Da dove deriva il nome Giufà? Il Nuovo vocabolario siciliano, il Traina (dello stesso avviso è il Pasqualino nel suo Vocabolario siciliano etimologico), attribuendogli qualità di uomo “soro” e allo stesso tempo “lepido e bizzarro”, fa derivare il nome di Giufà da Giovanni: “sciocco, scaltro e intelligente”.
Nel Saggio di etimologie siciliane, il Gioieni sostiene che il nome Giufà possa avere rapporti di parentela col “chiufa” (ciufà) spagnuolo e portoghese, il cui significato è “burla, facezia, motto piacevole”, tant’è che il verbo chufar (giucar) significa “scherzare, folleggiare” eccetera.
Il Calvaruso, in Spigolature etimologiche: lessicografia siciliana, dice di possedere:
Un interessante opuscolo di Storia di Giuhâ, contenente più di cento racconti, taluni dei quali molto simili a quelli che corrono in Sicilia attribuibili a questo personaggio.
Aggiunge che la sua origine sia da ricercarsi in un latino del basso impero e ritiene che la denominazione possa essere desunta dalla voce toscana Giucca, proveniente dal verbo “giocare”, a sua volta dal latino “jocare” (scherzare, motteggiare, dire facezie…).
Evidenzia altresì che nel siciliano il termine giuccu indica “persona da poco, ciuco”.
Esaminiamo più nel dettaglio l’origine del personaggio di Giufà nella narrazione popolare.
Giufà: qual è l’origine del personaggio della tradizione siciliana?
Plurime dunque le ipotesi interpretative, anche se la voce più diffusa, sostiene il Fanfani nel Vocabolario della lingua italiana dell’uso toscano, sia Giucca: “persona sciocca e dissennata”. Da parte sua, il Petrocchi nel Nuovo dizionario scolastico della lingua italiana, rifacendosi ad altri studiosi (per esempio: Caix e Pianigiani), pone in relazione la voce con il latino ex succus (senza succo).
Alcune storie scritte, di fonte araba, risalgono al VII secolo e attraversano un’intera area geografica estesa dal bacino del Mediterraneo fino alla Cina.
Ha scritto la Corrao che molte storie di Ğuḥā/Nasru-d-dīn sono di origine indiana, addirittura buddista, e quindi molto più antiche del Ğuḥā arabo.
Giufà: dalle storie orientali al Decameron
Sicuramente le storie arabe furono conosciute da Giovanni Boccaccio grazie allo scambio culturale tra le popolazioni mediterranee.
È noto che il Decameron ne sia stato influenzato e a ciò dovette contribuire il soggiorno di Boccaccio a Napoli, dove venne in contatto con commercianti provenienti dal Mediterraneo arabo e dalla Sicilia, ascoltando le storie di Ğuḥā.
Riguardo alla somiglianza dovuta al motto di spirito il cui effetto comico piega le difficoltà a proprio vantaggio, ci si potrebbe, per esempio, riferire al racconto Chichibio e la gru: la quarta novella della sesta giornata “sotto il reggimento” di Elissa.
Ecco la trama, dove spicca l’abilità nel dare risposte ironicamente argute e improvvisate al punto di essere risolutive in difficili situazioni: durante una battuta di caccia, Currado Gianfigliazzi, banchiere fiorentino della prima metà del Trecento, cattura una gru che invia al suo cuoco mattacchione Chichibio, ordinandogli di cucinarla per cena. Mentre il cuoco la cucina, arriva Brunetta, la ragazza di cui è innamorato, e gli chiede una coscia della gru. Egli rifiuta, ma, provocato, cede e gliela regala. Servendo la gru a Currado e ai suoi ospiti senza la coscia, è costretto a mentire dicendo che le gru hanno una sola gamba e una sola coscia. Il nobile, arrabbiato dalla menzogna di Chichibio, lo sfida. Sicché, il giorno successivo si recano al lago per verificare l’affermazione.
Giunti lì, i due scorgono diverse gru su una zampa sola, cioè nella posizione in cui questi uccelli sono soliti dormire. Currado, gridando “oh, oh”, corre verso di loro che, spaventati volano via, tirando fuori anche la seconda zampa. Allora chiede a Chichibio:
“Che ti par, ghiottone? Parti ch’elle n’abbian due?”.
La risposta del cuoco ha una notevole prontezza:
“Messer sì, ma voi non gridaste - ho ho - a quella di iersera; ché se così gridato aveste, ella avrebbe così l’altra coscia e l’altro piè fuor mandata, come hanno fatto queste”.
La furbizia di Chichibio fa ridere il nobile Currado e lo perdona per aver sottratto la coscia di gru. La novella è abbastanza simile alla storia araba La gru, riportata da Maria Corrao, dove il personaggio di Chichibio è sostituito con Naṣru-d-dīn Hodja e il personaggio del nobile Currado con Tamerlano:
Un giorno Nasreddin Hoca decise di arrostire una gru per offrirla a Tamerlano. E così fece. Mentre si recava dal sovrano, non potendo resistere al profumo della gru arrosto, ne mangiò una coscia. Quando si trovò davanti al re gli porse il piatto. Tamerlano alzò il coperchio e vedendo una gru con una sola coscia, volle saperne il motivo. Nasreddin Hoca rispose prontamente: “Maestà, non sapete che le nostre gru hanno una sola coscia?”. E indicò al sovrano le gru che dormivano su una sola coscia nei pressi della fontana. Tamerlano esclamò: “Ora ti faccio vedere io se le gru hanno una sola coscia!”.
E diede l’ordine ai suoi servi di colpire le gru con un bastone. Gli uccelli allora abbassarono l’altra zampa e volarono via. Tamerlano, godendosi la scena, disse:
“Vedi mio caro che le gru hanno due zampe?”.
Ma Nasreddin Hoca non si lasciò scappare la battuta:
Che volete, mio signore, se foste stato voi a prendere quelle botte, altro che bipede! Sareste diventato un quadrupede pur di fuggir più velocemente!.
Le storie di Giufà e il Pentamerone di Basile
Come aveva osservato Pitrè, si possono rintracciare le storie di Giufà ne Lu cunto de li cunti, ovvero Pentamerone di Basile attraverso il personaggio di Vardiello (o Virdiello che, tradotto dal vernacolo in italiano suona più o meno “Verdolino”).
Non a caso Benedetto Croce scrisse:
Vardiello è il Giufà e il Giucca delle dette raccolte del Pitrè.
Un accenno a due novelle: la prima è quella delle uova e Vardiello vi siede per non farle raffreddare analogamente a quella che si trova pure in Sicilia. La seconda è quella in cui Vardiello vende la tela a una statua di gesso: storia, questa, che si troverà nel terzo volume di Giuseppe Pitrè Fiabe, novelle e racconti popolari siciliani, raccolta a Casteltermni (Agrigento) da Giuseppe Lo Duca.
Il Vardiello di Basile è scemo e incosciente con una povera madre di nome Grannonia che sempre s’addolora delle sue malefatte. Insomma, è un tipo di un ragazzo ingenuo che si mette sempre nei guai, privo di senno ma non disonesto. Non può non farsi un riferimento più preciso al Bertoldo di Giulio Cesare Croce: il contadino protagonista del romanzo che, pubblicato per la prima volta nel 1606 e fondato su tradizioni orali, ne racconta la storia. Il re Alboino lo ammira per la sua intelligenza, gli si affeziona e gli chiede di rimanere alla sua corte suscitando l’invidia dei cortigiani e l’odio della regina: tante le trappole a lui tese, ma astutamente ne esce vincitore in una serie di episodi comici.
Giufà e l’elemento magico
Link affiliato
La sua furbizia volpina e contadina di Giufà, madre delle opportunità, ricorda dunque per certi aspetti la figura di Bertoldo, ma è anche la fortuna (“una sorta di aiutante magico”) a favorire Giufà, scrive Francesca Maria Corrao:
“Nella tradizione siciliana sono presenti quegli elementi, o aiutanti magici, come il filo delle fate, che non compaiono in altre epopee”.
Siamo nella novella intitolata Giufà e le fate, dove appunto si narra di un intervento magico. Le fate, si sa, come le ninfe, sono spiriti naturali che hanno sembianze di fanciulla e, in antitesi alle Parche, presiedono al dell’uomo, dispensando favori; poiché nei racconti popolari siciliani la loro presenza sembra piuttosto rara, il racconto, che fa leva sull’elemento fiabesco, desta non poca curiosità. Vediamone la trama.
Per evitare che Giufà poltrisse, dopo aver comperato una grande quantità di lino, la madre lo invita a filare. Ma lui gettava nel fuoco la matassa di lino, suscitando reazioni di collera al punto da essere picchiato di santa ragione. Poi, mentre era intento a filare sul tetto di casa, tre fate, che lo videro all’opera, decisero ciascuna di fargli un regalo.
La prima promise che tutto il filo da lui toccato sarebbe stato filato in una notte; la seconda assicurò la trasformazione del lino filato in tela tessuta; la terza disse:
Che in una sola notte possa sbiancare tutta la tela.
Poiché le promesse si avverarono, il mattino dopo Giufà mostrò le belle pezze di tela che, vendute al mercato, fecero loro guadagnare molto denaro. La conclusione mette in luce il suo temperamento di vagabondo:
Tutto andò avanti così per parecchie notti sino a quando Giufà non si stancò e partì in cerca di un altro lavoro.
La fortuna, dunque: se la sciocchezza è l’aspetto più appariscente del personaggio, tale da conferirgli un carattere farsesco, è anche dalla buona sorte che questi ricava un utile e riesce a concludere positivamente le proprie insensate azioni.
Così, il disvalore dello “sciocco” dinamicamente subisce una trasformazione favorevole.
© Riproduzione riservata SoloLibri.net
Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Le storie di Giufà: origine, varianti e riscontri nella storia letteraria
Lascia il tuo commento