Anche quest’anno la Biblioteca Statale Isontina di Gorizia proseguirà l’esposizione dei documenti riguardanti Carlo Michelstaedter conservati nel Fondo Michelstaedter. È un’occasione in più per ricordare il filosofo e poeta goriziano, anche se ogni volta che se ne parla o se ne scrive si è presi dal timore di santificare involontariamente questo giovane straordinario, morto suicida nel 1910, a soli ventitré anni, che con la sua tesi di laurea, intitolata La persuasione e la rettorica, pronunciò un “no” senza appello a ogni scusa inventata per sfuggire alla vita “persuasa”.
Se un ricordo di Carlo dovesse servire a avvicinare anche un solo lettore che ancora non lo conosca alle opere michelstaedteriane che Adelphi ha pubblicato con cura filologica, allora queste righe non saranno state del tutto inutili.
La vita autentica di Carlo Michelstaedter
Quelli in cui Michelstaedter vive la sua breve vita sono tempi in cui l’inquietudine serpeggia in tutta Europa. Kafka si aggira tra i “misteriosofi” mentre Rilke, come scrive Ladislao Mittner, è:
Un pellegrino irrequieto di tutte le terre, di tutti i santuari e cimiteri d’Europa agitato come dal presentimento magnetico di un inevitabile finimondo.
L’irrazionalismo caotico sta per emergere nei suoi aspetti peggiori, spesso senza nemmeno segnare autentiche svolte esistenziali. Non a caso i vari Aragon e Soupault, dopo essersi gettati allo sbaraglio si rassegneranno all’esistenza qualunque che avevano combattuto.
In Italia, sullo sfondo della loro epoca in cui incominciano a maturare i germi della catastrofe, soltanto Pirandello e Michelstaedter, con tono e intensità diversi, riescono a lacerare la trama fitta della retorica (rettorica la chiama Carlo).
Pirandello affonda un bisturi e impietoso nel mondo delle convenzioni sociali per riportare alla superficie uomini schiacciati da una verità improvvisa e angosciante, come l’uomo che parla nella novella La carriola e che sembra uscito dalla penna di Michelstaedter:
Io vedo non ciò che di me è morto; vedo che non sono mai stato vivo, vedo la forma che gli altri, non io, mi hanno data, e sento che in questa forma la mia vita, la mia vera vita, non c’è stata mai … E ho nausea, orrore, odio di questo che non sono io, che non sono mai stato io; di questa forma morta, n cui sono prigioniero, e da cui non mi posso liberare. Forma gravata di doveri, che non sento miei, oppresso da brighe di cui non m’importa nulla, fatta segno d’una considerazione di cui non so che farmi; forma che è questi doveri, queste brighe, questa considerazione, fuori di me, sopra di me; cose vuote, cose morte che mi pesano addosso, mi soffocano, mi schiacciano e non mi fanno più respirare.
Il tema dell’esistenza autentica, del valore individuale da ricercare di là dalle convenzioni sociali e dal sapere precostituito (la rettorica) viene affrontato da Michelstaedter in modo ben più drammatico, ponendo come improrogabili il possesso attuale di se stessi e la rinuncia alla proiezione di sé tra le cose del mondo.
Gli uomini inconsapevolmente vogliono questo valore assoluto, ma gli voltano le spalle per accettare come valori sufficienti il denaro, la carriera gli ideali già dati, procurandosi così l’illusione di essere. In questa esistenza vuota li guida e li inganna il dio della filopsichia, dell’attaccamento alla vita.
Così l’uomo costruisce per sé un’individualità illusoria e si allontana dalla persuasione, che è presenza attuale di sé a se stessi.
Gaetano Chiavacci, uno degli amici prediletti da Michelstaedter, gli attribuì:
carattere di grande rilievo, ferrea volontà e forte ascendente su chiunque lo avvicinasse … corpo agile, forte, bello; era uno dei più intrepidi nuotatori dell’Isonzo.
E Camillo Pellizzi aggiunse che Michelstaedter:
Ebbe la malatia dell’assoluto … egli piombò sulla vita come un aquilotto a rapina; in pochi anni la succhiò, la svuotò, la gettò lontano.
Sono parole che trovano conferma nell’epistolario di Michelstaedter, dove convivono vitalità eccezionale e pessimismo. L’una non si contrappone all’altro, anzi, quando il pessimismo sembra in ascesa, ecco fargli da contrappeso una gioia di vivere esaltante:
Corro, salto, tiro di scherma, comincio a rinascere; ogni banco che trovo per via devo attraversarlo con un salto, le scale le faccio di nuovo a tre a tre, e i tram li piglio in corsa; ho ricominciato a bastonare tuti i miei amici e a far disperare quelli del primo piano.
La tranquilla e solida vita borghese gli suscita irritazione e sdegno. Vede l’esistenza della maggior parte degli uomini come compromesso e come cedimento continuo. Il loro timore di venire a ferri corti con la vita gli appare odiosa, come odiosi sono i soddisfatti, tronfi e grassi borghesi che raffigura nei suoi schizzi.
In una lettera del 1906 scrive alla famiglia:
Non voglio aver niente a che fare col loro modo ristretto e piccino di considerare la vita, antipatici grassi borghesi volgari e stupidi; m‘infischio dei loro gretti concetti, dei loro riguardi, delle loro convenienze, sono stanco del loro ordine delle loro cure del loro ridicolo prodotto che mi opprime con la sua stupida e presuntuosa trivialità.
Non riesce a patire, poi, la gente pallida e semi-incretinita che si aggira nelle aule dell’università. In una lettera del 1909 rappresenta i professori universitari come orribili cornacchie e definisce buffoni e ciarlatani “i Corradi Brandi e i Gabrielli D’Annunzi”, mentre sente il sapore della verità in Tolstoj, Ibsen, Schopenhauere Beethoven.
Del resto, la stessa tesi di laurea di Michelstaedter è una negazione della filosofia per professori.
Michelstaedter: le opere, le lettere, le poesie
La persuasione e la rettorica è infatti l’opera di un genio precoce scritta con stile personalissimo, percorsa da dialoghi, da apologhi, da immagini vigorose, persino da formule matematiche e da canzonette venete, come se l’autore avesse messo a sacco tutto se stesso per gridare la sua verità con rara potenza speculativa. Non era una dichiarazione di guerra alla filosofia, osserva Eugenio Garin, bensì al filosofare come mistificazione, mentre la filosofia dovrebbe essere, per Michelstaedter, un percorso per la liberazione e il possesso di sé.
Questa visione della vita autentica è al centro anche di molte delle lettere e delle poesie di Michelstaedter ed è una visione che il pensiero esistenzialista riprenderà da lì a qualche decennio, senza ma raggiungere, però, il drammatico travaglio che Michelstaedter testimoniò con la sua stessa vita.
Nell’anno della sua morte, il 1910, tutte le tensioni di Michelstaedter si potenziano, i nodi interiori si stringono e la domanda di autenticità si fa urgente, indifferibile. La ricerca del valore individuale prende una luce quasi dolente in una poesia dedicata alla sorella Paula:
Lasciami andare, Paula, nella notte / a crearmi la luce da me stesso, / lasciami andare oltre il deserto, al mare, perch’io ti porti il dono luminoso / … molto più che non credi mi sei cara.
Qualche settimana dopo aver scritto questi versi Carlo Michelstaedter si uccide.
Nino Paternolli, che con lui condivise gli ultimi giorni, scrisse a un amico che Carlo aveva compiuto in quel tempo “una ascesa vertiginosa in gioia ed amore all’ultimo punto”.
Da quella vetta, aggiunge Paternolli, una risposta brusca data alla madre che era andato a trovarlo dovette sembrargli una colpa imperdonabile da lavare con la morte.
E su questo colpo di rivoltella sparato in un giorno d’autunno conviene lasciare Michelstaedter, senza interpretazioni psicologiche o filosofiche sul suo suicidio. Rinunciare a sistemarlo in una casella che pacifichi e rassicuri la nostra mente è l’unico margine postumo di libertà che possiamo offrirgli.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Ritratto breve di Carlo Michelstaedter
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