La grande enciclopedia del paganesimo, Le Metamorfosi di Ovidio, dedica la prima parte del secondo libro alla descrizione della reggia del Sole, vista nella sua luminosità e grandezza.
Questa dimora è l’opposto del regno degli Inferi; il dio del Sole illumina con i suoi viaggi l’universo e i suoi ministri, i pianeti, ne ricevono la luce. Ogni cosa, nel momento in cui Fetonte incontra l’augusto genitore, sembra permeato di bellezza luminosa.
Che dire di questa narrazione? Uno storico delle religioni potrebbe osservare che è un aspetto tipico delle religioni indoeuropee, legate agli dei solari, e non di quelle mediterranee, improntate al culto delle divinità lunari. Come stiano le cose, Ovidio è molto attento alla descrizione del dio, alle sue caratteristiche, all’abbigliamento e ai suoi aiutanti.
La luce nel Medioevo: “L’Intelligenza” e la visione divina in Dante
Tutto converge sul concetto di luce come visione, una visione talmente accecante da impedire all’occhio umano di comprenderla.
Un aspetto, quest’ultimo, che si ritrova nel periodo medioevale, così diverso dall’idea di un periodo buio: il Medioevo era amante dei colori, della luce, della gioia. Il messaggio cristiano vede la luce come la Rivelazione divina che ha reso degni di Dio i popoli perduti nelle tenebre del paganesimo.
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Il testo che racconta questa ascesi è L’Intelligenza, un libro misterioso e splendido che ha l’idea della visione di Dio come fine. L’opera risente anche delle convenzioni del tempo, per le quali la spiritualità deve essere accompagnata a concetti materiali e comprensibili al popolo, che non era fatto solo di intellettuali.
Tutto è luminoso ma anche sfarzoso, sgargiante, eccessivo. Nulla della misura antica di Ovidio (che molti non avrebbero compreso), ma un concetto che poteva essere compreso da più.
Dante, nella terza cantica, riprende la visione medioevale dell’Intelligenza, ma l’autore della Commedia è un lettore colto di Ovidio e perciò adotta uno stile più misurato. Nei suoi versi, la luce è più spirituale e intellettuale e non materiale.
Nonostante questo il lettore si fa un’idea (solo un’idea?) dello splendore divino, colto da una visione a cui la mente umana non può arrivare, ma che resta pur sempre un concetto comprensibile.
La luce rappresenta la meta finale dell’uomo, che parte dal buio del peccato per arrivare alla virtù o alla conoscenza.
La misura umana del Rinascimento e lo sfarzo di Marino
Il Rinascimento, pur essendo un periodo luminoso, non sembra essere interessato a questo sforzo. È un’epoca sicura di sé stessa, dove l’uomo è al centro del mondo e tutto sembra raggiungibile a una misura umana.
Il Seicento, invece, è un secolo strano e contraddittorio: scienza e fanatismo si combattono , il mondo si dilata troppo e l’uomo si rifugia nella forma perché ha paura di tutto.
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Giambattista Marino è l’emblema di questo momento storico. Autore poco apprezzato oggi, nell’Adone mostra una cultura simile a quella di Ovidio. Il poema è pieno di palazzi fastosi, pieni di luce, e tutto deve stupire, rendere ragione della grandezza del poeta supremo.
Il lettore è sbalordito e alla fine esausto da tutti gli stimoli che gli vengono somministrati tanto da non sopportarli. A differenza di Dante, Marino è ben consapevole della materialità dell’esistenza e il suo modo di scrivere è sensuale e non intellettuale. Tutto viene colto dai sensi, dagli occhi, dalle orecchie e dal tatto.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: La luce nella letteratura latina e italiana: da Ovidio a Marino
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