Simona Sparaco è nata nel 1978 a Roma.
Dopo la laurea inglese in Scienze della Comunicazione, è tornata in Italia e si è iscritta alla facoltà di Lettere, indirizzo Spettacolo. Ha poi frequentato diversi corsi di scrittura creativa, tra cui il master della scuola Holden di Torino.
Per Newton Compton ha pubblicato i romanzi “Lovebook” e “Bastardi senza amore”, tradotto anche in lingua inglese. “Nessuno sa di noi” è il suo ultimo romanzo pubblicato da Giunti. In poche settimane ha venduto migliaia di copie imponendosi ai primi posti della classifica ed è uno dei candidati al Premio Strega 2013.
Vive tra Roma e Singapore.
Simona, intanto ti do il benvenuto a quella che non sarà la solita intervista chilometrica, ma solo 4 chiacchiere contate.
- Prima Chiacchiera: La notizia di una patologia fetale, con conseguente scelta dell’aborto terapeutico, sarebbe capace di rovinare anche una coppia solida con i propri programmi, le aspettative, il futuro ideale di famiglia. Di solito l’uomo, per quanto possa amare e soffrire accanto alla propria partner, rimane una figura marginale. Invece Pietro diventa protagonista positivo e determinante del tuo ultimo romanzo.
È vero che l’amore può colmare i buchi neri lasciati dal dolore, ma cosa sarebbe accaduto a questa coppia se al posto di Pietro ci fosse stato un uomo diverso? Esistono uomini così?
Pietro è un personaggio molto affascinante. E’ un uomo che sa quello che vuole, di fatto il perno della coppia. All’inizio può non piacere, ma a un’analisi più attenta non sfugge la sua sensibilità e il suo altruismo. Se esista un uomo del genere nella realtà non so dirlo, purtroppo drammi come questi dividono più di quanto possano unire. Pietro è un bell’esempio da seguire. Nella letteratura che tratta vicende legate alla gravidanza e alla maternità, gli esempi maschili non sono quasi mai eccellenti. Nel definire il ruolo di Pietro, ho voluto anche dare voce a una mia convinzione: non è il genere di appartenenza ma la sensibilità di una persona a fare la differenza in situazioni come quelle che racconto in “Nessuno sa di noi”.
- Seconda Chiacchiera: Quando una donna si trova a vivere l’esperienza della maternità si pone forse per la prima volta la domanda: “Sarò una buona madre?” e fa un inevitabile confronto con la propria, di madre. La madre di Luce potremmo definirla come una madre assente, una cattiva madre. Qual è l’eredita che Luce deve portarsi dietro dalla sua esperienza di figlia? Quanto tutto questo la condiziona, ora che è lei ad aver bisogno di sentirsi una buona madre comunque?
La maternità gioca un ruolo fondamentale nella formazione di un individuo. Ci possiamo costruire come persone e come genitori per emulazione o per contrappasso, rispetto alla figura materna di riferimento, ma non possiamo prescindere da chi ci ha messo al mondo e chi ci ha accompagnato lungo il percorso formativo. Un cattivo genitore però non significa necessariamente anche un cattivo figlio. Luce deve fare i conti con il proprio senso di inadeguatezza e con i fallimenti di sua madre per riappropriarsi di un’identità e ritrovare la speranza, che altro non è che uno sguardo rivolto al futuro. Ma scendere a patti con i limiti e gli ideali disattesi della realtà è una tappa fondamentale della crescita, e crescere significa anche essere costretti a misurare la propria coscienza su scelte difficili e inimmaginabili come quella che ho messo in scena nel romanzo.
- Terza Chiacchiera: In un’intervista racconti di aver vissuto sulla tua pelle l’esperienza di un lutto prenatale, e di essere venuta in contatto con forum, canali, luoghi virtuali di discussione nella rete dove è possibile parlare e condividere dolori così intimi, che nella quotidianità dei rapporti faccia a faccia, con persone che si conoscono da anni, rimangono per assurdo chiusi nei silenzi.
Scrivere questo libro ha avuto per te anche una funzione terapeutica?
Nei forum è più facile affrontare argomenti delicati come l’aborto terapeutico. C’è più libertà di condividere forse anche perché non ci si mette la faccia. Nella società reale in genere prevalgono il senso di colpa e la vergogna, quando si ha a che fare con vicende simili a quelle di Luce. Da scrittrice ho sentito l’esigenza di dare voce a questa realtà. Inoltre il dolore che accompagna Luce nei momenti bui e dolorosi del distacco e della perdita, è un dolore che conosco. I lutti prenatali in genere sono i più incompresi nella società, scrivere per me ha significato anche scavare e indagare su quel dolore. Invece di chiuderlo in un cassetto, del dolore bisogna prendersene cura, ammansirlo, dargli un senso. La scrittura è un gesto intimo, privatissimo, che solo in un secondo momento può essere condiviso. Ma quanto c’è davvero di noi in quello che abbiamo messo in scena resta un mistero. E tutto questo è senz’altro terapeutico.
- Quarta Chiacchiera: Si è capito da subito che il tuo era un romanzo fuori dal comune. I lettori lo hanno amato fin dalle prime settimane portandolo ai vertici della classifica dei più venduti. E ora la notizia di essere stata selezionata fra i dodici candidati al Premio Strega 2013.
Come stai vivendo questo momento, e in particolare l’esperienza del Premio Strega? Quando hai concluso la stesura del romanzo, hai avuto l’impressione di aver raccontato una storia speciale?
Ogni volta che finisco un libro ho sempre la sensazione di aver scritto qualcosa di unico e speciale. Questa volta ancora di più, perché questa volta ho rotto un silenzio, e lo sentivo necessario. Ma era un salto nel vuoto, una scommessa che potevo anche perdere… erano in molti a credere che questo dramma avrebbe fatto troppa paura, che non avrebbe avuto successo. In realtà è solo l’ignoto a fare paura.
Come forse già sai, ho frequentato la Holden, la scuola di Baricco, e l’anno che entrai ricordo che il Premio Strega lo vinse Ugo Riccarelli con "Il dolore perfetto". Avevo ventitré anni e guardavo il premio Strega come un allievo astronauta deve aver guardato la luna negli anni Sessanta. Ma non ho mai mollato, neanche davanti ai rifiuti, alle critiche gratuite, alle miserie che ti offrono i primi tempi. Neanche davanti allo sguardo che avevano i miei genitori il giorno che ho comunicato loro il sogno di voler diventare scrittore: se gli avessi detto che volevo fare l’astronauta forse mi avrebbero appoggiato di più. Io ho continuato a scrivere, semplicemente. E ora che la luna non è poi così lontana, mi piace ricordare, di quel lontano 2004, una piccola nota appuntata sul mio diario: "Baricco ha detto che forse solo uno di noi pubblicherà e avrà successo. Se non dovessi essere io, ne sarà valsa la pena lo stesso? Direi di sì."
Questa era l’ultima chiacchiera: non mi resta che salutarti e ringraziarti per aver accettato il mio invito, facendoti molti in bocca al lupo per il tuo futuro. Se vuoi lasciare un messaggio al mondo intero, qui puoi farlo.
Dio mio, che responsabilità. Ho sempre preferito i romanzi ai messaggi. Così ognuno poi ha la libertà di cercare, dentro quelle storie, il messaggio che gli si addice di più.
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