Il medico palermitano Giuseppe Pitrè, animato dalle sue convinzioni grafiche e filologiche, oltre che dalla considerazione del folclore siciliano come una delle manifestazioni essenziali della storia dell’Isola, dopo la prima edizione dei Canti popolari siciliani raccolti e illustrati (1871), si avviò alla raccolta di fiabe e novelle, trascritte nel più scrupoloso rispetto della pronuncia dei narratori, in cui, a suo dire, si traducevano anche la loro umanità e sensibilità dall’inconfondibile fisionomia etnica e linguistica oltre che stilistica.
Nel racconto quel che importa è il modo stesso con cui viene raccontato. Da qui il proverbio siciliano, ricordato da Pitrè nel volume La famiglia, la casa, la vita del popolo siciliano:
Cui (chi) la cunta ci metti la junta.
E di Agatuzza Messia, la novellatrice cui appartengono vari generi di racconti (fiabe, novelle, leggende, aneddoti), nella prefazione delle Fiabe, Pitrè poneva in risalto la mimica e l’intonazione della voce senza le quali la narrazione perde metà della forza ed efficacia, la naturalezza del linguaggio così ricco e appropriato e la ricchezza delle immagini per le quali diventano concrete le cose astratte.
All’opera, costituita di quattro volumi ed edita nel 1875 col titolo di Fiabe Novelle e racconti del popolo siciliano, seguirono altre pubblicazioni su fiabe e leggende siciliane che confluirono nella monumentale Biblioteca delle tradizioni popolari siciliane, portata a compimento in meno d’un cinquantennio (1871-1913), grazie anche al contributo di numerosi e valenti collaboratori (tra cui: Salvatore Salomone-Marino che pubblicò nel 1870 "La Baronessa di Carini" e scrisse sui costumi e sulle usanze dei contadini; Serafino Amabile Guastella; Gaetano Di Giovanni): una raccolta del folclore siciliano in 25 volumi con varie sezioni dedicate ai canti popolari, ai racconti, ai proverbi, alle leggende, ai giochi, ai costumi, ecc. e condotte con rigorosa scientificità. In tal modo, si delineava:
“La vita popolare siciliana come si era svolta e soprattutto come si veniva svolgendo. Dai canti, dagli usi, dai costumi, uscivano, come da un affresco, i contadini dell’isola con la loro realtà storica. E qui rimane il merito di codesti studiosi, i quali di quella vita ci delinearono gli aspetti più inquietanti ma più umani”.
Giufà nei racconti popolari di Giuseppe Pitrè
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Consistente la presenza di aneddoti e di storie su Giufà – personaggio dall’ignoto aspetto fisico e senza luogo di nascita che non gli è mai stato assegnato - nei racconti popolari di Giuseppe Pitrè, il quale nell’introduzione alle Fiabe novelle e racconti popolari siciliani, (vol. I), malgrado abbia osservato in modo inesatto che il nome del personaggio coincidesse con quello di una tribù araba, ha scritto:
Ogni popolo ha i suoi personaggi preferiti a cui appioppiare cento storielle di sciocchezze, di furberie, di astuzie, di religiosità, di divozione, le quali, avvenute in un sol luogo, o non avvenute mai, presero qua e là sviluppo e ferma stanza. Però questi personaggi, differenti nei nomi si somigliano nella natura, perché infornati a un medesimo tipo. Quando noi siciliani citiamo il nome di quel Giufà, che un proverbio ci ricorda sempre come uno che ne avesse fatte di tutti i colori, di Ferrazzano, che molti affermano di avere visto fino a ieri; quando i napoletani ricordano col Pentamerone il loro Vardiello, e i greci di terra d’otranto Trianniscia, e i piemontesi Simonett, e i toscani Giucca, e i veneziani El mato, e i bolognesi con altri italiani Bertoldo e Bertoldino, e i catalani Benoyt, e i greci Bakalà: tutti, e siciliani, e napoletani, e piemontesi, e toscani, e veneziani, e lombardi, e spagnuoli, e greci ecc. non ricordano i differenti nomi di due stesse personalità, raffazzonate sul tipo dello sciocco e dello scaltro indiano.
Chi è davvero Giufà?
Chiediamoci ora chi è Giufà. Chi è questo personaggio che misteriosamente ha in sé le molteplici qualità dell’animo umano nella miriade di racconti brevi dalle diverse prospettive su di lui?
Nel suo peregrinare spazio-temporale, da oriente ad occidente e da sud a nord, cambia nome e caratteristiche, adattandosi alle terre dei numerosi approdi. Tra ingenuità, dabbenaggine e arguzia spesso se la cava nella quotidianità; talora riesce a sfidare i potenti e a destrutturare le norme della comunità.
Ci sono altresì casi in cui egli è considerato saggio: ritenendolo tale, anche i detentori del sapere vanno in cerca di lui per interpellarlo su questioni di non facile soluzioni ed egli in merito dice la sua con indiscussa autorità e con una superiorità pressoché magico-oracolare.
Ha scritto Rosy Candiani:
La figura di Giufà, anti-eroe della letteratura popolare orale di tutti i popoli che si affacciano sul bacino del Mediterraneo, è a ragione considerata simbolo del Mediterraneo stesso, in quanto incarnazione della osmosi, della convivenza e dello scambio che da sempre accomunano le civiltà sorte sulle rive del Mar Bianco.
Presenza antichissima, Giufà può essere definito e identificato con la metafora del ponte tra culture diverse ma connesse e comunicanti.
Originario dei Paesi arabi, questo personaggio (come un po’ la figura di Pulcinella) ha viaggiato con le sue storie lungo le rotte commerciali e gli spostamenti verso i Balcani e attorno al Mediterraneo, toccandone tutti i Paesi, salvo Francia e Spagna.
In Tunisia è J’ha il personaggio di origini arabe, con varianti di pronuncia nelle diverse zone del Paese, esattamente come in Sicilia (Pitrè 1875); e forse proprio dalla Tunisia si è insediato in Sicilia con la conquista araba.
Francesca M. Corrao che, nell’opera Giufà il furbo, lo sciocco, il saggio, di Giufà riporta storie siciliane (n.19), storie arabe (n. 32), storie turche (n. 20), si sofferma sulla letteratura umoristica che nel modo arabo occupa un posto di straordinario valore, ricordando il celebre erudito al-Ğâhiz (IX sec.), il quale per spiegare l’umorismo citò un passo del Corano in cui si afferma il nesso inscindibile fra riso e vita in contrapposizione al pianto e alla morte: introducendo, spiega la studiosa, una sua raccolta di aneddoti, Il libro degli Avari, osserva che:
Il riso è la prima espressione, forte e gioiosa, atta ad arricchire il sangue di un bambino.
Il fine non è soltanto quello di divertire, ma di provocare il riso liberatorio:
Che dissipa le tensioni provocate dall’incontro-scontro con il mondo esterno.
Recensione del libro
Giufà: il furbo, lo sciocco, il saggio
di Francesca Maria Corrao
Giufà: briccone o trikster?
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Vengono in mente i buffoni e i giullari da cui ha preso origine la letteratura popolare comica e può dirsi che Giufà rappresenti in buona parte la loro saggezza, qualità importante nella cultura carnevalesca a partire dal Medioevo. Alexander Nikolayevich Veselovsky (1838-1906), nell’articolo su François Rabelais, così ha definito il significato sociale del buffone:
Nel Medioevo il buffone è il portavoce, privo di diritti, di una verità oggettiva astratta. In un’epoca in cui tutta la vita era limitata al quadro tradizionale dei ceti, delle prerogative, della scienza e della gerarchia scolastiche la verità era localizzata entro questi limiti; era relativamente feudale, scolastica ecc., attingeva la sua forza da questo o quell’ambiente, era il prodotto della sua stessa capacità vitale. La verità feudale è il diritto di opprimere il villano, di disprezzare il suo lavoro servile, di fare la guerra, di cacciare nel campo del contadino, ecc.; la verità scolastica è il diritto alla conoscenza esclusiva, fuori dalla quale non ci può essere nulla, poiché bisogna difenderla da tutto ciò che minaccia di turbarla. Tutta la verità universale, che non coincide con questo o quell’altro ceto o professione ben determinati, a buon diritto è stata eliminata, non viene neanche presa in considerazione, è disprezzata, trascinata sul rogo al primo sospetto, la si tollera solo nei casi in cui si presenta sotto una forma anodina, quando suscita il riso e non aspira ad un qualche ruolo più serio nella vita. Cosi si è venuta a definire l’importanza sociale del buffone.
Poiché tra il buffone e il Trikster o Briccone divino sembra situarsi Giufà, diciamo in sintesi che il secondo è un personaggio mitologico di natura in parte divina: in parte animale e umana. Perciò risale alla notte dei tempi quando ancora gli animali erano divinizzati come simboli del Numinoso e la distinzione dei generi non era ancora netta. Tiene un comportamento lussurioso e ingannatore, vorace, nonché disposto all’imbroglio e al furto.
È un briccone amorale e fuori d’ogni regola non conoscendo né il bene né il male; con astuti sotterfugi sa liberarsi dalle situazioni più difficili e intricate. Denuncia le ingiustizie e opera in un modo dove tutto è possibile.
Esempio mitico di trikster è Hermes: nella mitologia romana Mercurio, il dio greco dei confini e dei viaggiatori che conduceva agli inferi e che nel contempo era ladro e truffatore. Kerènyi, con Jung e Radin, ha dedicato il libro più importante su questo personaggio. La figura appare in molte culture e mitologie: per esempio, dal coyote della tradizione pellerossa al Loki nordico.
L’archetipo è universale: un briccone, un imbroglione e ladro, spesso vittima dei suoi stessi raggiri e anche abbastanza pasticcione.
Divertente e simpatico, è raramente malvagio; come Mefistofele nel Faust, gli capita di fare il bene anche quando vorrebbe fare il contrario. Oltre ad essere maestro di astuzia e di fantasia, è campione di amoralità (se non proprio di immoralità), perché non distingue il giusto dall’erroneo e spesso si dimostra senza scrupoli.
Per Jung in questo personaggio luce e ombra convivono e interagiscono fluidamente e la sua componente animale lo rende innocente perché segue sempre la sua natura istintuale. Evidente l’attualizzazione del Trikster nella narrativa popolare dal “Vardiello” del Basile al “Giufà” siciliano al Bertoldo o nella maschera, per esempio, di Arlecchino. A questo punto la domanda ritorna insistente.
Chi è Giufà, tanto radicato nell’immaginario popolare di Sicilia e su cui risulta un “oceano di fiumi dei racconti”, quale espressione dell’inconscio collettivo e diffusi per lo più nell’area mediterranea?
È possibile fare riferimento ad una univoca definizione?
Indubbiamente il personaggio appartiene alla società contadina della cultura orale. Tramandato di generazione in generazione, ha acquistato una diffusa popolarità e può dirsi che pirandellianamente convivano in lui molti volti, tra cui lo sciocco e l’astuto; un mariuolo e un giocorellone; il saggio e il profittatore; l’ingenuo e lo stupido. Francesca Maria Corrao nell’introduzione al suo volume, già citato, Giufà: il furbo, lo sciocco, il saggio (con la prefazione di Leonardo Sciascia), si intrattiene su una proposta etimologica alquanto interessante e precisa che in arabo il nome significherebbe “colui che cammina frettolosamente o le cui azioni non si basano su considerazioni dettate dal raziocinio” (anche ‘deviare dalla retta via’): quindi, Giufà, che non ha una stabile identità, agisce per cieco istinto al punto da non riuscire a compiere una valutazione responsabile del suo comportamento. A dirla con Sciascia, parrebbe “divinamente incauto” e un esemplare di superficialità.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Il personaggio di Giufà nella novellistica popolare: da Pitrè a Sciascia
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