Ruggero Cappuccio è un uomo dalle molteplici attività e interessi. Oltre a essere uno scrittore di valore, si occupa di attività teatrali come regista di Opera e di Prosa. Il suo ultimo libro, Capolavoro d’amore (Feltrinelli, 2021), è stato presentato nei giorni scorsi dalla Feltrinelli di Palermo, presso il Bistrò del Cinema Rouge et Noir, e ha tra i suoi protagonisti anche la città di Palermo.
Ad aprire la presentazione del romanzo è Roberto Andò. Palermo, tra i protagonisti del libro, è la città siciliana nella sua deriva romanzesca, nella sua infinita moltiplicazione attraverso piani e strati diversi. Capolavoro d’amore è un romanzo di idee, non di azione, e si ascrive in quella tradizione che si potrebbe riferire a Jaques le fataliste di Diderot, cioè a quei romanzi che hanno al centro un modello narrativo che è interrotto da divagazioni in cui la spina dorsale è filosofica.
Si ha in quest’opera di Cappuccio l’incontro, o meglio il re-incontro, tra un uomo di quarantatré anni, antiquario, molto attratto dal bello, e uno zio, musicista, pianista che si è ritirato anzitempo dal rito delle esecuzioni in pubblico. Pianista di grande valore, ha a un certo punto un incontro con Benedetti Michelangeli, altro grande pianista con cui condivide la scelta di ritirarsi.
Il protagonista, Manfredi, torna a Palermo dopo un’assenza di otto anni, da quando la sua amata Flavia lo ha lasciato, inducendolo ad abbandonare l’isola. Questo viaggio a Palermo è scandito dagli incontri con lo zio e da conversazioni sul senso della vita. Condividono entrambi il fatto di dare spazio e risonanza al vuoto, all’assenza; hanno entrambi motivi per farlo, però si aggiunge a questo un “capitolo” che è dedicato al furto del Caravaggio, la “Natività” che fu sottratta, una notte di pioggia del 1969, all’Oratorio di San Lorenzo. Questo zio ha costruito una specie di archivio su questo argomento che attinge agli articoli che scrisse Mauro De Mauro sul giornale L’ORA, agli interventi sulla stampa di Leonardo Sciascia e ad altri.
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Questo è il punto su cui Ruggero Cappuccio ha modo di creare una sorta di controcanto civile a questo tema della bellezza sottratta, di cui questo è certamente uno degli episodi più clamorosi. Anche nel romanzesco, in quanto questo è un episodio criminale mai risolto e destinato a non essere risolto ma su cui poi, per vari motivi, si è creato una specie di fitto albero lussureggiante di vicende fantastiche, perché i pentiti hanno cominciato a raccontare fandonie e quindi è un caso aperto che continua ad arricchirsi di fonti e versioni diverse. E Ruggero Cappuccio ne elenca molte di queste.
Ma non è finita qui, nel romanzo, oltre a questa strada centrale che è quella delle conversazioni con lo zio, vi è anche il peregrinare di questo protagonista antiquario in una Palermo che è legata a certi luoghi ma è ridotta dentro i suoi pensieri. Nel corso di queste sue peregrinazioni, il protagonista incontra una bambina che appare e scompare. Un altro dei grandi temi di questo romanzo è la sparizione, come appuntamento fatale dell’isola; è un’isola dove si sparisce in vari modi anche continuando a esserci ed è appunto questa una delle tesi di Cappuccio. Questa bambina avrà un epilogo che non si può rivelare, rimandando al lettore il piacere di leggerlo e gustarlo nel libro.
Non risulta facile riassumere la trama, poiché non è un romanzo che può essere affidato al solo racconto della sua trama: è un romanzo che ha il suo pendolo interiore proprio in un’ossessione, nella penombra mentale di quest’uomo che in qualche modo sta elaborando questa mancanza, questo abbandono da parte della donna amata. E nel ritornare a Palermo ha tempo di rivedere certi dettagli di questo episodio, ma anche di elaborare il tema del vuoto, dell’assenza. È questo il tema principale che interessa l’autore, oltre ad abbandonarsi a questa Palermo da lui amata e di cui ha scritto in altre sue opere (cfr. Essendo Stato).
In questo spazio risuona il rimpianto, lo struggimento, il pensiero nuovo, il dilatarsi delle idee e delle azioni di questo romanzo, molto piacevole e intrigante, che si legge come trascinati da questa scrittura. Si fa avanti in questo libro una Palermo diversa. Si è abituati a vedere Palermo sotto un angolo che è declinato attraverso le azioni ma qui non vi è nulla. Parafrasando Holden, si potrebbe dire che non succede niente ma succedono molte cose in realtà. Vi sono questi infiniti trasalimenti che sono i pensieri di quest’uomo che sta facendo una partita molto personale. Si parlava di penombra mentale, riferendosi a quello spazio che ci si riserva nella vita, ma a un certo punto ci si fanno i conti più importanti.
Conclude Ruggero Cappuccio: se si ci pensa l’intera storia dell’Umanità potrebbe essere compressa in 24 ore di una giornata. Fingiamo che alle otto del mattino ci siano gli antichi egizi, alle 10 i greci di Socrate, Platone e Aristotele, a mezzogiorno l’impero romano, alle 14 il Medioevo, alle 16 il Rinascimento, alle 18 l’età barocca. Secondo questo gioco si è adesso alle 8 meno venti di un pomeriggio d’estate, giusto in tempo per guardare le ultime luci del sole sul mare. E dopo è notte fonda.
I protagonisti di questo romanzo, un ottantatreenne che si ritira dalle scene a 35 anni, quando è all’apice del successo e suo nipote Manfredi che torna da Roma dopo otto anni hanno questo tipo di consapevolezza; sanno che stanno ammirando le luci del tramonto, sanno che gli rimane mezz’ora di luce, eppure questa mezz’ora di luce, invertendo il gioco, può essere lunga quanto l’eternità; è un lungo viaggio questa mezz’ora, ciò che rimane.
Il romanzo è denso di passioni, è fiammeggiante; l’amore nelle sue declinazioni più numerose si affaccia continuamente dentro i suoi dialoghi. Ma Capolavoro d’amore è anche un romanzo in cui i due protagonisti cercano un’autorealizzazione e hanno una consapevolezza che chiaramente nello zio è più radicata. La consapevolezza che si è, come umanità, un prodotto di genitori, di nonni, di antenati, i quali non ci lasciano soltanto l’eredità delle malattie cardiovascolari o del diabete ma ci tramandano schemi di pensiero. Ci tramandano addirittura molecole oniriche e questo è un tema che soprattutto la psicoanalisi belga e francese sta affrontando con grandissima incisività.
Addirittura i sogni che si fanno non sono sempre sogni con una regia unica. La regia di questi sogni non è soltanto nostra, risentono di risonanze che arrivano da generazioni precedenti. Molte delle nostre azioni e dei nostri schemi reattivi alle cose che ci accadono sono determinati da chi ci ha preceduto e questo determina un patrimonio di memoria che agisce anche a nostra insaputa. E di fronte a questo patrimonio noi corriamo anche dei rischi, perché il rischio della nostra vita è quello di viverla perennemente sotto un doppiaggio. Il labiale è nostro, ma la voce è quella di un nonno, di una nonna, di una zia, di un padre, di una madre, di persone cioè che ci hanno trasmesso questo patrimonio.
Questi due personaggi sono consapevoli di questo patrimonio ed entrambi, ciascuno all’interno della propria età, perché il pianista ha ottantatré anni, Manfredi ne ha quarantatré, stanno lottando per una autorealizzazione personale, per individuarsi.
La vicenda del Caravaggio rubato è una vicenda che diventa un paradigma. L’Italia è un Paese che si è specializzato scientificamente nel farsi rubare le cose, le opere d’arte, i paesaggi violati, i bei monumenti, le architetture sacrificate e soprattutto nel farsi rubare quotidianamente la verità. Ci siamo specializzati in quest’ultima cosa e addirittura secolarmente siamo diventati degli straordinari collaboratori nel farci sottrarre la verità, cioè apriamo le porte dell’appartamento e prepariamo anche una cena ai ladri, possibilmente. Il Caravaggio rubato ha a che fare con tutte le vite dei personaggi presenti nel romanzo e ha a che fare non a una latitudine materica, non ci sono i proprietari, i ricettatori, gli acquirenti; ci sono persone, a vario titolo legate spiritualmente a questo quadro.
In via conclusiva, se dovessi dire che romanzo è, direi che è un romanzo sulla perdita, su ciò che perdiamo e l’appuntamento con la perdita riguarda tutte le nostre vite; si perdono dei luoghi, delle case, delle persone e come si reagisce a queste perdite. Le perdite sono sempre e soltanto delle perdite o c’è qualcos’altro che le può trasformare in un appuntamento prezioso? Perché ogni perdita è un appuntamento prezioso. Non credo che ci siano persone vive e persone morte al mondo e non credo nemmeno nel tempo lineare che è una nostra invenzione per orientarci nello spazio e nelle geografie della vita.
Però se facessimo un esperimento, anche molto elementare, cioè il Settecento, l’Ottocento, il Novecento, barcolla, vacilla sempre. L’esperimento sarebbe quello di chiedere a un bambino, appendendo a un muro un’opera di Giotto e un’opera di Giorgione, quale egli ritenga più vicino a noi. Molti bambini risponderebbero che Giotto è più vicino a noi e questo metterebbe immediatamente in crisi la periodizzazione della Storia dell’Arte. Se guardiamo dei prodotti della cultura Egizia, Maya o Azteca, noi ci troviamo di fronte a una specie di vertigine del tempo che ci dimostra che il tempo è davvero un elemento di comodità lineare che il genere umano doveva inventare e che ha inventato per proteggersi dalle proprie sensazioni e per difenderci dalla nostra profonda intelligenza. Noi abbiamo un’intelligenza del profondo molto forte e abbiamo inventato delle strutture di orientamento nello spazio e nel tempo che ci aiutano a consolarci sul fatto che al fondo la vita è controllabile e il tempo e gli spazi sono perennemente in agguato.
Così raccontato, sembra un romanzo di tramonti, di consapevolezze, di resa, ma non lo è affatto, anzi è un romanzo di reazione interiore di reazione spirituale. E accade un poco come quello che accade quando noi stiamo usando dell’olio per condire un’insalata e quest’olio cade per terra. Ci sono due possibilità: rinunciare all’insalata e disfarsi dell’olio ma la saggezza dei vecchi contadini avrebbe prodotto altro. Usare quell’olio che non si può più usare per l’insalata per accendere una lampada a olio e quindi quell’olio non più utile per alimentarsi fisicamente può essere usato per alimentarsi spiritualmente. Alimentare una lampada a olio per leggere un grande libro e arricchirsi spiritualmente.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Roberto Andò presenta l’ultimo libro di Ruggero Cappuccio: Capolavoro d’amore
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