ha un senso in sé, ma siamo noi che dobbiamo attribuirle un senso. Per dare un nuovo senso alla vita bisogna imbattersi in un evento, in una persona, in un’idea o in un valore che per noi siano veramente significativi e che ci aiutino a far cambiare rotta.
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Alle volte penso che più che la logica per comprendere la vita ci voglia l’istinto.
Un tempo cercavo delle “ragioni razionali per credere nell’assurdo”, come scriveva un poeta minore e dimenticato della Beat Generation. La vita talvolta mi mostrava la sua illogicità. Non è con la logica deduttiva e con il principio di non contraddizione che si può decifrare la vita, che ha i suoi aspetti contraddittori e conflittuali.
Negli anni Settanta secondo un celebre slogan La vita era altrove, quando ancora pochissimi conoscevano l’omonimo romanzo di Milan Kundera, scritto nel 1973 ma pubblicato in Italia con Adelphi solo nel 1992.
Alcuni in crisi mistica lasciano tutto ed entrano in convento oppure si mettono a girare il mondo per trovare una risposta. Alcuni cercano risposte nell’ipnosi regressiva e una volta che sanno chi sono stati nelle vite precedenti ritengono di essere più consapevoli. Alcuni vogliono sperimentare qualsiasi cosa, vogliono arricchire la loro esperienza, si drogano per espandere la coscienza. Alcuni in odore di santità cercano di annullare il loro io, di annullarsi per dedicarsi totalmente a Dio.
Altri si aspettano una risposta da religiosi, mistici, scienziati, artisti, intellettuali.
Perché il senso della vita ci sfugge
Altri rivalutano la follia e pensano come Montale, che solo i pazzi possano capire la vita “a lampi e sprazzi”: la follia quindi come dispensatrice di conoscenza ultima, tutto il contrario di quello che accadeva secoli fa con l’emarginazione dei folli, con le navi dei folli. Già prima della legge Basaglia qualcuno pensava che i pazzi fossero fuori (dai manicomi). Quasi impossibile capire la nostra vita, quella degli altri e come queste si intrecciano. È bene che ce lo mettiamo in testa: non siamo fatti per capire la vita e non abbiamo alcuna certezza assoluta sul suo significato.
Il senso della vita spesso sfugge irreprensibile.
Ci sono degli istanti di raccoglimento interiore o anche degli attimi comuni in cui ci sembra di aver capito tutto, ma sovente un istante dopo ci accorgiamo che è solo una piccola e povera illusione, un effimero autoinganno. C’è chi pensa come i religiosi che bisogna vivere, pensando all’aldilà, essendo perciò timorosi di Dio, rispettando i suoi precetti. C’è chi pensa come Nietzsche che non bisogna mortificare l’aldiqua per un aldilà di cui non c’è nessuna certezza. Di solito avere fede aiuta prima di tutto i credenti. Chi crede di solito sta meglio, è più in pace con sé stesso, vive più serenamente la vita. Ma questo è vero solo a grandi linee perché è difficile penetrare nell’animo umano, che è per definizione insondabile.
La vita può rivelarsi inesauribile per le opportunità e le sorprese che riserva. Quando tutto sembra perduto un evento o un incontro possono cambiare completamente direzione alla vita.
Alcuni si affidano ai santoni, ai guru dell’occulto. Altri studiano le filosofie orientali, praticano esercizi spirituali e meditazione per raggiungere l’assenza di sé.
La stragrande maggioranza di noi si adegua allo spirito dei tempi. Per i filosofi si dovrebbe pensare spesso alla nostra morte.
La verità è che già difficile per noi pensare alla “morte” in senso lato, quasi impossibile pensare spesso alla nostra dipartita. È una cosa che tendiamo a rimuovere. Solo andare al cimitero, vedere tutte quelle tombe ci ricorda brutalmente che anche noi un giorno avremo un posto lì, che è quello il nostro destino.
Non possiamo sottrarci in nessun modo a questa sorte. Si vive nella nostra comfort zone, ci si affida al solito circolo di pensieri abituali e alle nostre abitudini, che sono lì a confermarci che tutto procede in modo ordinario e che tutto va bene. Le nostre abitudini sono rassicuranti. È meglio il solito grigiore dell’esistenza di una disgrazia inaspettata, della morte di un familiare o un amico. Solo un imprevisto, un triste evento, un fatto irreparabile rompe la monotonia, ci angoscia, ci deprime, ci travolge. Continuiamo la solita vita fino all’ineluttabile, al “rien ne va plus”.
Wittgenstein nel Tractatus scrisse:
Noi sentiamo che, persino nell’ipotesi che tutte le possibili domande scientifiche abbiano avuto risposta, i nostri problemi vitali non saranno neppure sfiorati.
Il senso della vita tra scienza e religione
Sembra impossibile che la scienza ci renda immortali. Allo stato attuale delle conoscenze i medici ritengono che al massimo si possa vivere 120 anni e non oltre. Per soddisfare il desiderio di immortalità gli uomini fanno figli, perpetuando la specie, oppure cercano di creare opere creative memorabili, cercando quindi la gloria postuma. Nonostante lo scientismo attuale il progresso scientifico non può fare chiarezza nel cuore dell’uomo. Può migliorare le nostre condizioni sanitarie, igieniche, economiche, insomma materiali. Però, come si suol dire, l’uomo non vive di solo pane. Almeno in Italia esiste un conflitto latente tra preti e psicologi. Gli uni nutrono scetticismo e perplessità nei confronti degli altri. Sono avversari. I preti dovrebbero curare l’anima. Gli psicologi dovrebbero curare la psiche.
Un tempo psiche significava “anima”. In questa sede ci occuperemo per sommi capi delle scienze umane e del loro studio sul senso della vita.
Il senso della vita secondo la psicologia
Anticamente si riteneva che uno dei fini principali dell’esistenza fosse ricercare il piacere ed evitare il dolore, ma poi si sono accorti che ciò era troppo riduttivo, gretto e materialista. Cercare di dare un senso alla vita significa anche sommariamente e approssimativamente dare un senso all’ignoto, all’esistenza della sofferenza, delle ingiustizie, del male e della solitudine.
La psicologia ha superato perciò la dicotomia del principio di piacere e del principio di realtà freudiani. Insomma non era tutto lì e c’era molto di più. Secondo R. Henrik nel 1980 esistevano 250 orientamenti psicoterapici. Oggi probabilmente sono leggermente aumentate le scuole di psicoterapia e sono sicuramente aumentati in modo esponenziale psicologi, psichiatri, psicoterapeuti, almeno in Italia.
Secondo Mahoney, un epistemologo della psicologia, bisogna sempre ricordarsi che:
La scienza di oggi potrebbe essere l’alchimia di domani.
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In questo articolo mi limiterò a dare alcuni input in estrema sintesi sugli psicologi, che hanno affrontato in modo più esistenziale e approfondito il senso della vita, anche se ogni psicologo ha una sua particolare concezione della vita.
Un limite intrinseco della psicologia è, come sottolinea S. Marhaba, la “soggettività del ricercatore”, che può deformare i risultati.
Jung nel Libro rosso scrisse:
Le cose che accadono sono sempre le stesse. Non è sempre uguale invece la profondità creativa dell’essere umano. Le cose di per sé non significano nulla, assumono un significato soltanto dentro di noi. Siamo noi a dare significato alle cose. Il significato è ed è sempre stato artificiale. Siamo noi a crearlo.
Secondo Adler, fondatore della psicologia individuale, l’uomo per dare un senso alla propria vita deve risolvere il problema occupazionale, il problema sociale e deve trovare l’amore.
Secondo il costruttivismo ogni “uomo è inventore della realtà” e ha una sua particolare visione del mondo. Ogni uomo è allo stesso tempo costruttore e portatore di significato. Ogni uomo è come uno “scienziato”, che elabora teorie e cerca di dare un senso alla sua esistenza.
Tra psicologia transpersonale e piramide dei bisogni di Maslow
Secondo la fenomenologia ogni coscienza è intenzionale, cioè orientata verso l’altro, e ogni visione del mondo è determinata dall’esperienza vissuta.
Viktor Frankl elaborò la sua psicoterapia, la logoterapia, dopo essere sopravvissuto all’esperienza del campo di concentramento. Secondo la logoterapia l’uomo per vivere non deve accontentarsi di ripristinare l’omeostasi, ripristinando l’equilibrio dell’organismo. Deve cercare un senso nell’altro da sé.
Il concetto chiave di questa scuola di psicoterapia è l’auto-trascendenza. Frankl chiedeva a ogni paziente non per quale ragione vivesse ma perché non si uccidesse.
Secondo Frankl:
L’uomo deve andare oltre sé stesso, deve cercare qualcosa o qualcuno, insomma un obiettivo esterno grazie a cui realizzarsi pienamente.
Secondo la psicologia transpersonale, in particolare secondo lo schema psichico di Roberto Assagioli ogni uomo dovrebbe valicare il campo di coscienza ordinario, andare oltre la realtà ordinaria e giungere al proprio Sé per approdare quindi all’inconscio collettivo.
Secondo la psicologia transpersonale l’uomo dovrebbe provare esperienze mistiche, espandere la propria coscienza, anche con lo sciamanesimo. Dovrebbe riconoscersi perciò una “fragile fibra dell’universo” come scriveva Ungaretti.
L’uomo è un “animale simbolico”. All’uomo non bastano solo le equazioni, la logica deduttiva e i nessi causali: vuole anche intuire le forme ed esprimere la propria parte più profonda. Lo psicologo Maslow intervistò migliaia di persone, chiedendo quali fossero i momenti più felici della loro vita. Definì questi momenti peak experience, ovvero esperienze culminanti o di punta. Soltanto chi vive spesso questi particolari momenti, secondo Maslow, è capace di autorealizzarsi. Secondo la piramide dei bisogni di Maslow quelli fisiologici sono solo il primo gradino.
Al vertice della piramide c’è l’autorealizzazione dell’individuo.
La fruizione artistica, la creatività, il rapporto con la natura, l’ascesi, la riflessione intellettuale, fare l’amore sono tutte peak experience.
Lo stesso Leopardi ne Lo Zibaldone scriveva che aveva provato la più grande felicità nel comporre. Ciò va ricordato in quest’epoca contrassegnata dalla decostruzione del simbolico.
Concludendo, ogni cervello umano è unico. Anche i gemelli omozigoti hanno cervelli differenti. La nostra vita è unica e noi stessi siamo unici e irripetibili. Ognuno è una storia a sé. Quindi ognuno può dare un senso unico alla propria vita, se non si lascia appiattire e livellare dai mass media e dalla pressione degli altri.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Qual è il senso della vita? Un’analisi tra filosofia, letteratura e psicologia
Un’ottimo excursus nella letteratura psicologica e non. Peccato per la incongruente conclusione.
Eccellente l’articolo, forse riguardo alla peak experience bisogna ritornare ad Eraclito nella impossibilità di afferrare il logos, il quale, presente e ripetutamente spiegato, risulta ai più incomprensibile.
Il senso della vita non passa dall’intelletto quanto dall’emozione che si accumula durante il tempo vissuto.